Robe da chiodi

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Dolore e perdono, lo stile di Louise Bourgeois

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Raramente una madre e un padre sono stati così ossessivamente decisivi per il destino di un artista. Josephine, la mamma di Louise Bourgeois, era nata Aubuisson, nel cuore della Francia. Veniva da una famiglia di tessitori di arazzi, arte che lei stessa aveva appreso; la cittadina era attraversata dal corso del Creuse, un fiume le cui acque, contenendo il tannino, avevano proprietà chimiche che rendevano la lana particolarmente reattiva alla tintura. Papà Louis invece era un architetto di paesaggi che non riuscì mai a ricavare un centesimo dalla sua professione; in compenso tornava dai suoi continui viaggi portando quelle statue in piombo usate come decorazioni nei giardini. «Bisognava continuamente riparlarle perché la lamina di piombo era tanto sottile. È uno dei motivi per cui sono diventata scultrice: mi erano così famigliari», avrebbe raccontato tanti anni dopo Louise. La mamma era specializzata nel “rentrayage”, il rammendo e la ritessitura degli arazzi che papà Louis, con il suo occhio fine, trovava e portava a casa. Di salute fragile, Josephine morì presto nel 1932, quando Louise aveva solo 22 anni. «Fui sopraffatta dalla brama rabbiosa di capire»: l’arte di Louise Bourgeois nasce proprio dal rispondere a questa brama. 

Nel 1985, quando ormai era diventata cittadina americana dopo aver spostato nel 1938 Robert Goldwater, storico dell’arte, realizzava una delle sue opere più emblematiche, “She-Fox”. “She” è naturalmente lei, la mamma, indagata per una necessità di capire che non era venuta meno neanche a mezzo secolo dalla sua scomparsa. È un ritratto da dentro, perché l’arte per Louise Bourgeois è un percorso interiore, che in questo caso la porta ad affrontare un sospetto assillante, che sua mamma potesse non averla amata. Per la scultura aveva scelto un blocco di marmo nero, durissimo da lavorare, materiale che non concede niente e «costringe a conquistare la forma». La seconda parola del titolo, “Fox”, fa invece riferimento al valore di una donna che sapeva destreggiarsi in ogni situazione e che Louise vedeva abile come una “volpe”. Lei invece non si riteneva all’altezza, perciò la scultura diventa una necessaria resa dei conti: la mamma dalle tante mammelle ha la testa mozzata. Ma sotto i suoi fianchi c’è scavato un piccolo nido: «È lì che mi sono messa io. Mi aspetto che continui a volermi bene». Così la scultura ha assolto la sua funzione: «Può tirarti fuori dai guai ristabilendo in te una sorta di armonia».

Con il padre le cose sono andate invece così: nel 1974 Louise Bourgeois affronta la sua prima installazione ambientale, “The Destruction of the Father”, un’opera che lei ha spiegato di aver realizzato per esorcizzare la paura. Quale paura? Non quella di non essere accettata da un uomo che aveva avuto con lei la terza figlia invece dell’agognato maschio. La paura era nei confronti di un padre non prepotente né violento ma insopportabilmente pieno di sé, che si pavoneggiava a tavola (e la tavola/letto è al cuore dell’opera, che è racchiusa in una scatola e drammatizzata da una luce rossa), facendo sentire tutti come insignificanti. Louise aveva con lui un conto aperto che ha affrontato in questo lavoro «così duro che alla fine mi sono sentita un’altra persona». L’opera quindi, per sua stessa ammissione, le è servita: «Mi ha davvero cambiata». È una scultura catarsi, che dimostra come per Louise Bourgeois un artista non produca opere per migliorarsi, ma per essere «più capace di sopportare».

La scultura per Louise Bourgeois ha davvero un potere di cambiare chi la frequenta. Lo dimostra la sua opera più celebre, “Maman”, presentata alla Tate Modern per inaugurare il grande spazio della Turbine Hall nel 2000. Il suo sguardo sulla madre è profondamente diverso, rispetto a “She-Fox”. La forma è quella ben nota di un gigantesco ragno, che si inarca in una posa larga e protettiva nei confronti delle uova (di marmo) che custodisce in una sacca posta sotto la sua testa. Quel ragno è un’ode alla mamma, «la mia migliore amica». Come un ragno, la madre di Louise era una tessitrice. Ed è rivelatrice la sequenza di aggettivi con i quali Louise, per spiegare la scultura, delinea la figura materna: «protettiva, sempre pronta, cauta, intelligente, paziente, tranquillizzante, ragionevole, delicata, sottile, indispensabile, ordinata e utile come un ragno».

L’arte per Louise Bourgeois è innanzitutto un fatto personale, tant’è vero che per tanti anni ha tenuto il lavoro per sé, senza avvertire la necessità di esporre («L’arte nasce da un rintanarsi», ha sempre detto). Del resto il sistema non era molto sensibile rispetto un’artista sposata e madre di tre figli, di cui uno adottato («I trustees del MoMA non erano interessati ad una donna che veniva da Parigi. Non avevano affatto bisogno di me, socialmente. Volevano artisti maschi che venissero da soli e non fossero sposati»). Era stato Arthur Drexler, allora poeta ma che poi sarebbe diventato storico dell’architettura al MoMA, a scoprirla e a convincerla ad esporre alla Peridot Gallery di New York nel 1949, quindi alla vigilia dei suoi 40 anni. Aveva esposto in quell’occasione la sequenza quasi seriale delle “Figure”, sculture sottili, tutte verticali, che facevano riferimento a situazioni dichiarate nei titoli (“Figure qui apporte pain”, “Figure regardant une maison”, “Figure qui s’appuie contre une porte” e così via…). Cosa rappresentavano queste “figure”? Erano la confessione di un senso di tradimento nei confronti di  tutte quelle persone che aveva lasciato in Francia nel momento in cui aveva deciso di sposarsi e di trasferirsi in America. Sono bianche e nella loro purezza restituiscono lo struggimento doloroso della persona lasciata lontana. Esprimono la dimensione di una mancanza attraverso la fragilità della loro verticalità e come lei ha spiegato, evidenziano «lo sforzo sovrumano per tenersi in piedi».

La scintilla che la mette in azione come artista infatti è proprio la coscienza di una mancanza. «L’idea», ha detto Bourgeois, «viene sempre da un fallimento, da una qualche impotenza». L’arte è uno strumento che mette in rapporto con il proprio inconscio, dando la possibilità molto speciale di sublimarlo («di essergli amici», lei sottolinea). Sublimarlo, anche se l’operazione può essere dura e dolorosa, come documentato dalla resistenza del materiale sul quale si lavora o dall’asprezza delle narrazioni che si realizzano. Per Bourgeois l’arte ha una capacità riparativa, di ricucitura (tornano sempre le funzioni del lavoro materno sugli arazzi…) e in ultima analisi di perdono. Si tratta di una parola rara nel lessico degli artisti, che è invece sempre ben presente nel vocabolario di Louise. L’aggressività estrema di tanti suoi lavori nasce dal desiderio di rimettere insieme, di riparare situazioni che si sono lacerate: la condizione perché questo possa accadere è il bisogno di perdonare. In un’intervista rilasciata a Demetrio Paparoni, Bourgeois aveva sottolineato con decisione la differenza tra dimenticare e perdonare: «Dimenticare è negare, sotterrare. Negare è il tentativo di dimenticare. È il fallimento attraverso il quale sotterri cose a cui non hai mai pensato… perdonare è invece una forma di progressione che dà luogo alla pace». È per questo che nell’opera di Bourgeois non si scorge mai neppure l’ombra del rancore. 

