Robe da chiodi

A proposito dei piedi di Cattelan

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Due interventi per Vita e per il Sussidiario a proposito del Padiglione Vaticano in Biennale

C’è un fenomeno curioso che sta segnando questa nuova edizione della Biennale d’arte di Venezia: la cosa di cui più si parla è una cosa di cui non gira neanche un’immagine. Un paradosso per una manifestazione che vive di una ingordigia di immagini a 360 gradi, dai social ai siti fino alla carta stampata. L’oggetto di questo felice paradosso è il Padiglione con cui il Vaticano ha deciso di essere presente alla grande kermesse e che verrà anche visitato dal Papa il prossimo 28 aprile. Gli organizzatori, guidati dal cardinale Tolentino, prefetto del Pontificio Consiglio per la cultura, hanno scelto di pensare e allestire il Padiglione all’interno della casa di detenzione femminile della Giudecca. Dato che per entrare in carcere bisogna lasciare all’ingresso i cellulari, ecco che accade il miracolo: la mostra di cui tutti parlano e per la quale tutti si mettono in coda, è una mostra “invisibile”. Invisibile esattamente come le persone che abitano il luogo in cui è stata allestita. Si è creato così un corto circuito che fa saltare le normali dinamiche della comunicazione:  il silenzio mediatico si dimostra molto più potente dell’affannoso e tante volte insopportabile cicaleccio che pervade il mondo dell’arte. Maurizio Cattelan, un artista che è maestro come pochi nel conquistare visibilità cavalcando l’ansia dei nuovi media, ha ammesso che la scelta del Vaticano «è un gesto rivoluzionario perché ci obbliga a mettere piede in un territorio inesplorato, a guardare negli occhi chi ha perso la libertà».
“Con i miei occhi” è il cardinal Tolentino ha voluto per il Padiglione vaticano affidando poi la selezione degli artisti a due curatori Chiara Parisi e Bruno Racine. Un titolo che oggi comprendiamo nella sua pienezza: è una mostra che chiede di essere vista con i “nostri” occhi, senza nessuna possibilità di mediazione. Chi l’ha vista con i “suoi” occhi potrà raccontarcela ma niente di più. Tocca noi andare a vedere e andare a sentire le guide speciali che accompagnano tra le opere degli otto artisti: sono infatti le detenute stesse, vestite con le divise bianche e nere che loro stesse hanno disegnato. Non sono soltanto guide, perché elementi delle loro vite sono confluite in alcune delle opere esposte: le placche di lava smaltate realizzate da Simone Fattal contengono parti di poesie scritte dalle detenute. Che vestono la parte di attrici nel cortometraggio girato da Marco Perego e Zoe Saldana. Claire Tabouret ha realizzato le sue opere partendo dai ritratti da bambine delle detenute e dei loro affetti, ritratti installati in una grande quadreria nella sala adiacente alla Cappella. Infine sulla facciata della cappella Maurizio Cattelan ha fatto dipingere su scala gigantesca della pianta di due piedi di un uomo.  “I piedi insieme al cuore portano la stanchezza e il peso della vita”, ha spiegato l’artista. Quasi un avvertimento di cosa si vedrà solo con i nostri occhi oltrepassando la sogl

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Certamente l’immagine più iconica di questa Biennale veneziana da poco inaugurata è il grande murales fatto realizzare da Maurizio Cattelan sulla facciata della cappella della Casa di Reclusione femminile alla Giudecca. La cappella si affaccia sulla Fondamenta delle Convertite ed è l’unica opera fotografabile del Padiglione Vaticano: le altre sono all’interno del carcere, dove per accedere si devono lasciare, come da norme, i cellulari all’ingresso. Vanno dunque viste dal vero, “con i miei occhi” come sottolineato nel titolo stesso dato al Padiglione. 

L’immagine di Cattelan è costituita dalla pianta di due piedi nudi in proporzioni gigantesche che sembrano fuoriuscire dallo spazio stesso della cappella. Oltre che nudi sono sporchi di terra, profondamente segnati dalla fatica del cammino. È un’immagine sofferente, che si rifà al taglio ardito del “Cristo morto” di Mantegna. Ma che in realtà ha più affinità con la clamorosa ostensione dei piedi dei pellegrini inginocchiati davanti alla Madonna di Loreto, nel capolavoro di Caravaggio custodito nella chiesa di Sant’Agostino a Roma: piedi consumati dal cammino e mossi da una grande fede che ci troviamo davanti al naso, con quella meravigliosa brutalità di cui non saremo mai sufficientemente grati a Caravaggio (vedi anche il caso del dito di Tommaso infilato nella piaga di Cristo, nell’altro capolavoro conservato a Potsdam). «I piedi insieme al cuore portano la stanchezza e il peso della vita»: così con molta semplicità Cattelan ha voluto spiegare la sua scelta. Del resto il Padiglione Vaticano, ha detto sempre l’artista, «è un gesto rivoluzionario perché ci obbliga a mettere piede in un territorio inesplorato, a guardare negli occhi chi ha perso la libertà». 

I piedi dunque, e non certamente a caso. Quante volte infatti ricorrono nelle narrazioni dei Vangeli? Si va dai due episodi analoghi di Maria sorella di Lazzaro e della peccatrice in casa del fariseo, che lavano e profumano i piedi di Gesù in segno di amore e adorazione, fino alla lavanda dei piedi degli apostoli prima della Passione. I piedi sono la cartina al tornasole della verità della Resurrezione: «Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io!» (Lc 24,29); «Ed esse, avvicinatesi, gli presero i piedi e lo adorarono» (Mt 28,9). Così la componente più umile e “bassa” del corpo umano assurge ad un’imprevista centralità. Verrebbe da chiedersi perché? Una risposta la suggeriscono le parole del papa pronunciate in occasione del suo viaggio a Venezia dove ha visitato il Padiglione vaticano: i piedi hanno a che vedere con la povertà. Povertà come condizione strutturale dell’uomo, ma povertà anche come scandalo sociale. Una povertà che il mondo d’oggi con la sua ossessione cosmetica vuole cancellare dal suo orizzonte mentale e che invece un’opera come quella di Cattelan rimette rumorosamente davanti agli occhi di tutti. Al Papa piace essere esplicito, così in quel discorso ha fatto leva su un neologismo: “aporofobia”, «questo terribile neologismo che significa “fobia dei poveri”». Quell’immagine di piedi giganteschi, feriti dalla fatica della vita sono dunque una breccia aperta nel muro dell’“aporofobia”. E, sia detto per inciso, sono anche un suggerimento di percorso e di senso per l’arte di oggi. 

