Robe da chiodi

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Letizia e Battaglia, di nome di fatto

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Nell’ossimoro del suo nome c’è tutto il destino e tutto il fascino di Letizia Battaglia. Nella vita è stata una magnifica combattente, ma affamata di bellezza e di felicità. «Le mie foto non esaltano il male, lo raccontano attraverso la bellezza. Per me la disperazione è bellezza, la sconfitta è bellezza, la cattiva sorte è bellezza», diceva di sé e del proprio lavoro. Letizia Battaglia se n’è andata a 87 anni, e il vuoto che lascia è un vuoto davvero grande, e non solo per il mondo della fotografia. Definirla fotografa infatti è paradossalmente riduttivo, perché la fotografia era per lei un mezzo, mai un fine.  

«È capitato che abbia fatto per molti anni la fotografa e che fare la fotografa mi piaccia tanto, ma sicuramente potrei rinunciare a farlo per andarmene davanti al mare e vivere senza più fare niente», aveva dichiarato nella magnifica monografia-confessione scritta da Giovanna Calvenzi e pubblicata nel 2010 per Bruno Mondadori. In realtà Battaglia è stata una grande fotografa, capace di fissare con le sue immagini una stagione drammatica e la vita di un’intera città. Aveva iniziato un po’ per caso, quando già aveva alle spalle un matrimonio che l’aveva delusa e tre figlie. Per questo aveva lasciato Palermo per Milano, alla ricerca di un modo per ricominciare. La macchina fotografica è stato lo strumento che l’aveva rimessa in movimento. Nel 1974 era tornata a Palermo, per avviare insieme a Franco Zecchin, l’agenzia Informazione fotografica, lavorando per l’Ora, quel piccolo quotidiano, coraggioso come lei, in prima linea nella lotta alla mafia. È per l’Ora che Battaglia ha documentato una stagione sanguinosa di Palermo. Tra le tante fotografie di quegli anni, una parla di lei più di tutte le altre: è quella scattata il 6 gennaio 1980, giorno dell’omicidio di Piersanti Mattarella. Lei era per caso nei paraggi con Zecchin e la figlia. Corse dove c’era il capannello delle persone, si affacciò al finestrino dell’auto: davanti a lei Sergio, l’attuale presidente della Repubblica, reggeva il corpo del fratello ucciso. Scattò la foto in un secondo, “à la sauvette”, come insegnava Cartier Bresson, “in fretta e furia”. «In realtà non lo so cosa facevo. Facevo quello che dovevo fare», aveva confessato anni dopo in un’intervista rilasciata ad Angela Mainitiù per Il Manifesto. E poi in poche righe aveva stupendamente sintetizzato il suo modo “morale” di porsi in queste situazioni: «Che cos’è il supporto di un fotografo? È quello che lui sa della vita, dell’arte, quello che ha visto, studiato, meditato. In quel secondo converge tutto, il tuo amore, il tuo odio, la tua rabbia, il tuo rispetto».

Sono fotografie che Letizia Battaglia si è portata sempre dietro come delle ferite. Aveva anche ipotizzato di distruggerle, poi se le era appese in casa per cercare di metabolizzarle, infine le aveva rifotografate sovrapponendo immagini di donne e di vita. È una relazione con il proprio lavoro che evidenzia la sua libertà. «Sono persona, non fotografa», ripeteva. Come persona non le interessava la bellezza delle immagini, ma la bellezza della vita. Per questo non risparmiava frecciate a grandi autori secondo lei a rischio di estetismo, come Mapplethorpe o Salgado. Diane Airbus e soprattutto Koudelka erano invece i suoi riferimenti, o maestri “involontari”. Con il grande fotografo boemo aveva fatto tanti viaggi, sempre in camper, dalla Turchia fino al Nord Europa. Soprattutto Koudelka, come pure Ferdinando Scianna, era diventato una presenza famigliare all’Agenzia Informazione Fotografica, poi diventato Laboratorio IF, perché Battaglia e Zecchin ne avevano voluto fare una vera e propria scuola, un’esperienza che fosse didattica ma che spingesse ad andare sempre in prima linea. Con la stessa generosità e passione nel 2017 si era buttata nell’avventura del Centro internazionale della fotografia al Cantiere della Zisa a Palermo, un progetto tanto ambizioso quanto faticoso, un sogno come tanti suoi sogni marcati da ferite (“Sulle ferite dei suoi sogni” è non a caso il titolo del libro con Giovanna Calvenzi). Letizia Battaglia lascia un grande vuoto perché ci mancherà quel suo impeto d’amore verso la vita, che l’ha fatta essere pienamente donna, amica di tanti, attivista, mamma e persino bisnonna, come orgogliosamente sottolineava. E naturalmente l’ha fatta essere anche grande fotografa. A questo proposito, se interpellata rispetto a quel che sta accadendo nel mondo, avrebbe ribadito di non essere capace di fotografare la guerra, «perché per me è indispensabile l’amore».