Invece c’è campo aperto per la narrazione visiva dell’esperienza del dolore. È quello che accade nella lunga serie di opere realizzate agli inizi degli anni 90 che vanno sotto il titolo di “Cell”. Ognuna di queste “celle” è uno spazio spalancato su un tipo diverso di dolore e sulla paura che sviluppa, come “Cell (Clothes)” esposta alla Fondazione Prada di Milano. È anche uno spazio protetto che attrae il voyeur, il quale si affaccia e si trova davanti qualcosa di respingente. «Ciò che accade al mio corpo richiede un’espressione formale astratta», aveva spiegato l’artista spiegando questo ciclo al Carnegie Museum of Art  di Pittsburgh. «Quindi si potrebbe dire che il dolore è il riscatto del formalismo». Un formalismo non più ridotto a stile, ma che nelle opere di Louise Bourgeois prende un corpo, condensa un’esperienza psichica ed emotiva. «Non riesco a parlare di stile in generale. Posso solo parlare del mio, che è uno stile interamente dettato dalla vita. È dettato dalla mia capacità di sopportare le privazioni. Lo stile ha a che fare con i miei limiti».

Pubblicato su Domani, 24 ottobre 2021

Written by gfrangi

Novembre 12th, 2021 at 3:35 pm

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Beuys, rivoluzione è resurrezione

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C’è un’immagine tra le migliaia che documentano la vita e le azioni di Joseph Beuys, più indimenticabile di ogni altra. È quella scattata a Napoli, nella galleria di Lucio Amelio, il 17 aprile 1981. Vediamo l’artista, appartato e rannicchiato sotto uno dei tavoli da lavoro che aveva raccolto nelle zone colpite dal terremoto dell’Irpinia. Con matite di diversi colori stava tracciando su un rotolo di carta per elettrocardiogrammi lungo ben 34 metri, il “diagramma terremoto”: come un sismografo umano, voleva visualizzare la possibile trasformazione positiva di quella componente catastrofica che aveva travolto il Mezzogiorno italiano.

Nella sua azione era implicita l’accusa alle inadempienze di una politica che aveva reso così vulnerabile quel pezzo d’Italia da lui tanto amato, ma da artista sentiva di dover andare oltre: cogliere il potenziale esplosivo del terremoto per attivare un salto di coscienza collettiva. L’energia sprigionata dalla terra non andava demonizzata ma trasformata in energia creativa che mettesse in movimento le persone. 

Joseph Beuys, Terremoto in palazzo, 1981

C’è tutto Beuys in quell’azione. L’opera è un objet trouvé che risente di tutta la fragilità e la precarietà di quella realtà ferita (uno dei tavoli era in bilico, appoggiato su barattoli di vetro). Il titolo “Terremoto in palazzo” richiamava la categoria pasoliniana del potere, ma con l’ansia di reimpossessarsene. «Quel palazzo che dovremo prima conquistare e poi abitare in modo degno», avrebbe detto nell’ultima intervista rilasciata a Michele Buonomo. L’uomo sotto il tavolo è poi anche l’anti star, l’artista sceso dal piedistallo che dialoga, cerca ascolto e trova ascolto. 

Fa perciò un po’ sorridere l’idea che, nel 1961, al suo primo incarico all’Accademia di Düsseldorf a Joseph Beuys fosse stata assegnata la cattedra di “Scultura monumentale”. È tra quelle aule che aveva avuto tra i primi allievi Gerhard Richter, transfuga dalla Germania Est: la situazione è ben ricostruita nel film “Opera senza autore” di von Donnersmarck. «Le cose iniziano ad andare male quando qualcuno va a comprare un telaio e una tela», era uno dei leit motiv del Beuys insegnante. Un avvertimento decisivo per quell’allievo che per ricominciare a dipingere dovette passare attraverso un vero azzeramento delle proprie certezze e competenze.

Joseph Beuys davanti al cimitero di Gibellina, 1981

In realtà né “scultura”, né “monumentale” sono fuori luogo rispetto a Beuys. Semmai si dilata e muta radicalmente l’accezione di quei due termini. Per quanto riguarda “scultura” tutta l’opera dell’artista si configura come “soziale Plastik”, secondo la sua stessa definizione. «L’evoluzione va dall’arte moderna – cioè dall’arte tradizionale perché io considero tradizionale anche l’arte moderna – all’arte antropologica, e in quel contesto si realizza l’arte sociale: la società come opera d’arte», aveva detto Beuys nel bellissimo dialogo con Michael Ende raccolto in “Arte e politica una discussione” (Guanda, 1994). Scultura è quindi un lavoro di «configurazione del corpo sociale come grande opera d’arte». L’artista Joseph Beuys lavora a liberare l’energia artistica che è di ogni persona; la sua “scultura” prende la forma del cambiamento delle persone spinte a sperimentare un livello più alto di libertà. 

«When Attitude Becomes Form» era il titolo della rivoluzionaria mostra bernese curata da Harqld Szeemann nel 1969. In Beuys, evidentemente tra i protagonisti dell’esposizione, quell’accezione di attitudine travalicava l’orizzonte personale e si concepiva come tensione verso un cambio di status collettivo. L’arte rompeva la “cornice”, travalicava nel corpo sociale: in questo senso l’accezione “monumentale” trova una giustificazione. È “monumentale” l’obiettivo che Beuys assegna alla arte rinnovata. Aveva dichiarato le sue “ambizioni” già nel 1972, quando, sempre a Napoli e sempre da Lucio Amelio, aveva presentato la grande foto-autoritratto “La rivoluzione siamo noi”, scattata a Villa Orlandi ad Anacapri. È un Beuys spavaldo che ci viene incontro con stivaloni, cappello di feltro in testa, un giubbotto chiaro e il suo classico borsello a tracolla. La rivoluzione non è più un progetto, un obiettivo ma un processo messo in atto e che sta irrompendo nel presente. Rivoluzione è infatti sinonimo di resurrezione, una definizione a cui Beuys, nato da famiglia cattolica, ricorre spesso: «È il principio della resurrezione: trasformare la vecchia figura che muore ed è irrigidita in una figura viva, pulsante, che stimola la vita, l’anima, lo spirito».