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Maggio 1st, 2024 at 1:19 pm

Il primo giorno degli Impressionisti

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Data la serenità e la felicità dell’esito è difficile immaginare la convulsione e anche la confusione dell’inizio, quel 15 aprile di 150 anni fa. Quel giorno inaugurava a Parigi la mostra di una “banda” di artisti, 28 per la precisione, uniti dal desiderio (e necessità) elementare di esporre al pubblico i propri lavori, visto che le porte dell’annuale grande Salon per loro erano sistematicamente tenute sbarrate da una giuria molto conservatrice. Si erano messi insieme costituendo un’associazione per ragioni pratiche, senza preoccuparsi di darsi un programma comune. Gran parte di quei pittori si sono eclissati nella storia, ma in otto hanno invece fatto la storia. Ecco i loro nomi: Edgar Degas, Paul Cézanne, Claude Monet, Camille Pissarro, Auguste Renoir, Alfred Sisley, Jean-Baptiste Guillaumin e Berthe Morisot. Ne mancava uno all’elenco, Edouard Manet, che aveva preferito esporre  ancora una volta al Salon des Refusés, l’esposizione parallela al Salon, proposto come spazio di riparazione “ufficiale” per gli artisti respinti dalla giuria.

La “banda” di quei transfughi aveva trovato uno spazio negli ex studi del grande fotografo Nadar, in Boulevard de Capucines. Il catalogo era stato affidato al fratello di Renoir, Edmond: niente immagini ma un semplice elenco delle 165 opere esposte. Oltre a lamentarsi per il ritardo da parte di tanti artisti, Edmond se l’era presa con Claude Monet per l’estrema monotonia dei titoli scelti per i suoi quadri. «E lei metta “Impressione”», aveva risposto l’artista. Nello specifico il riferimento era ad una veduta dipinta due anni prima all’alba al porto di Le Havre, “Impression. Soleil levant”. Un titolo destinato a segnare la storia, anche se in quella circostanza era diventato più che altro pretesto per ogni tipo di sarcasmo, da parte del pubblico e soprattutto della critica. Quella mostra che oggi è su tutti libri di storia ebbe numeri abbastanza modesti: 175 visitatori all’inaugurazione, 54 all’ultimo giorno. Il Salon intanto staccava tra gli otto e i diecimila biglietti al giorno… Uno smacco che aveva lasciato sul lastrico alcuni artisti del gruppo, Monet in particolare.

Tutto questo fa parte di una ben risaputa aneddotica sulla nascita dell’Impressionismo. Ma qual era il fattore che allora non venne capito e che invece ha determinato lo straordinario successo postumo di quella mostra e di quella “banda” di artisti? C’è una parola che meglio di ogni altra aiuta a dare una risposta: “istante”.  Era stato Edmond Duranty, romanziere e critico d’arte, a indicarla in un libro significativamente intitolato “La nouvelle peinture”, pubblicato a Parigi nel 1876. Duranty aveva scritto che ciò che univa questi artisti così diversi tra di loro, eccentrici e istintivi, era il desiderio di «catturare l’istante». È questo il “nuovo” che gli impressionisti immettevano a sorpresa sulla scena dell’arte, in modo allo stesso tempo ingenuo e dirompente. A cascata crollavano in serie tanti dogmi che tenevano bloccati gli artisti nelle tenaglie di un accademismo, sempre più retorico e bolso, che pretendeva di imporre la sua egemonia attraverso la grande kermesse annuale del Salon. 

Era stato come un improvviso giro di volta dalla notte al mattino, dal buio alla luce, dal chiuso all’aria libera. I pittori, attirati dal fascino e dal fremito della vita moderna, avevano abbandonato il recinto chiuso dell’atelier e scoperto per controcanto la meraviglia del “plein air”. Questo grazie ad una piccola ma preziosissima innovazione: l’arrivo sul mercato dei colori ad olio confezionati i tubetti, che permettevano loro di dipingere ovunque, senza essere condizionati dal tradizionale armamentario custodito in atelier. La natura, con la sua libertà, diventa maestra, prendendo il posto dei pedanti custodi di regole ormai fuori dalla storia. E dato che in natura tutto si muove e ogni attimo è diverso da quello che lo ha preceduto, ecco che l’occhio detta i tempi e la mano deve andar veloce per star dietro alla percezione visiva registrata sulla retina. La mano impara così a muoversi con una molteplicità di tocchi sulla tela, senza preoccuparsi dello stato di apparente indefinitezza e di frammentarietà dell’immagine. “Non è un occhio, ma che occhio!”, diceva infatti Cézanne di Monet, l’impressionista per antonomasia, che più di ogni altro negli anni a seguire si sarebbe inoltrato in questa perdita delle coordinate oggettive della visione. La natura facendosi “maestra” insegnava che la luce è tutto, che accende i colori, li fonde, riempie di fulgore ogni cosa, rende sempre nuova la realtà. Presi da questa febbre che era insieme di pittura e di vita, quell’estate stessa del 1874 un gruppetto di reduci della mostra-terremoto si era ritrovato ad Argenteuil, sulle rive della Senna poco a nord di Parigi, alcuni anche per sfuggire ai creditori parigini. Vedersi l’un l’altro dipingere all’aperto e in libertà era stata un’esperienza che aveva consolidato la loro autocoscienza, vincendo anche le ritrosie di Edouard Manet. È lui a firmare in quelle settimane un quadro che può essere considerato emblema del nuovo: si vede Claude Monet con una modella mentre dipinge su una barca trasformata in atelier galleggiante sulla Senna. Anche Manet, il più autorevole della compagnia, così osservante delle regole della vecchia pittura, ad Argenteuil si era convertito al richiamo irresistibile del “plein air”. «Saranno questi artisti i primitivi di un grande moto di rinnovamento artistico?» si chiedeva Duranty, scrivendo a ridosso di quei fatti. E si dava la risposta sottolineando meravigliato «l’audacia che balza da quei pennelli». “Balza”, perché solo così si poteva cogliere la meraviglia dell’istante e documentarlo sulla tela. 

Per quegli artisti dipingere significava restituire non un’impressione generica e soggettiva su ciò che avevano davanti agli occhi, ma restituire qualcosa che era molto simile, ogni volta, ad un primo sguardo dato al mondo, con lo stupore e anche la freschezza che ne derivava. Sono pittori nuovi perché «non sanno», aveva sottolineato Charles Péguy parlando delle Ninfee di Monet nelle pagine di “Veronique”. Uno come Monet dava il meglio di sé al primo sguardo, spiegava Péguy. E coincludeva: «È la prima che conta. È lo stupore che conta, principio indiscusso di scienza». 