Pubblicato su Il Manifesto, 14 aprile 2022

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Aprile 23rd, 2022 at 11:11 am

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Lo sguardo grande di Basilico

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Gabriele Basilico è grande in ogni senso. Grande come fotografo, ovviamente. Grande come sguardo, perché le sue sono immagini generose, precise ma mai pedanti. Grande come cuore , perché si coglie immediatamente che c’è una sorta di gratitudine verso tutti i luoghi davanti ai quali pone l’obiettivo. La mostra aperta a Milano all’Unicredit pavillon rende tutte queste molteplici dimensioni della grandezza di Basilico (una grandezza che è tutto meno che retorica). È una mostra che fa leva sui grandi formati, visti in spazi adeguati. Che si articola per prospettive visive e tematiche e non topografiche, facendo capire che per Basilico è l’idea di città che lo interessa, non una città piuttosto che l’altra. La città come condensazione dell’umano, come luogo reso bello dal fatto che qui si annida in modo irriducibile la vita, in tutte le sue forme, impreviste, non calcolate. Ci sono alcune considerazioni che mi sono annotato. Si vedono tante foto di Basilico prese da un punto di vista alto: lui ci ha sempre abituato al punto di vista marciapiede, quello che dimostra che. In c’è bisogno di prospettive speciali per scoprire la bellezza di una città. Ma qui lo vediamo esercitarsi in sguardi (Montecarlo, Napoli, Bari, Mosca…) colti dalla cima dei palazzi più alti. Sono sguardi rotanti, come a voler tirar dentro nell’obiettivo, con un movimento a spirale, tutta la città. Mi vien da pensare che nell’occhio di Basilico si erano impresse le immagini di Boccioni, altro grande artista innamorato delle città e della vita che sprigionano. Le viste dall’alto non sono solo vedute più larghe, sono prospettive più esplicitamente e dichiaratamente innamorate: mi vien da pensare che Basilico voglia aver voluto a curiosare nell’occhio di Dio. Cioè vedere le città come potrebbe vederle Dio…
Altro pensiero sulla foto di Basilico che amo di più, la più testoriana (non a caso volle esporla a Casa Testori per la prima edizione di Giorni Felici nel 2009). È la vista notturna di un gruppo di palazzi periferia. Che sia profonda notte lo dimostra non solo il nero del cielo, ma anche il fatto che non ci siano finestre illuminate. Ma notavo l’effetto straniamento che dà la facciata invece in piena luce, come sotto le luci di un riflettore. Non so dove Basilico abbia “rubato” tutta quella luce, e non voglio neanche saperlo. So che il silenzio degli uomini che dormono è vegliato da una luce potente. So che quella luce è un po’ come un bagno d’oro che racconta tutta la dignità di cui quella casa è testimone. So che la luce restituisce tutto il senso protettivo che la casa assicura a chi la abita. Quella foto è una “beatificazione” dell’idea di casa. Senza clamori, senza retorica, senza enfasi.
Infine, nella sala in alto, dove sono raccolte le foto dei porti, una parete mette in fila tre immagini con una linea di orizzonte che continua da una inquadratura all’altra. E quella linea lascia un grande spazio al cielo. Mi ha colpito questo amore di Basilico per il cielo. Quasi un bisogno di cogliere una dimensione di immensità che si armonizza con il microcosmo fitto che contrassegna la terra. Le foto di Basilico hanno sempre un respiro, che è un respiro affettivo prima che fisico. E queste foto con i grandi cieli sono lì come a farcelo scoprire e a farci guardare con un altro sguardo anche tutte le altre.