Joseph Beuys, Olivestone, 1984, dettaglio

In questo processo di rigenerazione sociale, la natura fa da maestra e indica la strada: «Dico che l’albero è anche un segnale della trasformazione della società. È un segno che dimostra che la società deve essere elevata a un nuovo, terzo livello, anche secondo i punti di vista organici, senza alcuni ideologia, e soprattutto al di là di capitalismo e comunismo». La forza di Beuys è quella di ricondurre tutta questa prospettiva epocale a pratiche di estrema concretezza ed esemplarità, che lo proteggono dal rischio di deviare nell’utopia. Il caso più emblematico e celebre è quello delle «7.000 querce», l’opera con la quale si era presentato alla settima edizione di Documenta nel 1982. Aveva invaso la piazza davanti al Fridericianum, epicentro della grande manifestazione di Kassel, con 7.000 lastre di basalto, adottabili da chiunque volesse: con i soldi ricavati furono piantate negli anni altrettante querce nei dintorni della città tedesca, ciascuna segnalata dalla presenza di una delle lastre. Era parte del grande progetto “Difesa della natura” che ha occupato l’artista nell’ultimo periodo della sua vita. Anche in questo caso l’Italia è stato lo scenario privilegiato, grazie al rapporto con Buby Durini e Lucrezia De Domizio Durini. Proprio a Bolognano, nel cuore dell’Abruzzo, nella tenuta dei baroni Durini, Beuys aveva trovato le grandi vasche di decantazione dell’olio che trasformerà in una delle sue installazioni più celebri, realizzata due anni prima della morte, nel 1984. Cinque vasche antiche di tre secoli, tutte scavate a mano nella pietra, che Beuys aveva sigillato con una lastra di arenaria, tenuta sempre bagnata con l’olio. Se le vasche inevitabilmente richiamano l’immagine dei sepolcri, la pietra unta diffonde un profumo e dei cromatismi cangianti che restituiscono l’esperienza di un ciclo di vita che continua. È un’opera rituale, dove quelle pietre sempre vive, riscattano la squadratura brutalmente risolutiva delle vasche. Nella sala del Kunstmuseum di Zurigo, dove “Olivestone” è conservata per donazione di Lucrezia Durini, l’opera è accompagnata da una piccola tavola quattrocentesca con una Deposizione nel sepolcro: un’associazione che romanda a quel binomio caro a Beuys, “rivoluzione/resurrezione”. 

Articolo pubblicato su Il Manifesto, 11 maggio 2021

Written by gfrangi

Maggio 15th, 2021 at 9:18 am

1961, ovvero l’anno zero di Gerhard Richter

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Marzo 1961. Gerhard Richter aiutato da un amico sale su un treno della S-Bahn, la rete urbana di Berlino, e passa ad Ovest insieme a Marianne Eufinger, familiarmente Ema, la donna con cui si è sposato nel 1957. Non è una scelta dettata da ragioni politiche ma da un istinto artistico: nel 1959 visitando Documenta a Kassel aveva avuto la chiara percezione che solo in un contesto così avrebbe trovato stimoli per dire qualcosa di nuovo con la pittura. A Est aveva raccolto ottimi riconoscimenti, ma quella per lui era ormai una strada morta. Ad agosto di quell’anno veniva alzato il muro di Berlino: le porte alle spalle gli si chiudevano in ogni senso. Non sarebbe più tornato nella sua Dresda fino al 1986. 

L’alter ego di Richter, protagonista di “Opera senza autore”

Richter arriva in Germania Ovest e si costringe ad azzerare tutto: tra le accademie possibili sceglie quella di Düsseldorf, la più viva ma anche la più lontana da ciò che fino a quel punto lui era stato. Proprio in quel 1961 Josef Beuys prendeva la cattedra di Monumental Sculpture. Richter viene iscritto prima alla classe di Ferdinand Macketanz e poi a quella di Otto Götz. Sono anni cruciali e anche drammatici per quello che oggi viene definito il più grande tra gli artisti viventi. Anni che sono diventati anche soggetto di un film, “Opera senza autore”, uscito nel 2018 e arrivato da poco sia su RaiPlay che su Amazon Prime. Il regista è Florian Henckel von Donnersmarck, lo stesso che con “Le vite degli altri” nel 2007 aveva vinto il premio Oscar per il miglior film straniero. Nel frattempo è uscito un volume monumentale su Richter, edito da Prestel e curato da uno storico dell’arte tedesco, Armin Zweite (“Gerhard Richter. Life and Work”, 2020, 95 euro, 480 pagine), dove proprio ai primi anni di Düsseldorf viene dedicata un’attenzione particolare. 

Quando Richter si iscrive in Accademia ha quasi 30 anni, per vivere è costretto a fare lavoretti e a ricorrere all’aiuto del suocero, Heinrich Eufinger, ginecologo, un personaggio il cui passato, pesantemente coinvolto con il nazismo, non era noto all’artista: è proprio questo il tema al centro del film, girato a partire dalle rivelazioni contenute in una biografia non autorizzata di Richter uscita nel 2005, scritta da un giornalista tedesco, Jürgen Schreiber (la si può leggere in traduzione francese, edizioni Les presses du réel).

Gerhard Richer, “Tisch”, 1962 (opera n. 1 del Catalogo ragionato)

La determinazione con cui Richter affronta questo azzeramento è feroce. Non vuole concedere nulla a ciò che fin lì era stato. Armin Zweite nel libro parla di un “periodo di riorientamento”, in dialogo con compagni di corso che avrebbero segnato la sua storia, Sigmar Polke su tutti. In realtà dalle sue testimonianze e dai suoi scritti il “turning point” risulta segnato da una forte inquietudine. «Esistere significa quotidianamente lottare per la forma e la sopravvivenza», annotava nel 1962. La lotta nel suo caso era quella di non cedere al virtuosismo pittorico di cui aveva pur dato notevole prova negli anni che ora aveva cancellato dalla sua vita. «Odio lo stupore della capacità», scriveva sempre in quegli anni. «È troppo facile lasciarsi distrarre dall’abilità manuale e dimenticare invece l’immagine». Proprio l’immagine, la più casuale e banale, si presenta come il punto di svolta. Nel libro di Zweite questo passaggio è documentato con molta precisione. “Table” (1962), il quadro a cui Richter nella sua precisione catalogatoria assegna il numero “1”, è ispirato da una pagina di “Domus” con la foto di un tavolo allungabile disegnato da Ignazio Gardella. Del tavolo resta solo il piano bianco, che prende tutta la larghezza della tela e lievita nello spazio; l’aspetto è quello di un monolite “bombardato” da una cancellatura di pittura selvaggia. Istintivamente vi si può vedere il segno di quella lotta a cui lo stesso Richter faceva riferimento. A posteriori l’impressione è quella di una genesi, di un parto avvenuto: un nuovo inizio al quale conferire tutti i crismi dell’ufficialità con quel numero “1”. È l’avvio di una sequenza straordinaria di quadri realizzati a partire da semplici foto amatoriali o prese da giornali. La pittura è chiamata ad obbedire ad un già esistente, a sgravarsi da ogni soggettività. «In pittura, pensare è dipingere», «i miei quadri sono più intelligenti di me»: sono due sentenze che ricorrono spesso negli scritti e nelle interviste di Richter e che riescono a rendere l’idea di quel varco che gli si era aperto davanti, proprio in virtù di questa pratica da nuovo amanuense. In realtà nello spazio reso così sottile alla fine fa breccia potentemente la storia.

Gerhard Richter, “Aunt Marianne”, 1965

La vicenda di “Aunt Marianne” (1965) è emblematica. L’opera prende spunto da una foto di famiglia scattata in occasione di una festa, nel giugno 1932. Si riconosce la zia Marianne, sorella di sua madre, che tiene in braccio il piccolo Gerhard, di appena 4 mesi. Proprio la vicenda di Marianne è al centro della biografia non autorizzata (ma molto avvincente) di Jürgen Schreiber. La ragazza, che allora aveva 14 anni, era affetta da crisi di schizofrenia ed era finita negli ingranaggi della tragica macchina messa in atto dai nazisti per la purificazione della razza ariana, prima attraverso la sterilizzazione e poi con vere eliminazioni di massa. Marianne venne costretta a ricoveri forzati per lunghi anni in ospedali psichiatrici, in condizioni spesso terribili. Nell’ultimo, quello di Arnsdorf, aveva trovato la morte il 16 febbraio 1945 (quell’anno morirono il 67% dei pazienti dell’ospedale): ma proprio ad Arnsdorf lavorava in posizione di responsabilità Heinrich Eufinger, il futuro suocero di Richter, ginecologo, tristemente specializzato nella pratica delle sterilizzazioni. L’artista era totalmente all’oscuro di questa tragica coincidenza, anche perché Eufinger dopo la guerra si era abilmente riciclato, salvando la moglie del comandante russo del campo di Mühlberg, a rischio di vita per un parto ad alto rischio. Aveva avuto nuova carta d’identità e si era trasferito ad Ovest. Marianne e la sua vicenda avevano lasciato un segno profondo in Richter, tanto da immaginare il quadro come una maternità. “Mutter und Kind”: con questo titolo venne infatti presentato nel Padiglione Tedesco alla Biennale di Venezia del 1972.