Written by gfrangi

Aprile 21st, 2024 at 6:01 pm

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Dadamaino, sperimentare costellazioni

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«I suoi quadri sono bandiere di un nuovo mondo, sono un nuovo significato: non si accontentano di “dire diversamente”: dicono nuove cose». Così nel maggio 1961 Piero Manzoni scriveva delle opere di Eduarda Maino, detta Dada. L’artista, conosciuta tre anni prima, esponeva alla Galleria del gruppo N di Padova i suoi nuovi “Volumi a moduli sfasati”fogli di rhodoid pazientemente fustellati a mano, sovrapposti l’uno all’altro con lievi sfasature. Il montaggio è di una precisione ad orologeria, frutto di un processo laboriosissimo che fa vibrare la superficie senza far ricorso a mezzi pittorici. Nel 1976, proprio con uno di questi “Volumi”, l’artista, che nel frattempo aveva assunto il nome di Dadamaino, si presentava alla decima edizione del Premio Gallarate. Un premio che in occasione dell’anniversario era stato strutturato in modo ambizioso: cinque mostre tematiche nell’arco di due anni affidate ciascuna ad una squadra di importanti curatori, con l’obiettivo di selezionare acquisizioni per fare della Galleria Civica un “Museo delle correnti e dei movimenti dell’arte italiana del XX secolo”. L’idea era di Silvio Zanella, il fondatore del museo: fin dall’origine lo aveva immaginato come istituzione a funzione primariamente educativa e formativa «capace di incidere profondamente nello sviluppo sociale e anche produttivo di un territorio che proprio sulla ricerca estetica aveva impostato e trovato una propria specifica e internazionale identità» (Emma Zanella, oggi direttrice del museo). L’opera di Dadamaino aderiva perfettamente a quella mission, per come coniugava innovazione e manualità, e significativamente era stata la prima ad essere acquisita. Oggi quel “Volume a moduli sfasati” fa parte delle raccolte gallaratesi che nel frattempo hanno preso il nome di MAGA. Ovviamente è esposta nel percorso della mostra che il museo ha dedicato all’artista milanese, con una ricostruzione completa di tutta la sua traiettoria creativa (“Dadamaino 1930-2004”, a cura di Flaminio Gualdoni, fino al 7 aprile).

«Perforatissime tele», così un giornalista del “Corriere Lombardo” aveva definito i lavori presentati per la prima volta dall’artista milanese alla Galleria Brera nel 1959. Era una collettiva di arte femminile e Dadamaino esponeva i suoi “Volumi”, tele bianche o nere sulle quali aveva aperto dei grandi oblò, come si trattasse di ipertrofiche ed elegantissime smagliature. In questo modo l’artista all’esordio si trovava subito allineata con tutte le più avanzate soluzioni che a partire dai fori e dai tagli di Fontana avevano messo in discussione la superficie della tela: proprio in quel 1959 il suo coetaneo Enrico Castellani (tutt’e due erano nati nel 1930) realizzava la prima piccola tela estroflessa. Con questi “Volumi” Dadamaino spalanca spazi dentro la superficie, che viene marginalizzata e ridotta a pochi lembi abbarbicati al telaio. La mostra milanese aveva aperto il 18 dicembre ma già quattro giorni dopo Dada esponeva alla Galleria Azimut fondata dallo stesso Castellani e da Piero Manzoni, accolta all’interno di una situazione che raccoglieva le esperienza più avanzate del momento. A conferma di questo inizio anagraficamente tardivo ma folgorante va annotata anche la presenza con sei opere ad una mostra importante, “Nul” curata da Henk Peeters allo Stedelijk Museum di Amsterdam nel 1962. Al suo fianco c’era un’altra presenza femminile, Yayoi Kusama, grande amica di Fontana.

Dadamaino a dispetto di questo riconoscimento immediato si era presto sottratta ad un percorso da artista d’avanguardia alle prese con le regole della notorietà e del mercato. Dopo l’apparizione alla Galerie Senatore di Stoccarda in quel 1962 ci sarebbero voluti otto anni per rivederla protagonista di una personale. Come testimonia Gualdoni Dadamaino «rinuncia al proprio statuto artistico singolo nonostante viva solo delle modeste vendite dei quadri e non abbia altre forme di reddito, iniziando una lunga stagione di radicalismi ancor più marcati». Su questa scelta pesava anche un carattere alquanto eccentrico che in molte situazioni si rivelava «fattore inesorabilmente respingente» (sempre Gualdoni). La scontrosità però le apriva spazi e tempo al lavoro di ricerca, aspetto che Dadamaino ha sempre messo al centro della sua concezione artistica. Ce ne si rende conto nel percorso della mostra, dove ogni spazio rappresenta un giro di pagina che chiude sulle esperienze precedenti e si apre su nuove avventure con una stessa metodologia certosina ma senza mai ripiegamenti sul passato. Ad esempio aveva archiviato velocemente anche i “Volumi” presentati nel 1959, che ancor oggi mostrano una grande forza iconica e che certo le avrebbero garantito soddisfazioni dal punto di vista del mercato. «La geometria e il rigore non sono il paravento della mia paura ad avere coraggio, ma la molla per essere sulla pista della ricerca», diceva di se stessa.

È una ricerca che arriva a scarnificare il segno, come accade nel ciclo “L’inconscio razionale” presentato nel 1975, una sorta di scrittura della mente trasferita con l’ausilio di un tiralinee sulla carta o sulla tela. È ricerca, sottolineata nel titolo stesso delle opere “Ricerca del colore”, quella che realizza tra 1966 e 1968 dipingendo 100 tavolette 20×20 cm a fasce alternate tra un colore digradante e uno fisso, in genere rosso o grigio. Ogni tavola è suddivisa verticalmente in due metà così da presentare 40 variazioni dello stesso colore, che viene «sottoposto a un controllo razionale agguerritissimo» e ricondotto a una condizione di castità «privato di ogni appeal sensibilistico e spettacolare» (Gualdoni). Sul tavolo dello studio della sua villetta di via Bitonto a volte faceva irruzione l’urgenza della cronaca. È il caso del ciclo “L’alfabeto della mente” originato dal trauma personale causato dall’eccidio nel campo profughi palestinese di Tell al-Za’tar. Su lunghi fogli disposti come stele Dadamaino aveva tracciato ossessivamente un unico segno, quasi si stesse misurando con una paralisi della parola davanti all’orrore. Analogamente alla Biennale 1980 si era presentata con un’installazione che copriva ogni spazio delle pareti, composta da 461 fogli di diverse dimensioni su cui aveva tracciato millimetricamente le pulsioni del momento. Sono quelle «matematiche interiori» che vediamo riaffiorare in modo compiuto nel ciclo più affascinante della mostra. «Vorrei disegnare nell’aria, disegnare nell’immateriale» si era ripromessa. La possibilità le era arrivata dalla scoperta di nuovi supporti, fogli trasparenti di poliestere molto resistenti su cui interveniva con il nero di inchiostri speciali. Così era nato “Passo dopo passo”, il lavoro presentato alla Biennale 1990 e riproposto al MAGA in una versione del 1993, di dimensioni ancora maggiori: una fascia lunga 30 metri che galleggia ondulante nello spazio con il suo carico di segni serpeggianti e inquieti non più scarnificati e geometrici ma densi, pulsanti e biomorfici. 

Nella foto: Costellazione, 1984.