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Gennaio 17th, 2016 at 2:26 pm

Dondero l’angelo della fotografia

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Mario Dondero, Francis Bacon nello studio, 1961

Mario Dondero, Francis Bacon nello studio, 1961

Ieri è morto Mario Dondero, un grande fotografo, grande per il suo radicale antinarcisismo. Nel libro Electa pubblicato in occasione della grande mostra romana dello scorso anno c’era un breve intervento di Giorgio Agamben. Ve ne propongo un passaggio, per me straordinario.

Mario ha espresso una volta una certa distanza rispetto a due fotografi che pure ammira, Cartier-Bresson e Sebastião Salgado. Nel primo egli vede un eccesso di costruzione geometrica, nel secondo un eccesso di perfezione estetica. A entrambi oppone la sua concezione del volto umano come una storia da raccontare o una geografia da esplorare. Nello stesso senso anche per me l’esigenza che ci interpella dalle fotografie non ha nulla di estetico. È, piuttosto, un’esigenza di redenzione.
L’immagine fotografica è sempre più che un’immagine: è il luogo di uno scarto, di uno squarcio sublime fra il sensibile e l’intellegibile, fra la copia e la realtà, fra il ricordo e la speranza. A proposito della resurrezione della carne, i teologi cristiani si chiedevano, senza riuscire a trovare una risposta soddisfacente, se il corpo sarebbe risorto nella condizione in cui si trovava al momento della morte (magari vecchio, calvo e senza una gamba) o nell’integrità della giovinezza.
Origene tagliò corto a queste discussioni senza fine affermando che a risorgere non sarà il corpo, ma la sua figura, il suo eidos. La fotografia è, in questo senso, una profezia del corpo glorioso. È noto che Proust era ossessionato dalla fotografia e cercava con ogni mezzo di procurarsi le foto delle persone che amava e ammirava. Uno dei ragazzi di cui era innamorato quando aveva 22 anni, Edgar Auber, gli regalò, su sua insistente richiesta, il proprio ritratto. Sul verso della fotografia, scrisse in guisa di dedica: «Guarda il mio volto: il mio nome è Avrebbe Potuto Essere; mi chiamo anche Non Più, Troppo Tardi, Addio». La dedica è certamente pretenziosa, ma esprime perfettamente l’esigenza, così viva in ogni foto, di cogliere il reale che si sta perdendo per renderlo nuovamente possibile.
Di tutto questo la fotografia esige che ci si ricordi, di tutti questi nomi perduti le foto di Mario testimoniano, simili al libro della vita che il nuovo angelo apocalittico – l’angelo della fotografia – tiene fra le mani alla fine dei giorni, cioè ogni giorno.

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Dicembre 14th, 2015 at 2:07 pm

Wenders, il sole sopra Ground Zero

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La bella mostra con le foto di Wim Wenders curata da Anna Bernardini a Villa Panza ha il suo apice nella scuderia piccola, dove sono “raccolte” le foto scattate Ground Zero. Sono immagini che tolgono il respiro, ma che insieme al senso di disastro riescono a comunicare una inspeigabile dimensione di speranza. Le parole di Wenders nell’intervista pubblicata in catalogo spiegano, con molta umiltà, l’origine di questa speranza.

Domanda: Dopo l’attentato alle Twin Towers sei andato a fotografare Ground Zero, apoteosi di qualsiasi maceria e archeologia, relitto di un millennio appena cominciato, simbolo per eccellenza della conclusione di un’intera epoca. Perché hai scelto di utilizzare la fotografia per documentare la fine di molte cose? Credi che sia questa la natura (o il destino) di questo mezzo? Immortalare?