Foto del 1932 con la zia Marianne e il piccolo Gherard

Tra 1963 e 1966 Richter continua a lavorare sui “photo-paintings”; si riconosce nella definizione di artista pop, segue con interesse gli sviluppi di Fluxus, espone con Polke, Lueg e Kuttner in un negozio abbandonato di Düsseldorf, con una mostra in stile neo dada, presentandosi loro stessi come opere d’arte. La pittura è il cuore del suo lavoro, ma, come sottolinea Armin Zweite, per lui è qualcosa concettualmente molto vicino ad un “ready made”. In realtà iniziano ad accorgersi di lui amanti della pittura; e tra i più solerti ci fu Giovanni Testori. Tra le carte dello scrittore, in corso di archiviazione a cura di Davide Dall’Ombra, è stato trovato un piccolo dossier del 1968 con un elenco di opere di Richter, e relative fotografie, sulle quali Testori aveva messo gli occhi.  Quasi tutte venivano dalla galleria Heiner Friedrich di Monaco, che in quegli anni stava promuovendo la nuova arte tedesca e dove Richter aveva nel 1966 esposto i suoi “Farbtafeln”, semplici campionari di colori, a ribadire l’eterogeneità delle sue strategia artistiche. Nel dossier arrivato a Testori erano indicati i prezzi, davvero inimmaginabili rispetto alle quotazioni di oggi: i valori non superavano i 3.500 marchi, che equivalevano a circa 600mila lire. Nonostante lo scrittore avesse messo le crocette sulle opere scelte e conteggiato anche i costi di trasporto, per motivi che non conosciamo l’acquisto non andò in porto. Ma è un episodio indicativo di un reciproco trasversalismo, di cui non ci resta che immaginare i possibili affascinanti esiti.

La ricevuta con i prezzi dei quadri di Richter ritrovata nell’Archivio Testori

Articolo pubblicato da Alias, 18 luglio 2020

Written by gfrangi

Luglio 20th, 2020 at 2:13 pm

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Casa Iolas, sogno smisurato e smisurato disastro

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Smisurato è stato il sogno che l’ha fatta essere. E smisurata è stata la tragedia che l’ha ridotta in rudere. È all’interno di queste opposte iperboli che tra 1962 e 1987 si è consumata l’epopea di Casa Iolas, la villa che uno dei più grandi e chiacchierati galleristi del secondo Novecento aveva costruito ad Agia Paraskevì, sobborgo a nord di Atene.

Esagerati fasti ed esagerata rovina: un po’ com’era nel dna di Alexandre Iolas, eccentrico all’eccesso, geniale come pochi. Era nato da genitori greci ad Alessandria d’Egitto nel 1907, con il nome di Constantine Koutsoudis. La sua prima ambizione, coltivata nella Parigi degli 30, era quella di fare il ballerino. Anni che aveva comunque messo a frutto frequentando il mondo artistico da Picasso a Braque, a Max Ernst, De Chirico, Cocteau… Così quando per un incidente nel 1944 mise fine alla carriera sul palco, era già pronto per iniziarne una nuova come direttore di una galleria newyorkese, la Hugo Gallery, fondata da esponenti della crème del capitalismo americano. Nel 1952 aveva messo a segno il primo colpo: esordio di un ragazzo dalla pelle chiara arrivato da Pittsburg bravo a disegnare scarpe per la moda. Era Andy Warhol e la mostra si intitolava “Fifteen Drawings Based on the Writings of Truman Capote”. Così lo dipinse Iolas: «Quando hai un’espressione stupida come quella di Andy nell’istante in cui tace, prima che scatti il sorriso, puoi fare tutto quello che vuoi al mondo». Amico, confidente e art dealer di tanti tycoon americani, li aveva guidati nel costruire le rispettive collezioni, a volte fantasmagoriche, come nel caso dei De Menil, emigrati da Parigi a Houston per scappare all’occupazione nazista. Nel 1955 aveva inaugurato una galleria sua in società con un altro ex ballerino, Brooks Jackson. Di lì, a cascata, sarebbero arrivate le aperture di sedi a Parigi, Milano, Madrid, Città del Messico e Roma, quest’ultima in società con Mario Tazzoli.

Non aprì ad Atene, perché per la città delle sue radici aveva un sogno più ambizioso: costruire una casa che avrebbe dovuto diventare insieme punto di riferimento immancabile per il jet set dell’arte mondiale e centro di residenza per sostenere gli artisti. Il cantiere durò dal 1965 al 1968. In realtà come ha raccontato Renos Xippas, cugino in seconda di Iolas e a sua volta gallerista a Parigi, «… all’inizio era stata concepita come una piccola casa di campagna dove alloggiare le sorelle e la nipote. Poi, col tempo, il progetto gli
sfuggì di mano e cominciò ad aggregare a quel primitivo nucleo centrale una successione di corpi, di volumi, di padiglioni costruiti attorno a un progetto espositivo della collezione privata che era tutto nella sua testa. Nessuno abitò mai realmente quegli ambienti. Nei periodi di permanenza ad Atene Iolas viveva in cucina, in compagnia di Sula, la sua governante. Lei gli preparava i piatti dell’infanzia, gli faceva le carte e gli accarezzava la testa quando aveva il raffreddore» (questa testimonianza di Xippas è contenuta nel bel catalogo della mostra dedicata alla vicenda di Casa Iolas, che nel 2017 si era tenuta al Palazzo Costa Grimaldi di Acireale, a cura di Cristina Quadrio Curzio, Leo Guerra e Stefania Briccola). 

Chi vide la casa negli anni fulgenti ricorda il soffitto laminato argento, la scala a chiocciola a corto raggio, le copie di torsi virili da Prassitele e Lisippo, la parete con disegni su carta d’oro di Ioannis Kardamatis. E poi quadri e oggetti di ogni tipo in un mix sfacciatamente hollywoodiano. Si dice, ma nulla lo conferma, che per la progettazione dell’edificio Iolas si fosse avvalso di Dimitris Pikionis, il grande architetto greco, che aveva firmato il progetto della trama di camminamenti di fronte all’Acropoli, alla base dei Propilei, i cosiddetti “sentieri di Pikionis”. Secondo la testimonianza del cugino Xippas, il fregio minoico che come un nastro incorniciava l’intero edificio sarebbe stato realizzato da un’indicazione di Pikionis.  Per arrivare all’ingresso della casa si percorreva un sentiero pavimentato da 55 lastre di marmo pario. E il marmo con il suo bianco dominava anche all’interno, anche negli scaffali della biblioteca dove i libri erano a loro volta tutti ricoperti di plastica, ugualmente bianca. «Era un palazzo rivestito di marmo», ha testimoniato Xippas. «Il marmo era economico allora e pratico. Non si sporcava e si lavava con acqua. Mio cugino era un uomo pratico sotto certi aspetti. Il marmo è un materiale eterno e forse credeva di essere eterno anche lui». Con il marmo pario Iolas aveva pavimentato anche la galleria milanese, aperta nel 1970 (ma già dal 1967 aveva una sede in città) in via Manzoni allo stesso numero civico del Museo Poldi Pezzoli: galleria che era stata progettata dall’amico Giovanni Quadrio Curzio. 