Pubblicato su Alias, 31 marzo 2024

Written by gfrangi

Aprile 2nd, 2024 at 9:11 am

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Pasqua 2024. Un abbandonarsi più che un morire

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Personalmente penso che sia l’icona di questa Pasqua 2024: è il volto del Crocifisso, dipinto da un grande anonimo maestro, che la critica oggi riconosce con il “nome d’arte” di Maestro di San Francesco. È un artista che ha lavorato in Umbria nella seconda metà del 1200 e che deve il nome ad una celebre tavola con la figura del santo di Assisi, visto frontale e in piedi, tavola dipinta per la cappella del Transito di Santa Maria degli Angeli. Al Maestro di San Francesco è stata dedicata una mostra straordinaria e commovente in corso a Perugia, dove sono eccezionalmente radunate le sue grandi Croci dipinte, tra le quali questa, realizzata per la chiesa di San Francesco al Prato di Perugia. È una tipologia di opere che ha avuto una fortuna immensa, arrivando fino alle croci di Giotto, come quella celebre di Santa Maria Novella. Cristo è dipinto su una vera croce; ai terminali del braccio orizzontale, che in questo caso si allunga per oltre tre metri, ci sono secondo tradizione le figure dolenti di Maria e San Giovanni. La croce è impreziosita dal fondo blu oltremare purissimo, mentre sul “tabellone” centrale su cui la croce sembra appoggiarsi è dipinto il motivo di un tappeto di Persia con bellissimi accordi cromatici. Tutto concorre a sottolineare “quel che ci è più caro”…

È infatti sulla figura di Cristo che l’artista mette in campo tutto la sua maestria e il suo cuore, che originano e regolano anche le straordinarie invenzioni pittoriche che possiamo vedere e ammirare. Sono invenzioni finalizzate a restituire la densità di mistero e verità umana di questo istante. La testa reclinata si incassa tra le scapole in un atteggiamento che ci racconta un abbandonarsi più che un morire. Le palpebre si sigillano disegnando una curvatura nella quale si sovrappongono e convivono una dimensione di immensa dolcezza e di incommensurabile tristezza. La fuga dei capelli che si arricciano sulla spalle trova un corrispettivo nella barba: è una contrazione di sofferenza ma insieme il sintomo di uno slancio che porta oltre le tenebre. Impossibile sciogliere questi elementi in cui la realtà del martirio è annodata ad un anticipo di salvezza. C’è solo da guardare, guardare, guardare e lasciarsi investire dal dato che un’immagine come questa custodisce e lascia emergere dal suo profondo. 

Written by gfrangi

Marzo 29th, 2024 at 8:34 am

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Dio è una virgola

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Dall’introduzione di Papa Francesco al libro “Domande di Dio, domande a Dio. In dialogo con la Bibbia” di Timothy Radcliffe e Lukasz Popko.

La domanda è un gesto umano, umanissimo: fa trasparire il desiderio di conoscere, di sapere, l’indole di ciascuno di noi di non accontentarsi dell’esistente, ma di andare oltre, di raggiungere qualcosa, di andare in profondità su un argomento. Chi fa domande non si accontenta. Chi pone questioni è animato da un’inquietudine che brilla come sintomo di vitalità.

I cuori adagiati non fanno domande. Chi ha risposte su tutto non si pone in questione su niente. Pensa di avere in tasca la verità come si tiene in tasca una penna, pronta all’uso. Il beato Pierre Claverie, vescovo in Algeria, domenicano come gli autori di questo testo, martire dell’amicizia e del dialogo con i nostri fratelli musulmani, amava ripetere: «Io sono credente, credo che Dio c’è. Ma non pretendo di possederlo, né tramite Gesù, che me lo rivela, né tramite i dogmi della mia fede. Dio non lo si possiede. La verità non la si possiede».

Ecco, questa ricerca, questo desiderio, questo anelito si concretizzano nel fare domande, nell’avere domande, nell’ascoltare le domande degli altri. Lo sappiamo bene: la filosofia è nata dai grandi interrogativi dell’esistenza: «Chi sono io?», «Perché c’è qualcosa e non il nulla?», «Da dove vengo?», «Verso dove va la mia vita?». È per questo motivo che il cristianesimo si è sempre posto vicino a chi si interroga, perché – ne sono convinto – Dio ama le domande, le ama davvero. Penso che ami più le domande delle risposte. Perché le risposte sono chiuse, le domande rimangono aperte. Così come Dio – ha scritto un poeta – è una virgola, non un punto fermo: la virgola rimanda a qualcosa in più, manda avanti il discorso, lascia aperta la possibilità di comunicazione. Il punto chiude il discorso, mette un termine alla discussione, ferma il dialogo. Sì, Dio è una virgola. E ama le domande.

Nell’immagine: Alighiero Boetti, Mettere al mondo il mondo, 1973

Written by gfrangi

Ottobre 31st, 2023 at 3:51 pm

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Amleto, o del fallimento

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Antonio Latella Piccolo Teatro, 29 ottobre

Una delle cose che Testori cercava era il rapporto con il pubblico: lo scuoteva, in un maniera anche potentissima. Il pubblico lo voleva là (e indica lo schermo dietro il palco dove viene proiettata la sala durante tutte le prove, ndr); voleva un pubblico attivo e non passivo, che potesse reagire e far sentire la sua voce. Quando scuoti il pubblico non vuol dire non amarlo, vuol dire amarlo di più. Quando bestemmi Dio non vuol dire non amarlo, ma amarlo di più perché ne hai ancora più bisogno. Quindi questo rapporto pubblico-attore è una delle domande che mi sto facendo in questo periodo del mio percorso. Bottega amletica ha fatto una call e ha scelto non solo degli attori ma anche otto spettatori che sono stati adottati da ciascun attore e che stanno seguendo in diretta il processo creativo. Gli attori raccontano al loro “spettatore” quello che è stato fatto, stilando un diario quotidiano.

Questa esperienza della Bottega mi ha riproposto la parola “fallimento”: riflettevo sul mio percorso come regista, sul fatto è che ho portato in scena tre Amleti. Mi sono chiesto perché? Una delle cose più importanti è l’accettazione del fallimento. Quando tu affronti Amleto tu sei piccolo piccolo, comunque lo fai fallisci. Se non hai paura di questa parola, questa parola ti aiuta a cercare a crescere. È un motore di ricerca. E credo che condividere questa cosa con il pubblico è importante; vedere gli attori che qui sul palco si espongono anche con i loro errori è importante. Sentire che la ricerca non è tutta forma ma è fallimento, è importante. Ho sentito il bisogno di dire questo oggi a chiusura delle tre lezioni  pubbliche che abbiamo fatto. Ogni volta che ho fatto Amleto ho fallito. Ma sono contento di aver fallito, perché se in Amleto trovi la soluzione sbagli. Amleto inizia nel testo originale con “Chi è là?”.  Pazzesco. Un testo che si apre con una domanda. E non c’è una risposta. “Rispondi, te lo impongo. Fermo, svelati”, dice Orazio. Non c’è una risposta. Ed è questo il punto della ricerca di Testori: non è la risposta ma è la domanda. Ed è quello che mi sono chiesto quando abbiamo iniziato Bottega: dobbiamo lavorare sul fatto che Testori non è la risposta ma è la domanda. Quello che io penso di Testori, è condizionato dal mio vissuto. Quello che voi potete dare a Testori (rivolgendosi agli attori e al pubblico giovane in sala) lo potete dare solo voi. Prenderlo come fardello, caricarlo sulle spalle e accompagnarlo dentro il XXI secolo. Credo che sia una delle possibilità più grandi che stiano accadendo in questi giorni. Per questo volevo ringraziare sia loro che voi pubblico che siete qui. 