Wwnders: Direi diversamente: testimoniare il tempo. Forse è la stessa cosa… Ma c’era qualcos’altro in quel desiderio di fotografare Ground Zero. Una sensazione di impotenza. Tutti avevamo visto le torri cadere, aggrappati ai televisori senza riuscire a credere ai nostri occhi. In realtà, dopo qualche giorno, desiderai di non aver mai visto nulla di simile! Avrei voluto cancellare quelle immagini. Ma non potevo. Nessuno poteva. Avevano letteralmente invaso la nostra coscienza. Per quanto mi riguarda, avevo gli incubi e mi svegliavo madido di sudore freddo. Mi sentivo come se avessi preso un brutto virus da cui non riuscivo a guarire. Così andai a New York, convinto che avrei potuto curare questa malattia solo vedendo le cose con i miei occhi. All’epoca, nessuno poteva più accedere a Ground Zero. L’intera zona era off-limits per i fotografi. Il sindaco di New York aveva autorizzato un solo fotografo, Joel Meyerowitz, a recarsi sul posto in veste di testimone ufficiale, e Joel ci andava ogni giorno. Essere presente e seguire i lavori era per lui un preciso dovere. Joel fu molto generoso e un giorno mi portò con sé. Fece una fotocopia del suo permesso in cui mi inserì come suo “assistente”. Andammo a Ground Zero il mattino presto e ci restammo diverse ore. Joel conosceva ogni vigile del fuoco per nome. Ce n’erano molti che lavoravano lì, spalando macerie e soprattutto cercando resti umani. Era un enorme cimitero. Al centro, il terreno fumava ancora. C’era un odore terribile, pungente. Tutti lavoravano in silenzio, con il viso coperto da una maschera. C’era una sensazione di grande dolore e di serenità. Ogni tanto si sentiva un segnale, una sirena che annunciava il ritrovamento di qualcosa da parte di una delle tante squadre. La gente si toglieva il cappello e c’era un momento di silenzio assoluto, poi tutti si rimettevano al lavoro in quell’inferno. Enormi camion spruzzavano acqua per evitare che la polvere si alzasse e volasse ovunque. Joel e io continuavamo a fotografare anche nel silenzio, senza scambiarci parola. Avevo portato la mia macchina fotografica panoramica, per essere in grado di cogliere l’ampiezza del luogo, e la natura stessa delle foto che scattavamo ci costringeva a rivolgere lo sguardo soprattutto verso il basso. All’improvviso vidi una luce diversa splendere attraverso la polvere e il fumo. Sollevai lo sguardo e mi resi conto che il riflesso del sole aveva immerso per qualche istante Ground Zero in una luce accecante. Era ancora mattina, e fino a quel momento i grattacieli intorno avevano impedito ai raggi del sole di illuminare direttamente lo spazio rado di Ground Zero. Ma adesso gli edifici circostanti contribuivano a deviare la luce. Anche gli operai lo notarono. Vidi Joel guardare su, incredulo, borbottando di non aver mai visto nulla di simile in tutti i suoi giorni “di servizio”. Non durò a lungo, e il sole scomparve di nuovo. Ma in quei momenti, nelle poche foto scattate con quella luce, mi sembrò di essere il testimone di un messaggio che il luogo stesso ci consegnava. Era un messaggio di pace. Quel luogo aveva visto un orrore indicibile. Ma ora, per un attimo, mostrava un lampo di bellezza surreale che voleva dire: “Il tempo guarirà le ferite! Questo luogo guarirà! Questo paese guarirà! Ma tutto ciò non deve essere la causa di altri morti! Non lasciamo che questo diventi motivo di ulteriori orrori…”. Questo è ciò che ho capito mentre scattavo le mie foto in quegli attimi beati. E sì, spero di aver immortalato quel messaggio. Anche se in seguito la politica non ha seguito questa strada, provocando la delusione e lo sgomento di molti. La politica ha deciso di iniziare una “guerra contro il terrorismo”, una combinazione assurda di parole, tanto per cominciare. Quella politica non ha fatto altro che ingrandire il danno compiuto. Per una scheggia di tempo, per un brevissimo intervallo, c’era stata una diversa opportunità, una possibilità di pace e solidarietà sul nostro pianeta. La gente di tutto il mondo, indipendentemente dalla razza, dalla nazionalità o dalla religione, si era ribellata contro l’atto compiuto a Ground Zero. C’erano funzioni e cerimonie celebrate da tutte le grandi religioni del mondo, unite. Era un’esplosione di desiderio di pace! Ma la politica americana ha frainteso tragicamente la situazione, e si è imbarcata in una assurda vendetta, invadendo un paese che non aveva niente a che fare con l’attacco a Ground Zero, e giustificando le proprie azioni illecite con bugie e motivi fasulli.