Altro oggetto feticcio nella casa ateniese era il “Golden Cloth” di Marina Karella, artista greca moglie del principe Michele di Grecia. Si trattava di un’installazione con una poltrona nascosta da una coperta; quando Iolas la vide le chiese di fonderla in bronzo e di darle una patina d’oro. A fianco di pezzi antichi Iolas schierava con assoluta disinvoltura gli oggetti in metallo creati dalla fantasia di Claude e François Lalanne, “les Lalanne”, animali che popolavano la casa, come la grande rana collocata nel bagno. Erano fantasmagorie dispiegate in assoluta libertà in quegli spazi disegnati con mente “attica”, «dove giovani bellissimi che apparivano e scomparivano tra le stanze… Tutto era parte della sua scenografia», come ricorda Fausta Squatriti, artista milanese che per Iolas aveva disegnato cataloghi e manifesti delle mostre, sempre eleganti e rigorosi (aveva fatto disegnare un font apposito). 

Esistono rare testimonianze visive di quegli interni. C’è un servizio di “Vogue America” del 1982, dove Iolas compare sull’ingresso di casa vestito in doppiopetto bianco. E ci sono le sequenze di “Consiglio di famiglia”, un film del 1986 di Costa Gavras con Fanny Ardant protagonista. In una scena esilarante si vedono due gemelli bulgari in pigiama e con i capelli ossigenati che si divertono a vandalizzare alcuni arredi della casa e anche una tela di Picasso. È una sequenza amaramente profetica perché nel frattempo su Iolas si era abbattuto un ciclone scandalistico, un vero rovesciamento del destino degno di una tragedia greca. Il gallerista aveva licenziato Anonis Nikolaou, un travestito che si faceva chiamare Maria Kallas e che lavorava in casa occupandosi della collezione. L’accusa era di alcolismo e di furti ripetuti. Anonis si vendicò con un’intervista al quotidiano “Avriani”, nella quale accusava Iolas di traffici di opere d’arte, di pedofilia e di spaccio di droga. La campagna stampa fu violentissima. Il quotidiano aveva addirittura pubblicato il numero di telefono di Iolas invitando i lettori a chiamarlo e maledirlo. Costa Gavras promosse una petizione in difesa del gallerista firmata da 150 personalità europee, tra le quali François Mitterrand. Iolas, malato di Aids, aveva lasciato Atene riuscendo a seguire l’ultimo progetto espositivo: “Last Supper”, il ciclo di lavori di Andy Warhol attorno al capolavoro di Leonardo, esposto alla Galleria del Piccolo Credito Valtellinese (il tramite era stato Giovanni Quadrio Curzio) in Corso Magenta a Milano. All’inaugurazione, nel gennaio 1987, Iolas non aveva potuto presenziare perché per una crisi era stato ricoverato nell’ospedale di Treviglio. Sarebbe morto a giugno, a New York: il mese successivo avrebbe dovuto comparire davanti al tribunale ad Atene. 

Nel frattempo la casa era stata svuotata di quasi tutte le opere e abbandonata a se stessa, preda di ogni tipo di vandalismo. Oggi giace come un impressionante relitto, con i marmi ricoperti da scritte e da murales, i serramenti divelti; dei fasti che furono restano solo poche e devastate reliquie. Un “caso” che verrà riproposto in occasione di due mostre programmate per settembre a Milano: “Casa Iolas” è il titolo di quella che si terrà nella galleria di Tommaso Calabro, con una scelta di opere che erano passate dalla sua collezione e la raccolta dei cataloghi e dei manifesti delle sue mostre (con un omaggio di Francesco Vezzoli). Nella Galleria del Credito Valtellinese verrà invece allestita una rievocazione della storica mostra di Warhol, “Last Supper Recall”.

Questo articolo è stato pubblicato su Alias, 3 maggio 2020, con il titolo “Dorata sfacciataggine su marmo pario”.

Written by gfrangi

Maggio 19th, 2020 at 8:22 am

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Grosz, Ritratto di Herrmann-Neisse. I piani oscuri scolpiti in un cranio

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Questo articolo è uscito su Alias dell’11 agosto, all’interno di un numero interamente dedicato ai ritratti fatti a poeti. Io ho fatto il ritratto di Max Hermmann-Neisse di George Grosz.

Innanzitutto la testa. Anzi, per dirla tutta, il cranio. Un cranio avvolto in una pellicola di pelle tesa e sottile, che lascia trasparire vene e suture tra le ossa. È incassato dentro un corpo sproporzionatamente piccolo e anche per questo ha un che di malinconico e di spietato nello stesso tempo. Siamo a Berlino, anno 1925. Nello studio di George Grosz («una specie di caverna nei quartieri meridionali di Berlino», lui stesso lo aveva definito) posa un amico strano, poeta, scrittore, drammaturgo, protagonista della vita dei cabaret. Si chiama Max Herrmann-Neisse, dove Neisse è un’aggiunta in omaggio alla cittadina dov’era nato, allora in Prussia oggi in Polonia. A vederlo in questo ritratto quasi inghiottito dalla poltroncina coperta di un tessuto a fiori comunica un senso di sfinitezza rispetto alla vita: eppure era un uomo che non aveva ancora compiuto 40 anni, essendo nato nel 1886. La vita certo non era stata molto clemente con lui. Era affetto da iposomia; dopo aver perso il padre durante il grande conflitto mondiale aveva dovuto affrontare anche un’altra ferita: il suicidio della madre che nel 1917 si era annegata nelle acque della Glatzer Neisse. Eppure le cronache berlinesi di quei folli anni venti lo registrano attivissimo, amico di Franz Jung, frequentatore di circoli socialisti e anarchici. Pubblica raccolte di poesie, pièce teatrali, tra le quali “Albine und Aujust” che raccoglie grande consenso dalla critica. A dispetto dell’amarezza che fa da sottofondo alla sua produzione poetica, era anche un uomo che nutriva fiducia nella funzione civile della cultura. Lo dimostra un bellissimo testo, scritto nel 1920 e pubblicato in una raccolta di saggi sulla funzione del teatro (devo la scoperta a Eleonora Fumagalli, che ha tradotto il testo). È una difesa del ruolo del “dramaturg”, ridotto a suo dire in «impiegato di un teatro istituzionalizzato e commerciale che si arricchisce con i divertimenti e le allusioni erotiche». Ed è anche una sorta di autoritratto, perché traccia un profilo del ruolo a cui Herrmann-Niesse ambiva nella Berlino di quel tempo. «Non c’è bisogno che il dramaturg sia un letterato», scrive, «ma sarebbe meraviglioso se potesse essere un poeta. Oltre a ciò il dramaturg deve avere la capacità d’immaginazione del buon regista, che sa seguire mentalmente, come accade nella visione d’un fatto tragico, un vitale processo di mosse e contromosse. Deve avere tratti comuni col musicista, che percepisce dalla musicalità di un testo teatrale la sua forza magica».