Non so se è nato prima il tempo o la parola. C’è un tempo reale, un tempo naturale, un tempo teatrale. Amo gli spettacoli che lottano contro il tempo teatrale, e cercano un tempo reale, nonostante che quando il pubblico sente un tempo reale sul palcoscenico si annoia perché lo riconosce e vuole invece il tempo teatrale, giustamente. Ci sono degli autori che hanno un tempo pazzesco: vengo dal fare un Goldoni che ha un tempo meraviglioso. Anche Testori ha un tempo. Testori anzi ha una musica. Ogni suo Amleto ha una sua musica. La sceneggiatura per Amleto ha una musica dilatata, perché è una musica che spesso ha periodi lunghi, senza virgole, senza punti. Spesso chiedo agli attori di non pausare là dove non c’è la pausa, ma di consegnare la parole nella sua lunghezza. La sceneggiatura è fatta di questo. È come se con la parola creasse uno spazio, una proiezione e in questa proiezione si inserisce il dialogo. Ma è parola nella parola, non è parola nell’immagine. È la parola che fa l’immagine e poi il dialogo sta nella parola. 

L’Ambleto ha un ritmo teatrale, ha una musica teatrale; loro si divertono moltissimo a leggerlo perché lo riconoscono immediatamente. Ha un ritmo, una potenza, è tutto giocato sul meta teatro: nella prima parte fanno finta di essere personaggi, poi non sono personaggi, poi finalmente diventano personaggi, con quella veemenza, con quell’energia che richiede il testo teatrale. 

E poi c’è l’ultimo, Post-Hamlet: non è un gioco quello di proporlo a ritmo rap, perché è incredibile come Testori avesse questo tempo del XXI secolo. Forse per questo non è stato capito nel XX secolo. Perché non ne rispettava il tempo. Spesso lo recitavano dilatando il tempo, là dove non c’era bisogno di dilatarlo. Quindi rischiava di essere noioso. Invece ha un tempo pazzesco. Io sono del 900 e quando lo leggo lo leggo con un impeto condizionato dall’aver visto gli spettacoli con Branciaroli. Per me recitare Testori è un tamburo incredibile, mi spacca, mi squarta. La prima volta ho letto agli attori come lo farei io, cosa che in genere non faccio mai. Perché volevo che sentissero che c’è una musica dentro; dentro questa carcassa Testori mette la sua musica. E credo che sia una delle cose più importanti che fa: parola, musica; tempo, parola; parola, pubblico; tempo, parola, pubblico. 

Non ci può essere Testori senza reazione del pubblico, se il pubblico non reagisce non è Testori. Lui lo pretende. 

Un’altra cosa che va affrontata è quella dell’eredità. La questione dell’eredità che è tanto importante per lui: guarda caso per parlare di eredità sceglie Amleto. Sapete benissimo che nel Bardo Amleto alla fine muore, muore tutta la famiglia reale; muore e lascia il regno e il futuro nella mani di Fortebraccio. Testori fa qualcosa di pazzesco, lo fa anche con cattiveria: perché bisogna essere cattivi per farsi capire e quindi si rischia di non essere amati.

Sentite come lo spostamento non viene dato ad un uomo che deve diventare re, ma viene dato ad un popolo. E dice anche “io vi odio”. La responsabilità di quello che facciamo e scegliamo ogni giorno: questo è il fallimento. La responsabilità che ci siamo presi. Questo è il fallimento. Lo dico in questo modo, perché con quello che sta succedendo, è chiaro. Ma responsabilità è il fallimento. Difatti Post-Hamlet attacca con il coro, attacca con il popolo che ha perso perché il popolo ha cancellato la memoria. Il popolo senza memoria non è un popolo. Perché non può passare quello che hanno fatto i nostri padri. Lo dimenticherà. Questo ci dice Testori: forse per questo motivo è stato meno amato dal popolo, perché chiedeva tantissimo. Credo che sia importante questo, perché riguarda la responsabilità di pensare a voi pubblico. Credo che dia un senso alla ricerca, all’essere qui in questa sala. 

A proposito di parole e musica vorrei farvi sentire un pezzo che ha scritto Testori che cantava Alain, “Quando la sera”, che Alessandro Bandini ha portato ai provini. La cosa meravigliosa di questo pezzo è che non finisce. Lui lo sfuma pian o piano. È un po’ come la sua ricerca in Amleto. Non finisce: sceneggiatura, Ambleto, Post-Hamlet e poi che è ritornato alla sceneggiatura. Quindi il viaggio in questo viaggio in questi classico ha l’andamento della vita.  

Written by gfrangi

Ottobre 31st, 2023 at 3:43 pm

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Aldo Rossi e Santa Maria alla Porte

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Riprendo dopo un lungo sonno, o almeno ci provo. Lo faccio con una semplice citazione intercettata oggi dai “Quaderni azzurri” di Aldo Rossi (n. 45, 4 aprile 1991 – luglio 1991). «Chiedersi se qualcosa comincia o continua. Un cominciamento o una continuità. Che tutti vorrebbero un cominciamento anche se questo urta la continuità. “Consurgens”. Pensavo e a lungo all’iscrizione della Chiesa di fronte allo studio, Santa Maria alla Porta. “Ascendit quasi Aurora Consurgens”. Evidentemente è tratta dal Cantico dei cantici ma la sua composizione mostrava l’ignoranza di molti. Primo confondere “ascendere” con “assumere” cioè l’Assunzione è il salire,  Maria (assunta) è l’eletta che entra nel regno dei cieli (Virginis assumptio), in un certo senso essa è ammessa in questo Regno mentre l’Ascensione è il ritorno alla propria origine celeste “dies ascensionis in coelum domini nostri Jesu Christi”. Ma anche sembrava che quel “consurgens” come l’Aurora indicasse uno stato in cui il salire distruggeva la propria immagine come l’aurora che sorge nel cielo (l’aurora dalle dita di rosa) che nel sorgere si annulla e scompare come se quel “consurgens” fosse un sorgere per disperdersi nel cielo. Del resto consorgere mi sembra scomparire nelle lingue latine».