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Gennaio 26th, 2015 at 12:39 pm

Wim Wenders a Villa Panza. L’America in interno lombardo

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Apre la mostra delle fotografie di Wim Wenders a Villa Panza. Le immagini dell’allestimento parlano da sole: dopo Turrel e Irwin, continua il dialogo tra la Lombardia e l’America. Amo Wenders fotografo, perché è risucchiato dallo spazio americano, così cinematografico e così carico di suggestioni di infinito, così necessario al suo occhio da regista (ricordo sempre il suo magnifico “L’amico americano”). Lui dice: «Attraverso il mirino, colui che fotografa può uscire da sé ed essere dall’altra parte, nel mondo, può meglio comprendere, vedere meglio, sentire meglio, amare di più».
La parola alle immagini degli allestimenti.

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Gennaio 14th, 2015 at 10:42 am

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Piccola lezione sulla fotografia con Vincenzo Castella

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Vincenzo Castella, Certosa di Pavia, la facciata

Vincenzo Castella, Certosa di Pavia, la facciata

Serata in casa di Vincenzo Castella, napoletano a Milano. È interessante dialogare con lui, perché non conosco fotografo che sappia altrettanto sviluppare ragionamenti. Non a caso nella presentazione della mostra madrilena che si apre sabato 25 (galleria Fucares), scrive «There are no stories to be told but, maybe, discourses to be structured». Strutturare discorsi attraverso le immagini. E ancora: «Photography is its empiric/ investigative/ dubitative character». La fotografia come qualcosa che non appartiene a chi la fa, che svela quel che chi la fa non vede; nella fotografia non è l’occhio che agisce ma la luce che colpisce il materiale sensibile. Racconta Castella: c’è chi ha voluto infilarsi dentro la scatola, per vedere l’istante che nessuno vede, quando l’immagine della realtà entra a disegnare la pellicola. Dopo di che, dice sempre Castella, si va allo “sviluppo”, che è un inglesismo (quindi inficiato di positivismo anglosassone) sostitutivo di una termine francese molto più aderente a quel che in quell’istante accade: lo sviluppatore è “le revelateur”. L’immagine si svela. Aggiunge Castella: fateci caso, tra i pionieri della fotografia c’è una buona dose di massoni (Niepce e Fox Talbot). Questo non gli interessa, perché l’alchimia è una favola (non c’è nulla di esoterico nella sua idea di fotografia: «Therefore, the position of my camera is always: ordinary, shared, mediated, inclusive and often, well visible»).
Non accetta compromessi con il digitale, perché il digitale è il tentativo di chi fa la foto di riprenderne possesso, al punto di poterla poi gestire e trasformare in post produzione. Lo spezzettamento dei pixel è il tentativo di governare il processo dell’immagine. Ma a questo punto non siamo più nella fotografia: il bianco non è più figlio della luce (che passa per il processo del negativo, quindi del nero), ma è solo quello della carta.
Gli chiedo se il processo della fotografia, che va oltre lo spettro dell’occhio, non sia alla radice del tentativo cubista. Mi dice di sì, ma fa una notazione che credo preziosa come poche: il cubismo era figlio di una stagione in cui funzionava ancora l’energia dei simboli. Oggi siamo in un’altra stagione: quella della “metafora”. Mi sembra una chiave perfetta per inquadrare il momento che vive l’arte del terzo millennio. Per questo, tornando alle straordinarie foto del suo lavoro sulle chiese del Rinascimento, lui non è andato in cerca dei simboli, ma è planato sul “pattern” visivo delle superfici rinascimentali. Scrive, sempre nella nota per la mostra madrilena: «I’ve been aiming at an equidistant point among sculpture, painting and dust».