Per vivere però Herrmann-Niesse deve fare anche il manovale della cultura, correggendo bozze. Scrive testi per i cabaret berlinesi: è in quei contesti, veri epicentri della vita berlinese, che potrebbe esser avvenuto l’incontro con George Grosz. Nella sua “Autobiografia” (suggestiva ma non propriamente “scientifica” per il modo un po’ sommario con cui sorvola su date e su tante situazioni) Grosz non fa cenno all’amicizia con il poeta: eppure a nessun altro toccò la sorte di venire ritratto da lui due volte, visto che Herrmann-Neisse posò sulla stessa poltroncina anche due anni dopo, nel 1927. Il quadro oggi è conservato al Moma ed è stato al centro di una controversia con gli eredi dell’artista in quanto sarebbe tra le opere confiscate dai nazisti nel 1933 al suo gallerista Alfred Flechtheim a Berlino. Oltre ai due quadri Grosz realizzò anche una serie di folgoranti disegni, tutti centrati sulla testa glabra e quasi scolpita nelle ossa dell’amico poeta.

Il 1925 è un anno importante per gli artisti tedeschi: il 14 giugno a Mannheim si era aperta una mostra che segnava la definitiva uscita dalla stagione anarco-dadaista, e una riposta frontale al soggettivismo espressionista L’aveva immaginata e organizzata Gustav Hartlaub, direttore della locale Kunsthalle, coniando con il titolo anche il nome di una intensa e insieme crudele stagione artistica: “Die Neue Sachlichkeit”, “La Nuova oggettività”. «Per me rimane fondamentale l’oggetto: la forma deriva dall’oggetto», aveva scritto Otto Dix che già tre anni prima aveva dato il segnale della svolta con una delle sue opere più importanti “Alla bellezza”. È un linguaggio inedito, di “una stravolta classicità”, come ha scritto Elena Pontiggia; un linguaggio che recupera l’antico mestiere pittorico della tradizione, che intercetta visioni come quelle De Chirico e di Carrà e le cala dentro l’allucinata frenesia della Berlino degli anni 20. Anche Grosz aveva maturato una svolta, sia nella vita che nel percorso artistico: nel 1920 si era sposato con Eva Peter ed era entrato nella scuderia di un attivissimo gallerista, Alfred Flechtheim, editore di un mensile che lo aveva visto collaboratore in prima linea. Era una sorta di ritorno all’ordine che sanciva il distacco dall’esperienza del dadaismo berlinese di stampo sarcastico e nichilista.

In questo modo Grosz si  era fatto trovare alla chiamata di Hartlaub, come pure il suo grande e scellerato amico Rudolph Schlichter. Alla mostra era presente con sette opere e tra queste c’era proprio il Ritratto di Herrmann-Neisse, l’unica datata 1925 (in un certo senso il ritratto non si sia mai mosso da lì visto che oggi è nelle raccolte della Städtische Kunsthalle di Mannheim). Nel Ritratto si cristallizza con la massima chiarezza quello che è lo spirito della Nuova Oggettività: una definizione inesorabile e raggelata delle cose, un apriori negativo rispetto al mondo che inghiotte tutto, compreso ciò che andrebbe catalogato come amicizia o complicità culturale. Del resto la poesia di Hermann-Neisse in quegli anni non ha toni diversi; è poesia lucida e senza scampo dove «uomini sussurrano piani oscuri» e «uno studente tiene una cagna in grembo» sotto «stelle che inciampano nella notte» e sotto una «luna che pende, vuota e testarda», come si legge in “Nacht im Stadtpark”.

Ma Grosz e il suo amico poeta condividono anche il fatto di avere una doppia anima. Il pittore in quegli anni raccoglie grande successio come disegnatore satirico, mentre Herrmann-Neisse si era affermato uno degli autori più applauditi dei cabaret berlinesi, molto apprezzato da una star quale la cantante Claire Waldoff. I cabaret in quegli anni erano spazi libertari e libertini che facevano della capitale una della capitale tedesca una delle città più vitali e più stregate d’Europa. «Un Eldorado in fiamme», la definì il corrispondente del Chicago Daily News.

Il secondo ritratto di Herrmann-Neisse conservato al Moma. Datato 1917

Era solo “schiuma” avrebbe ammesso però Grosz nella sua “Autobiografia”. «Eravamo come barche al vento, con vele bianche, nere o rosse… Era un mondo del tutto negativo, con una gaia schiuma colorata in superficie, che molti scambiavano per la vera, la felice Germania, prima dell’eruzione dei nuovi barbari… Ma in realtà non era altro che schiuma. Sotto l’effimera, vivace superficie della sgargiante palude, allignava il fratricidio, la discordia totale».

In quel 1925 la morte del presidente Friedrich Ebert aveva spalancato le porte del potere a Paul von Hindenburg, un generale espressione del blocco dei partiti di destra. La Germania iniziava il suo scivolamento verso la tragica deriva del nazionalsocialismo: il Ritratto di Herrmann-Neisse realizzato in quegli stessi mesi è come un sismografo di quello che stava maturando. È un corpo senza vie di fuga, assediato dalla storia, costretto ad assorbirne la radicale negatività. La grandezza di Grosz sta però nell’essersi ricavato uno spiraglio rispetto alle formule raggelate della Nuova Oggettività, così da restituirci quella dimensione sottile e indimenticabile di malinconia.

Max Hermann-Neisse

Herrmann-Neisse come Grosz e come tanti altri sarebbe stato costretto all’esilio: partì nel 1933 dopo l’incendio del Reichstag. In realtà già otto anni prima, in quel 1925, si percepiva già un uomo in esilio, schiacciato da un destino senza scampo. Sarebbe morto nel 1941 a Londra per un arresto cardiaco. Qualche anno prima aveva pubblicato la sua ultima raccolta di poesie, “Um uns die Fremde” (“Intorno a noi lo straniero). «Il crepuscolo piega le sue ali, ci stiamo avvicinando a una notte che potrebbe non finire mai», erano i primi versi di uno dei componimenti, “Requiem”.

A Grosz sarebbe andata assai diversamente. L’esilio era la «realizzazione di un sogno, quello di seguire la strada del leggendario zio Hans». Nel 1932 venne invitato a insegnare ad un corso estivo all’Unione degli Studenti d’arte. «Amavo New York e forse New York amava me», si legge nell’“Autobiografia”. Addirittura, imitando lo zio che era diventato John, aveva aggiunta una “e” al suo nome inglesizzandolo: George Grosz e non più Georg…

Ludwig Meidner, Ritratto di Herrmann-Neisse, 1913, The Art Institute of Chicago

Written by gfrangi

Agosto 22nd, 2019 at 10:47 am

Appunti da un viaggio americano/1. L’immaterialità dell’arte

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(Sempre per l’idea di ragionare sulle cose viste)
(È stato un viaggio intenso, reso possibile da una sorella volante)

Primo giorno. Collezione Barnes
Ne ho già scritto qui. La collezione è davvero impressionante, per numeri e qualità. È curiosa questa commistione tutta americana tra grandi opere provenienti dall’Europa e ferri battuti appesi alle pareti. Pur nella raffinatezza delle scelte prevale sempre la concretezza di una cultura da “art and craft”. Colpisce la preferenza anomala (e precoce) per un artista come Chaïm Soutine di cui Barnes compra nel 1922 15 opere: un acquisto che aveva cambiato la vita di Soutine, mettendo fine alla stagione della miseria nera.