Written by gfrangi

Ottobre 20th, 2023 at 5:20 pm

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Picasso e l’astrazione, un’unione d’affari…

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Guitare et bouteille de Bass , 1913

È stata scelta saggia quella di ricorrere a una “&” commerciale per risolvere il titolo della mostra su “Picasso & l’abstraction” organizzata dai Musées royaux des Beaux-Arts di Bruxelles in collaborazione con il Musée National Picasso di Parigi. Quel logogramma suggerisce giustamente l’idea che tra i due soggetti più che una convergenza si sia stabilita un’”unione d’affari”, dove l’affare pende tutto dalla parte di Picasso. Il nome del grande malagueño e la categoria dell’astrazione rappresentano infatti un ossimoro, sia come principio che come esito. L’oggetto resta invariabilmente per Picasso un punto di partenza, ancorché a volte pensato prima che visto; e gli oggetti non si smarriscono mai dentro le composizioni che con più radicalità li scompongono. Come sottolinea il curatore della mostra Michel Draguet nel testo in catalogo, era stato Roger Fry a creare l’equivoco: nel 1910, in occasione di una mostra da lui stesso organizzata sulla pittura dopo Monet, aveva qualificato come “astratta” la ricerca portata avanti da Picasso in quei mesi cruciali. In realtà, come precisa Draguet, per astrazione Fry intendeva «una proliferazione di forme geometriche che invadono la composizione». Ci aveva messo del suo anche Guillaume Apollinaire, nel 1913, quando nei “Peintres Cubistes” aveva qualificato la novità di questi artisti nel saper restituire un «piacere degli occhi» indipendentemente dallo «spettacolo delle cose naturali». Più tardi però Apollinaire sarebbe corso ai ripari precisando che «io allora, secondo l’uso linguistico di quegli anni, usavo il termine “astratto” nel senso di “non verosimigliante”, assolutamente non nel senso di “non rappresentativo” come avviene oggi».

La mostra di Bruxelles risente inevitabilmente del perpetuarsi di questo fraintendimento, rischiando così di risultare generica e latitante rispetto al tema proposto, nonostante la qualità dei prestiti ottenuti. Tuttavia nel percorso c’è un momento, molto ben documentato, in cui le cose anche per Picasso sembrano essere sul ciglio di una drammatica perdita di “oggettualità”. È l’estate del 1910; l’artista si è già inoltrato da qualche mese nel cubismo analitico. Invitato dallo scrittore Ramón Pichot, si convince a passare qualche mese a Cadaquès dove viene raggiunto anche da André Derain e da sua moglie. Picasso lavora con molta intensità  fino al ritorno a Parigi a settembre: però alla fine ripoterà indietro solo dieci tele e le quattro acqueforti per illustrare il Saint Matorel, romanzo dell’amico Max Jacob. Per Daniel-Henry Kahnweiler, il grande gallerista che per primo aveva colto la portata di quanto stava maturando, si era trattato di uno scacco decisivo. In un celebre passaggio del suo “Der Weg zum Kubismus” pubblicato per la prima volta nel 1915, racconta di «settimane di lotta tormentosa». E poi: «Le opere che Picasso porta con sé sono incompiute, ma il grande passo è fatto. Egli penetra nella forma chiusa, creando un nuovo strumento per perseguire il nuovo scopo». Uno strumento, cioè un linguaggio nuovo, che è qualcosa di molto più radicale che non un semplice “stile”. Kahnweiler è ben consapevole che Picasso si è dato un limite che non vuole oltrepassare: «La perdita di leggibilità che vieterebbe il riconoscimento di un significato invece sempre presente ai suoi occhi» (Michel Draguet). Lo stesso gallerista ne sarebbe stato diretto testimone nei mesi successivi, nel corso delle estenuanti sedute, oltre 30, per il suo ritratto, oggi custodito all’Art Institute di Chicago: Picasso nel processo di rottura della «forma chiusa», si garantisce degli ancoraggi, come i tratti del volto, il nodo della cravatta, la catena dell’orologio da taschino, o le mani intrecciate. 

In mostra l’estate decisiva di Cadaquès è documentata dalla presenza delle quattro meravigliose acqueforti per il Saint Matorel con l’aggiunta di una delle matrici di rame e di un capolavoro come Le Guitariste, oggi conservato al Centre Pompidou: è un quadro in cui si avverte come Picasso si trovi proprio sul ciglio dell’evaporazione della forma e quindi l’opera risente del senso drammatico della prova a cui è sottoposta. La superficie pittorica infatti da vicino sembra essere deflagrata, da lontano invece si ricompone con una maestosità quasi abbacinante. «Questo nuovo linguaggio dona alla pittura un’inaudita libertà», scriveva sempre Kahnweiler a conclusione delle pagine dedicate all’estate di Cadaqués. È una pittura che continua a manifestarsi nei mesi successivi con una tempestosità di forme ansiose e spezzate, spianate su superfici quasi monocrome.

Verre, journal et dé, 1914

Dopo questa prova così ardua, anche perché priva di quello sbocco lirico in cui trovava respiro il suo compagno d’avventura Georges Braque, Picasso riprende il passo spavaldo di chi sente di tenere in pugno ciò che ha davanti agli occhi. Nel 1912 arrivano i primi papier collés: la realtà entra in campo direttamente come “cosa”. Il bellissimo Violon et feuille de musique dell’autunno di quell’anno ingloba anche uno spartito. Entrano in campo le lettere, a partire dalla “B” delle bottiglie di Bass, con il gonfiore delle sue linee curve: in un assemblage dell’autunno 1913, quelle curve vengono a definire, intagliate nel legno, il profilo di una chitarra. Qualche mese dopo Vladimir Tatlin era stato in visita a Picasso: tornato in Russia avrebbe realizzato i suoi controrilievi polimaterici che tanto sembrano debitori di quest’opera. Picasso paradossalmente si offre quindi come innesco per un’esperienza che sconfina nei terreni dell’astrazione. Quanto a lui resta avvinghiato alla realtà delle cose: come in un altro piccolo assemblage di legno, avvolto in un color cenere, Verre, journal, dé, realizzato ad Avignone nell’estate 1914: il dado diventa un quasi un proiettile spaziale, tale è l’energia che vi imprime. Il percorso della mostra, inoltrandosi nei decenni successivi, toglie ogni dubbio rispetto a questa posizione di Picasso. In modo particolare si fanno luce due opere insolite e sorprendentemente sperimentali: una Chitarra del 1926, ritagliata nella tela e assemblata con spago e chiodi, oggetto che la metamorfosi rende ancor più plastico e reale. E poi una sculturina realizzata a Boisgeloup nel 1934, che sembra davvero il divertissement di un genio bambino: è l’impronta realizzata in gesso di un giornale accartocciato. Un genio bambino vorace di realtà…

Empreinte de papier froissé, 1934

Written by gfrangi

Gennaio 8th, 2023 at 7:05 pm

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Massimo Minini e la vecchia zia della pittura

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«A me piace scrivere, quasi più che fare mostre». Paradossale che lo dica uno dei più importanti galleristi italiani, con oltre quaranta anni di successi alle spalle, presenza fissa al gotha di Art Basel, stimatissimo da tanti artisti star e inarrivabili. Massimo Minini è fatto così, è autorevole e corsaro nello stesso tempo. Per tutta la vita non si è certo negato la passione per la scrittura, che ha coltivato come esercizio complementare e necessario all’attività di gallerista.