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Maggio 22nd, 2013 at 5:38 pm

Cosa svela la croce di Giotto vista da dietro

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Vincenzo Castella, La Croce di Giotto a Santa Maria Novella

Vincenzo Castella, La Croce di Giotto a Santa Maria Novella

A proposito di quel diceva Bacon, della Crocifissione come “un’armatura”, armatura tanto collaudata da non essercene una uguale, ecco l’armatura a cui si attaccò Giotto. L’immagine straordinaria è di Vincenzo Castella e fa parte della mostra che il fotografo napoletano ha presentato alla chiesa di san Lupo a Bergamo. Si tratta del retro della Croce di Santa Maria Novella, ritagliata nel meraviglioso “pattern” (per usare parola cara a Castella) gotico delle volte e della navata: la geometria risoluta della croce esce ulteriormente rafforzata nel rapporto con le geometrie correnti degli archi. Si capisce cosa Bacon intendesse: la Croce è una struttura salda, che attraversa il tempo, la sola a cui potersi attaccare nel momento in cui c’è da esprimere un vertice di dolore o di sentimento. E fa strano pensare che per esprimere qualcosa che documenta la disintegrazione di un corpo ci si debba appoggiare a una forma che al contrario garantisce solidità formale. Lo si può dire di Bacon, ma anche di Giotto: immaginandolo davanti a queste tavole saldamente incrociate, mentre lo attende quello iato da superare. È lo iato grande che separa quelle forme dall’esperienza di drammatica impotenza che vi deve essere rappresentata sopra. Per ogni grande artista credo sia un’esperienza drammatica, un’esperienza ultimamente di abbandono. Davvero un passaggio per l’Orto del Getzemani.
Ovviamente c’è da ringraziare Castella per tutto ciò che questa immagine, nascondendo, svela.

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Maggio 10th, 2013 at 5:36 pm

Tre pensieri sul meraviglioso Papa Francesco

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Il primo pensiero mi viene da questa foto (cliccate sopra l’immagine per ingrandirla). Di una bellezza da restare senza fiato: complimenti all’autore, Dan Kitwood. Bella l’immagine ma straordinaria la forza del gesto di Papa Francesco, in una San Pietro che sembra oscurata dal buio del Venerdì Santo, con la pianeta rosso sangue e le scarpe da parroco del mondo. Si percepisce l’intensità di affezione per il Cristo in croce, il senso di immensa gratitudine per una salvezza avvenuta attraverso quel sangue versato. C’è la dimensione di un perdono arrivato davvero e arrivato per grazia.
Una postilla a questa immagine: chiaro, io non posso non pensare al papa colpito da una meteorite di Maurizio Cattelan (lo ricordo nel cuore della Sala delle Caritidi, vuota, appoggiato su un tappeto rosso che copriva l’inetro pavimento). Anche quel Papa aveva una croce tra le braccia, e non credo affatto che l’intenzione di Cattelan fosse né beffarda, né blasfema. Identificava un papa da battaglia, come Wojtyla fu, un papa condottiero. Papa Francesco è diverso. È un papa innamorato, che sente la tenerezza di Dio. E se ne lascia abbracciare. In un certo senso questa foto archivia Cattelan.

Il secondo pensiero mi viene da una frase incredibile che il papa ha rivolto ai sacerdoti di tutta la chiesa. La riporto: «…Da qui deriva precisamente l’insoddisfazione di alcuni, che finiscono per essere tristi, preti tristi, e trasformati in una sorta di collezionisti di antichità oppure di novità, invece di essere pastori con “l’odore delle pecore” – questo io vi chiedo: siate pastori con “l’odore delle pecore”, che si senta quello -; invece di essere pastori in mezzo al proprio gregge e pescatori di uomini». (qui il discorso integrale) L’odore delle pecore! C’è tutto in questa indicazione, c’è l’amore all’altro che è fatto di contiguità, di prossimità non teorica ma fisica, corporale; c’è condivisione reale di destino. È l’antica immagine del buon pastore che ha la pecora sulle spalle, che se ne fa carico non per eroismo ma per amore. Nessuno ci aveva mai pensato, ma a quel pastore resterà sempre addosso “l’odore delle pecore”. Ed è la cosa che lo rende contento. Luca, 15: «…ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta».