Dia Beacon, una delle installazioni di Richard Serra

Secondo giorno. Dia Beacon
Cavalcata alla Dia Beacon Foundation. Spazi immensi per autori che non si pongono confini. Cura nei dettagli, come viatico per entrare in quella dimensione di esattezza che per questi artisti è come una caratteristica che qualifica l’infinito: non è mai nulla di vago (parcheggio e giardino sono stati progettati –o meglio pensati- da Robert Irwin). L’ingresso dei 20mila metri quadri di capannoni già della Nabisco, è tutto per Walter De Maria: aste esagonali bianche (legno laccato) distese su immensi tessuti rossi, con un ritmo che lega dentro una logica senza sbavature.
Con i suoi immensi specchi grigi a dittico, ciascuno orientato diversamente grazie a complesse strutture che li reggono, Gerhard Richter fa l’americano e gli riesce benissimo: superfici assolute, verticali. Ma quella di Richter è una vertigine tenuta sempre sotto controllo, per una autorevolezza stilistica. Non così Michael Heizer, i cui quattro punti cardinali, immense voragini, dalle forme rigidamente geometriche, aperte nei pavimenti dei capannoni: risucchiano nel loro vuoto (sono profonde sei metri) e sono per questo isolate da una barriera protettiva. Installazione potentissima, che dimostra come l’infinito sia una proiezione che non risparmia nessuna dimensione. Con Richard Serra si entra in un orizzonte di immensità fisica con le sue “Torqued Ellipses”: occupano lo spazio sotto il pano del capannone, con la loro energia primitiva e insieme quel senso di squilibrio e di instabilità di questi manufatti senza apparenti punti d’appoggio.
Una notazione per Dan Flavin. La sua teoria di neon bianchi quasi a disegno gotico è esposta in un lunghissimo ambiente finestrato (appena schermato da una geometria di vetri opachi progettato da Irwin). Risultato: Dan Flavin è luce su luce. Non è teatro di luce nel buio. Stessa situazione nella casa di Donald Judd. La grande installazione progettata per la stanza da letto corre parallela alla sfilata di finestroni che si affacciano su Soho.
È arte che incanala le sensazioni verso un unico obiettivo, liberandosi da tutte le possibili interferenze. Arte depurata a priori, che quindi nel fare non contempla la possibilità di incertezze. Arte che porta la ricerca sempre sul confine della filosofia. Impressiona la coerenza dell’insieme, pur nella diversità dei linguaggi. Si muovono tutti su territori condivisi, dove ogni riferimento a fisicità o oggettualità è stato espunto. C’è ansia di assoluto, e per agguantarlo la strada è quella di liberarsi dal condizionamento delle cose per stare sul piano della immaterialità dei pensieri.

Dettaglio dell’installazione con gli specchi di Gerhard Richter

I grandi buchi dell’installazione North, East, South, West di Michael Heizer

Camminando tra le Torqued Ellipses di Richard Serra

Written by gfrangi

Luglio 17th, 2018 at 10:27 pm

Piccoli, il tabernacolo rosso di Cavernago

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Questo articolo è apparso sull’Eco di Bergamo del 2 luglio.

Appena si varca la soglia della nuovissima chiesa dedicata ai Santi Giovanni Battista e Marco a Cavernago l’occhio cade subito in quel punto: il tabernacolo. Nell’edificio progettato dall’architetto Paolo Belloni, luminoso e molto accogliente per la sua spaziosità, si avverte decisamente il richiamo di quel centro. Merito dell’intesa perfetta tra progettista e l’artista chiamato a realizzare anche altri interventi nella chiesa, nel segno di un’unità espressiva che dà ordine a questo edificio. L’artista è Riccardo Piccoli, non nuovo ad interventi a servizio degli edifici religiosi (qualche anno fa aveva realizzato Via Crucis e immagine di Maria per una chiesa in Equador, a Portovejo, ricorrendo a materiali poveri e con un percorso molto partecipato). A Cavernago Piccoli ha realizzato la Via Crucis, l’immagine per l’altare dedicato a Maria, e il grande cielo stellato sopra la vasca battesimale. E poi ha affrontato il tema complesso e delicato del tabernacolo. Un tema non semplice, perché spesso negli ultimi anni abbiamo assistito tante volte ad un nascondimento del Santissimo, per ragioni di sicurezza e magari per garantire spazi di preghiera più intimi nelle cosiddette cappelle feriali. Il problema che i progettisti devono ogni volta affrontare è sempre quello di escogitare una centralità del tabernacolo, evitando ogni effetto enfatico. Spesso però si finisce però con il proporre soluzioni in cui il tabernacolo viene quasi mimetizzato nella struttura. Sono lontani i tempi in cui San Carlo aveva ribaltato tante chiese del territorio milanese e bergamasco, proprio per innalzare e rendere più visibile il luogo dove si custodiva il Santissimo (basti pensare alla straordinaria soluzione messa a punto per il Duomo di Milano e poi replicata un secolo dopo al santuario di Caravaggio da Filippo Juvarra).
A Cavernago il progettista aveva immaginato un tabernacolo inserito nella struttura; ed è in quello spazio predefinito che Gianriccardo Piccoli è intervenuto con una soluzione tanto semplice e leggera, quanto affascinante. Una garza dipinta di rosso avvolge il vetro che protegge il vano incassato nella muratura dietro l’altare. Un led interno permette un effetto di piena trasparenza: si vede così il calice disegnato in vetro dallo stesso artista e la ciotola per la distribuzione dell’Eucaristia. Il rosso, che rimanda alla luce dei lumini che in tante chiese ancora segnalano la presenza dell’ostia consacrata nel tabernacolo, è anche un colore simbolicamente pregno di echi: richiama il fatto che lì non sono custoditi simboli, ma il corpo reale di Cristo. È un rosso intenso, che attira e insieme richiama il passaggio attraverso una ferita; un rosso che scopre e nello stesso vela e protegge. Un punto pulsante dentro l’architettura; un cuore che richiama l’evidenza di un Qualcuno presente.

Anche nel resto della chiesa Piccoli sa mettere in campo questa sua grammatica visiva chiara e sempre piena di pudore. È un approccio al sacro senza enfasi, ma capace di grande forza evocativa, come nel caso della parete dipinta di blu, che domina il battistero. Con materiali ultra poveri Piccoli ha ricostruito le 12 costellazioni: sono bottiglie “murate” che spuntano solo con le rispettive imboccature; le bottiglie sono raggiunte all’interno dal terminale luminoso di fibre ottiche che innervano la costellazione e accendono così quel cielo. Sotto, su una grande superficie bianca, verranno scritti i nomi che lì ricevono il battesimo. Nella Via Crucis invece le garze tornano in un gioco di sovrapposizioni: sui volti di persone normali si stende una garza con disegnati i volti di Cristo, immaginati per le situazioni delle singole stazioni. Anche in questo caso Piccoli ha escogitato un dispositivo che parla al cuore delle persone con semplicità e immediatezza.

Written by gfrangi

Luglio 9th, 2018 at 4:17 pm

Cèzanne-Matisse alla Barnes collection. Uno dentro l’altro

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Alla fine ho perso il conto. Ma ero sopra quota 50 per quanto riguarda Cèzanne e poco sotto per quanto riguarda Matisse. Credo che l’ossatura di questa eccezionale collezione che, per la mia esperienza non ha paragoni, sia proprio nella relazione tra loro due.
Cominciamo con quel 1907. Cèzanne è morto da un anno e Matisse che lo ha visto nella celebre mostra al Salon, è appena uscito dal fuoco dell’esperienza fauve. Alla Barnes ci sono due nature morte sue di quell’anno che sono evidentemente sotto folgorazione cezanniana. È Matisse sotto scacco davanti alle mele del maestro, ma che riesce a uscire dall’angolo di una inevitabile soggezione alzando l’intensità cromatica. Sono quadri che quasi sembrano scottare, e che sembrano compositivamente un po’ arruffati; lasciano sul terreno un po’ della sovrana padronanza matissiana per mostrare di aver metabolizzato la lezione.