Lo testimoniano le dimensioni del libro in cui ha voluto raccogliere, con un andamento creativo e imprevedibile, il meglio di quello che negli anni ha messo su carta. Il volume, edito da Silvana, non solo sfonda le 400 pagine, ma si presenta in formato atlante. Eppure dà un’impressione immediata di leggerezza, grazie anche all’impianto grafico firmato da Nicola Chemotti. Grande merito anche delle sovraccopertine che Minini ha chiesto a un artista amico della prima ora, presenza storica nella sua galleria, Daniel Buren. Si può scegliere il colore delle bande verticali, tra verde, rosa, arancio e azzurro, tutti di una tonalità affabile. La sovraccopertina è un’opera, con tanto di titolo, “Inchiostri per Massimo in 4 colori” e aprendosi a manifesto svela una delle verità di Minini: «Dire che siamo in un momento di grandi cambiamenti è un’ovvietà. Probabilmente anche una banalità. Siamo sempre stati, anzi siamo sempre in un momento di cambiamento. Quando mai la storia è stata ferma!».

Il libro è immune da banalità e ovvietà. Basta scorrere l’indice per rendersene conto. I materiali infatti sono raccolti in blocchi molto logici, ma i titoli e i sottotitoli dei singoli capitoli fanno schizzare l’attenzione e la curiosità del lettore, a iniziare dal primo, Autointervista. Dove l’autore finge domande cattive per darsi modo di rispondere. Tra le domande c’è quella rituale che riguarda la scelta di non lasciare mai Brescia, di restare come lui dice, «gallerista di provincia».  La risposta è ragionevole e non priva d’orgoglio: «Primo, perché Brescia è una città importante (è la terza potenza economica d’Italia, dopo Milano e Torino), e poi perché qui ho avuto buoni maestri (Cavellini, Politi)». Achille Cavellini è un mitico collezionista. Giancarlo Politi è invece il fondatore di Flash Art, la rivista presso cui Minini, avvocato mancato, ha fatto un attivissimo apprendistato al mondo dell’arte. La rottura con Politi è uno dei tormentoni che torna tante volte nel libro, con accento divertito ed epico nello stesso tempo: infatti, una volta licenziato, Minini aveva aperto subito una galleria, Banco. Era il 1973: Cavellini, pur perplesso, gli era stato di sostegno a fare quel passo. Sulla scena locale sono subito scintille e anche qualche goliardata. Quando Ennio Morlotti era arrivato a Brescia per una mostra in Pinacoteca, lui con Sarenco, «persona di grande e pericolosa intelligenza», si presentarono buttando volantini polemici: «Ricordo che Morlotti scosse la testa senza dire niente».

Chi pensa a un Minini oltranzista sulla sponda dell’antipittura si sbaglia di grosso. «La Pittura (proprio così, con la P maiuscola, ndr), una vecchia zia…è un’esigenza insopprimibile, un vizio assurdo: salta fuori quando meno te l’aspetti», scrive. Nel capitolo, a tratti quasi esilarante, che raccoglie i contenziosi e anche imprevisti sussulti di simpatia con Vittorio Sgarbi, però mette in chiaro alcune cose. Secondo lui troppe volte la pittura si costringe a una figurazione dolente, sangue e budella. In questo modo si preclude «la libertà di ricerca…». E conclude con una fiondata: «La figura vissuta come rivincita è un vecchio modo di porsi… è lingua morta».

Lingua viva, supremamente viva, per lui è quella di Giulio Paolini e di Salvo, i due artisti che hanno cambiato il suo modo di guardare. Al primo dedica tutto un capitolo, apodittico fin dal titolo Giulio Paolini. Lui. Spiega che “lui” gli ha insegnato «la bellezza, la pratica dell’understatement, il bisogno di rarefare, che ahimè, ho disatteso». Di “lui” stima tutto, a partire da quella sua attitudine a «sottrarsi non tanto all’arte, quanto alla nostra curiosità». Con “lui” in quaranta anni di amicizia si è stabilito un rapporto di “CON SONANZE”, scritto proprio a caratteri maiuscoli. Salvo invece è la proiezione dell’autodidatta colto, «dell’artista che torna all’ordine dopo il disordine». Aveva visto una sua opera, Benedizione, in una galleria di Brescia e altre da Sperone, tutte opere dal linguaggio fortemente alternativo. «Ma un giorno», racconta Minini, «vediamo apparire dei dipinti enormi: che fosse impazzito? Allora (siamo nel 1973), dipingere era proibito». Risultato: nel 1975 allestisce la prima mostra di Salvo in galleria.

C’è solo un artista che nelle pagine del libro ricorre con maggior frequenza rispetto a questi due prediletti ed è inaspettatamente un artista di un’epoca lontana: il Romanino. La ragione è elementare: Minini è nato a Pisogne, dove il padre aveva un’aziendina, e quindi ha sempre considerato Romanino alla stregua di un vicino di casa per via del meraviglioso ciclo di affreschi della Madonna della Neve, che così spesso si trovava a frequentare. Lo sguardo di Minini verso le creature sgraziate, vernacolari, trasgressive dell’artista bresciano è uno sguardo innamorato. È frutto di una dichiarata e smaccatissima simpatia, che però non gli impedisce di tracciare parallelismi con il contemporaneo: ecco allora che Romanino diventa il profeta della bad painting, lo sperimentatore eretico che spezza i ponti con il linguaggio dominante, che dipinge quasi in una sorta di «trance visiva», l’artista che come tanti grandi del Novecento, da Bacon a Fontana, «fa uno scarto laterale che spiazza il pubblico, offre qualcosa di inatteso che apre su altre direzioni».

È su Romanino inoltre che matura un’imprevista convergenza con Giovanni Testori, un critico che per quanto concerneva il contemporaneo stava radicalmente su un’altra sponda. Testorie e altre storie è il titolo, creativo come sempre, che ripropone gli atti di questa strana relazione. Se la brescianità e Romanino sono un punto saldissimo di contatto, gli articoli sul “Corriere della Sera” a ponte tra anni Settanta e Ottanta, rappresentano invece l’oggetto di un conflitto senza possibilità di composizione. Testori è da una parte «il Polifemo accecato d’ira contro le avanguardie», ma allo stesso tempo lo studioso che ha sdoganato il grande Romanino, rivendicando davanti alla grande critica, la modernità della sua bad painting, una pittura che opponeva alla lingua ufficiale la forza deflagrante di un dialetto figurativo. Minini per rendergli un omaggio si inventa l’idea di un “processo a Testori”, idea lanciata pubblicamente dalle colonne delle pagine bresciane del Corriere della Sera. La sfida viene raccolta nel luglio 2013: il processo si consuma a Novate, proprio in quella che era stata la casa dell’imputato. La lunga requisitoria è tutta all’insegna di «un’ammirata avversione» e di una non celata simpatia.