Ultimo pensiero, un po’ malizioso.
Dopo Pasqua si svelerà finalmente il progetto elaborato per il Padiglione del Vaticano alla Biennale. Si sa che il tema è l’inizio del Genesi, si sa che il sito è quello che nella Biennale 2011 ospitava il padiglione… dell’Argentina. Ma mi sorge una domanda: a questo papa gliene importerà qualcosa che il Vaticano sia alla Biennale? Non riesco a trovare punti di contatto tra il suo modo d’essere e il mondo che ha espresso il bisogno di “legittimarsi” portando grandi artisti sotto la propria sigla alla Biennale. Papa Francesco è disomogeneo ad ogni intellettualismo, non ha complessi. Secondo me sarebbe del tutto d’accordo con questo auspicio di Paolo VI: «… come sapete, il nostro ministero è quello di predicare e di rendere accessibile e comprensibile, anzi commovente, il mondo dello spirito, dell’invisibile, dell’ineffabile, di Dio. E in questa operazione, che travasa il mondo invisibile in formule accessibili, intelligibili, voi siete maestri…».
In formule accessibili: immagino i murales, immagino Diego Rivera… Oppure presumo che si ritroverebbe nel lavoro fatto da Gianriccardo Piccoli per la chiesa di Portovejo, una cittadina in Equador. Una Pentecoste “in formula accessibile” (ma contemporanea). Ma non penso proprio che queli come Piccoli abbiano chance di entrare nell’elite degli invitati alla Biennale…

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Marzo 29th, 2013 at 7:10 pm

Gabriele, due Michelangeli e Giovanni

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Venerdì è stata una giornata per Basilico. Il momento dell’addio è sempre rivelatore della statura e della ricchezza di chi ci ha lasciato. Nel caso di Basilico prima c’è stato un funerale a Sant’Ambrogio: una scelta nient’affatto scontata. «Per lui la chiesa più bella», mi aveva confidato la moglie Giovanna. Poi dalla predica (semplice e molto bella) ho scoperto che Gabriele regalava a Giovanna, ad ogni compleanno, non un fiore ma una foto di Sant’Ambrogio. Un gesto che dice tantissimo della persona, della sua delicatezza, di un amore che definirei religioso per la compagna di una vita. Don Jacopo, nella predica, indica la bellezza delle navate sotto le quali Gabriele ha convocato gli amici. E sottolinea che gli studenti quando vengono a studiarla armati di computer e collegati ai satelliti, scoprono come quelle arcate che sembrano così misurate e giuste in verità siano tutte storta. Metafora della vita, che non segue mai le linee rette che sogneremmo, ma che alla fine ha ricchezza proprio sa questi imprevisti.
Al pomeriggio, commemorazione alla Triennale. Tante voci davanti ad una platea fittissima. Voci sobrie. Pochi minuti per ciascuna. Ma quello che colpisce è la coralità che attorno a Basilico si esprime. Una coralità che viene allo scoperto, rivelando una cultura capace di intessersi di affettività (bello quel che dice a proposito Alberto Garutti), che lascia da parte lamenti, che confessa una nuova passione per la città: Milano. Qui si vede quel che ha generato Basilico con il suo lavoro e l’intreccio sempre aperto dei suoi rapporti: una vocazione a cercare il positivo, a lasciarsi alle spalle ogni fatalismo. Ricordo la dedica che ci lasciò nel 2009 sull’albo di Giorni Felici: «È stato un grande onore. Con la speranza di un futuro condiviso».