La sensazione è che nella preferenza esplicita del collezionista per i due (con l’inserimento un po’ “arredativo” di una marea di Renoir) si colga anche una intuizione critica precisa: l’asse portante della pittura moderna è quello Cèzanne-Matisse. È il grande tema dell’organizzare in pittura le sensazioni; un tema che trascende tutte le schematizzazioni con cui si guarda all’arte del 900, nel senso che è il vero tema trasversale.
Cèzanne è impressionante come nella quantità di opere faccia chiaramente emergere questo suo avvicinamento al soggetto-motivo che ha bisogno di un continuo esercizio. È un insistere, un non mollare mai la concentrazione che alla fine gli permette degli affondi davvero colossali. Alla Barnes ce ne sono almeno una decina, quadri nei quali l’intensità pittorica raggiunge vertici di commozione assoluta: vere cattedrali in pittura. Dove la costruzione non cerca solidità formale esteriore ma insegue sempre un crescere dell’opera su se stessa, con la percezione che un solo tocco pre progettato o “voluto” possa far franare tutto. Cèzanne vuole penetrare il mistero della natura nel suo farsi, ma senza mai perdere in lucidità. È una prova di forza che si gioca in ogni tocco di pittura: entrare senza che l’entrare diventi un perdersi dentro. Così ogni quadro alla fine diventa una verifica della tenuta della pittura rispetto alla realtà. Un esercizio senza pause, e senza esiti scontati.

Matisse alla Barnes ha l’allure del dominatore. È una sequenza di opere spavaldamente importanti, come il trittico delle Tre sorelle o l’incredibile ritratto di donna con il Madras rosso (1907) o la Nature morte aux coloquintes (1916). Matisse è affermativo sempre. È molto più audace di quanto non la dia ad intendere. Soprattutto agisce sempre con grande determinazione intellettuale, ma senza nessuna concessione intellettualistica.
Il capolavoro della Barnes, la grande Danza realizzata per la sala principale nel 1932 è emblematica. Un’opera realizzata in apparente assoluta disinvoltura e padronanza dello spazio, in realtà cela scelte compositive ardite. A parte le figure che danzando spariscono oltre lo spazio destinato (una sorta di mutilazione felice), a parte l’alternanza di ascese e cadute, c’è l’immagine delle due figure dipinte tra una lunetta e l’altra: sono messe una frontale e una di schiena, come se stessero compiendo un atto sessuale con il piede dell’arco che entra tra le loro gambe. Una scelta tutta di potenza e di audacia, fatta passare con assoluta nonchalance. È il suo modo di organizzare in pittura le sensazioni. La foto qui sotto è un involontaria conferma

Written by gfrangi

Luglio 4th, 2018 at 10:54 am

Il Maxxi come palestra per il cuore

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Pensieri da un’intervista del nuovo direttore del Maxxi Hou Hanru a Francesco Bonami, pubblicata sulla Stampa del 7 gennaio. Interessanti perché veicolano una ipotesi non protagonistica di concepirsi come curatore.

Il mondo dell’arte ultimamente ama far vedere i muscoli, ma io vorrei una palestra per far funzionare il nostro cuore meglio, che credo si in genere più sano.

Io mi sento sempre un outsider che tenta di sopravvivere alla tentazione di diventare un insider. Un rischio sempre più grande oggi che l’“outside”, il fuori, non esiste più. L’Impero è diventato troppo grande e contiene tutto.

Siamo così appiccicati alla contemporaneità da non riuscire a vederla con chiarezza, quindi è bene fare un passo o due indietro.

Io sono convinto che si possono presentare importanti e popolari mostre in modo diverso e renderle fruibili non solo attraverso il solito marketing ma più che altro attraverso un forte e serio lavoro didattico di approfondimento.

Il nostro è un lavoro che ultimamente è andato un po’ l’altro deriva, finendo col parlare solo agli eletti e i nostri colleghi. Credo si debba invece tornare alla funzione originale del curatore, che era quella di osservare la cultura e l’arte e trovare metodi e occasioni per condividerla e ridistribuirla a un pubblico molto più vasto.

Written by gfrangi

Gennaio 8th, 2014 at 9:50 pm

Boccioni e le sue donne

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Al nuovo museo che raccoglie le collezioni di Banca Intesa, aperto da pochi giorni in via Manzoni a Milano (Gallerie d’Italia, il nome che gli è stato assegnato: progetto in grande stile e molto ben curato), c’è un quadro di quelli che lasciano un vero “contraccolpo” in chi li guarda: è il grande Boccioni con le Tre donne, praticamente una delle ultime prove prima della definitiva svolta futurista (1909 1910). Un quadro meraviglioso in cui Boccioni raduna le tre donne della sua vita, la madre Cecilia Forlani, la sorella Amelia e la modella-amante Ines, al centro arretrata.
È un quadro assolutamente moderno, con quella luce solare e insieme inquieta che rende tutto pulviscolo, ma insieme un quadro antico, che raduna in un unico spazio tutte le presenze care. La pittura che sfibra la materia, nello stesso tempo la accarezza. È un quadro che fa memoria di un istante perfetto, acceso da qualla luce piena di energia che è la luce propria di Milano quando il sole riesce a dissolvere l’abituale lattiginosità del cielo. Il tessuto della pennellata divisionista è come un percorso paziente per prendere possesso affettivo di quelle figure, quasi ti pemettesse di sentire il loro respiro e il profumo delle loro presenze.
C’è poi la geometria del quadro, sapiente con le due linee in diagonale della madre e della sorella, che fanno da sipario alla terza figura, quella un po’ clandestina di Ines, sul retro. È una geometria voluta, che strappa il quadro dall’orizzonte naturalista e gli dà un impianto costruttivo preciso. Ma questo “strappo” anziché distanziarlo, rende ancora più intensa la triangolazione affettiva che lo costituisce (una triangolazione che nella realtà non era per altro sempre tranquilla). La giusta ambizione ad essere moderno non fa recedere Boccioni dall’irresistibile richiamo della tenerezza.
Tutte e tre le donne si rivolgono verso di noi, con uno sguardo che Boccioni desidera sospeso dal tempo: un attimo di bellezza e di affettività vissuta, sperimentata e che la pittura è chiamata a custodire, a tener acceso oltre l’attimo. È un istante certamente strabordante d’intensità, che la disciplina operaia di Boccioni riporta dentro il contesto di normalità (siamo presumibilmente in una stanza della sua casa milanese); dentro i termini della circostanza qualunque, ricucendo il tutto (l’assoluto e il relativo) tratto per tratto.
Il 900 ha sperimentato tante volte una grandezza ostile alla normalità; una grandezza che prendeva di mira la normalità e lavorava allo sgretolamento delle sue abitudini e delle sue visioni. Boccioni è un’eccezione. È un grande moderno che resta radicalmente affezionato alla normalità. Per questo oggi lo sentiamo così italiano e così nostro.
In questo sito c’è un’antologia delle sue lettere con una selezione ben congegnata delle sue oper pre futuriste.

Written by gfrangi

Novembre 13th, 2011 at 11:30 am