Per Minini scrivere è scopertamente un piacere. La carta bianca è il territorio sul quale può dar fuoco alle polveri della sua natura estroversa e fuori dagli schemi, come nel caso celebre dei suoi “pizzini”, testi brevi e ficcanti, ora approdati in una rubrica nelle pagine che mensilmente Il Foglio dedica all’arte. La scrittura non è però un punto di fuga dalla sua attività di gallerista, perché in tante occasioni avviene una convergenza. È il caso dei comunicati stampa, che scrive di suo pugno e ai quali ha dedicato un capitolo in ogni senso esemplare. Il presupposto è che i comunicati così come sono impostati quando piovono sui tavoli delle redazioni sono materia inerte, vengono saltato a piè pari. Minini elargisce alcune raccomandazioni, ma quando le mette in atto supera le sue stesse intenzioni. I comunicati stampa sono dei piccoli gioielli inattesi, tutti da leggere in particolare per i loro incipit. «Le opere d’arte non si possono spiegare a parole», scrive nella prima riga del comunicato per una mostra di Landon Metz. «Come dire? A Vanessa voglio un gran bene. Potrei anche terminare qui il comunicato», è il lancio di una mostra di Vanessa Beecroft nel 2017. Seguono belle parole e non scontate, che ribadiscono l’affetto per l’artista e il suo lavoro. Il finale non è da meno, quanto a schiettezza: «Scritto a Brescia, città dalle mille sorprese, come la Galleria Massimo Minini». Letto questo libro, c’è davvero da credergli.

Pubblicato su Domani, 27 marzo 2022

Written by gfrangi

Aprile 23rd, 2022 at 11:22 am

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Letizia e Battaglia, di nome di fatto

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Nell’ossimoro del suo nome c’è tutto il destino e tutto il fascino di Letizia Battaglia. Nella vita è stata una magnifica combattente, ma affamata di bellezza e di felicità. «Le mie foto non esaltano il male, lo raccontano attraverso la bellezza. Per me la disperazione è bellezza, la sconfitta è bellezza, la cattiva sorte è bellezza», diceva di sé e del proprio lavoro. Letizia Battaglia se n’è andata a 87 anni, e il vuoto che lascia è un vuoto davvero grande, e non solo per il mondo della fotografia. Definirla fotografa infatti è paradossalmente riduttivo, perché la fotografia era per lei un mezzo, mai un fine.  

«È capitato che abbia fatto per molti anni la fotografa e che fare la fotografa mi piaccia tanto, ma sicuramente potrei rinunciare a farlo per andarmene davanti al mare e vivere senza più fare niente», aveva dichiarato nella magnifica monografia-confessione scritta da Giovanna Calvenzi e pubblicata nel 2010 per Bruno Mondadori. In realtà Battaglia è stata una grande fotografa, capace di fissare con le sue immagini una stagione drammatica e la vita di un’intera città. Aveva iniziato un po’ per caso, quando già aveva alle spalle un matrimonio che l’aveva delusa e tre figlie. Per questo aveva lasciato Palermo per Milano, alla ricerca di un modo per ricominciare. La macchina fotografica è stato lo strumento che l’aveva rimessa in movimento. Nel 1974 era tornata a Palermo, per avviare insieme a Franco Zecchin, l’agenzia Informazione fotografica, lavorando per l’Ora, quel piccolo quotidiano, coraggioso come lei, in prima linea nella lotta alla mafia. È per l’Ora che Battaglia ha documentato una stagione sanguinosa di Palermo. Tra le tante fotografie di quegli anni, una parla di lei più di tutte le altre: è quella scattata il 6 gennaio 1980, giorno dell’omicidio di Piersanti Mattarella. Lei era per caso nei paraggi con Zecchin e la figlia. Corse dove c’era il capannello delle persone, si affacciò al finestrino dell’auto: davanti a lei Sergio, l’attuale presidente della Repubblica, reggeva il corpo del fratello ucciso. Scattò la foto in un secondo, “à la sauvette”, come insegnava Cartier Bresson, “in fretta e furia”. «In realtà non lo so cosa facevo. Facevo quello che dovevo fare», aveva confessato anni dopo in un’intervista rilasciata ad Angela Mainitiù per Il Manifesto. E poi in poche righe aveva stupendamente sintetizzato il suo modo “morale” di porsi in queste situazioni: «Che cos’è il supporto di un fotografo? È quello che lui sa della vita, dell’arte, quello che ha visto, studiato, meditato. In quel secondo converge tutto, il tuo amore, il tuo odio, la tua rabbia, il tuo rispetto».

Sono fotografie che Letizia Battaglia si è portata sempre dietro come delle ferite. Aveva anche ipotizzato di distruggerle, poi se le era appese in casa per cercare di metabolizzarle, infine le aveva rifotografate sovrapponendo immagini di donne e di vita. È una relazione con il proprio lavoro che evidenzia la sua libertà. «Sono persona, non fotografa», ripeteva. Come persona non le interessava la bellezza delle immagini, ma la bellezza della vita. Per questo non risparmiava frecciate a grandi autori secondo lei a rischio di estetismo, come Mapplethorpe o Salgado. Diane Airbus e soprattutto Koudelka erano invece i suoi riferimenti, o maestri “involontari”. Con il grande fotografo boemo aveva fatto tanti viaggi, sempre in camper, dalla Turchia fino al Nord Europa. Soprattutto Koudelka, come pure Ferdinando Scianna, era diventato una presenza famigliare all’Agenzia Informazione Fotografica, poi diventato Laboratorio IF, perché Battaglia e Zecchin ne avevano voluto fare una vera e propria scuola, un’esperienza che fosse didattica ma che spingesse ad andare sempre in prima linea. Con la stessa generosità e passione nel 2017 si era buttata nell’avventura del Centro internazionale della fotografia al Cantiere della Zisa a Palermo, un progetto tanto ambizioso quanto faticoso, un sogno come tanti suoi sogni marcati da ferite (“Sulle ferite dei suoi sogni” è non a caso il titolo del libro con Giovanna Calvenzi). Letizia Battaglia lascia un grande vuoto perché ci mancherà quel suo impeto d’amore verso la vita, che l’ha fatta essere pienamente donna, amica di tanti, attivista, mamma e persino bisnonna, come orgogliosamente sottolineava. E naturalmente l’ha fatta essere anche grande fotografa. A questo proposito, se interpellata rispetto a quel che sta accadendo nel mondo, avrebbe ribadito di non essere capace di fotografare la guerra, «perché per me è indispensabile l’amore».

Pubblicato su Il Manifesto, 14 aprile 2022

Written by gfrangi

Aprile 23rd, 2022 at 11:11 am

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