Scopro questo filmato di Michelangelo Antonioni, realizzato nel 2004, per celebrare il restauro del Mosé del genio suo omonimo. 15 minuti di silenzi solitari sotto le navate di San Pietro in Vincoli, rotti solo da musiche di Michael Nyman e dal Magnificat di Palestrina nel finale. È bella l’intensità dello sguardo del vecchio Antonioni, che indaga la statua come specchiandosi in un destino. È un’intensità attraversata come da un fremito muto. Poi si vede la cinepresa che indaga, proprio come fosse l’occhio del regista, le pieghe della statua. Poi nell’indagine entra in gioco anche la mano, che accarezza, s’incunea, sfiora, con la pelle avvizzita al perfezione misteriosa della pietra.


Bella la visita guidata da Antonio Mazzotta alla piccola mostra che raduna quattro Pietà di Bellini attorno a quella appena restaurata del Poldi Pezzoli. Manca quella di Brera, a sua volta in restauro, e questo purtroppo è spia dell’irrazionale mancanza di coordinamento che affligge la politica museale milanese: fare una mostra unica a restauri conclusi non era pensabile? Comunque la mostra raccoglie quattro capolavori, attestando quel bilanciamento che Bellini attua tra l’estremo patetismo del soggetto e la capacità di costruzioni formali impeccabili. Stupefacente ad esempio nel particolare qui sopra, l’intreccio tra gambe degli angeli e braccio di Cristo nella Pietà di Rimini, quindi dipinta sotto influsso Pierfancescano. Ma anche nella Pietà del Poldi Pezzoli, Mazzetta ha giustamente sottolineato come le braccia di Cristo si facciano quasi architrave del paesaggio retrostante. Una geometria ricercata che non raffredda la dolcezza ma la struttura, creando una fusione tra figura e natura.

Written by gfrangi

Febbraio 17th, 2013 at 4:54 pm

Gabriele Basilico e la Biennale “dormiente”

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Parlano da sole queste fotografie (cliccate sulle immagini per ingrandirle) della stupenda installazione Common Pavilions di Gabriele Basilico con lo studio di architetti di Roger Diener, alla Biennale Architettura in corso. Le foto di Basilico sono state scattate a Biennale dormiente, cioè in quei lunghi mesi di silenzio in cui i padiglioni restano soli, tra un evento e l’altro. Sono strutture silenziose, che finalmente possono svelare se stesse invece di essere inghiottite dalle installazioni che ospitano. Sono stranamente solitarie, quando invece siamo abituati a conoscerle sotto l’assedio del pubblico. A volte (vedi il padiglione tedesco con i tre archi sul fondo) neanche ci eravamo mai accorti di quali fosse il loro disegno architettonico. Le foto di Basilico sono poste sul grande mensolone, in un continuum che le fa essere un amalgama, un flusso continuo. Come creature dal dna diverso ma di una stessa grande famiglia architettonica (è bellissima questa soluzione che rompe con l’idolatria della fotografia e ne fa momento di una rappresentazione di un’idea). L’occhio di Basilico documenta con sorpresa ma con la consueta oggettività la vita segreta di questi padiglioni. Si crea un’intesa tra lui e le architetture che va aldilà del consueto (lui parla di «architetture solitarie abbandonate nell’attesa, con una corporeità fisica silenziosa»). Ma soprattutto colpisce quest’armonia delle diversità. Ogni padiglione è nato come espressione di una cultura e di un’identità, ma qui sviluppano solo dialogo. C’è da chiedersi perché. Penso banalmente che sia grazie alla loro natura di architetture profondamente neutrali, marcate dalla loro funzione: che prevede massima flessibilità e disponibilità a farsi usare. Quei grandi spazi fotografati per una volta vuoti, sono come un eccitante per la fantasia di artisti e curatori. Sono spazi straordinariamente seduttivi nel loro silenzio. Vuoti, ma già densi di sguardi che li desiderano. E qui Basilico gioca tutta la sua maestria: quante volte abbiamo visto sue grandi foto vuote di figure, ma tanto piene di “presenze”. Anzi, come lui dice, piene di corporeità.

Common Pavilions ha anche un sito molto interessante, in cui sono registrate le voci di artisti/architetti/storici dell’arte dei singoli paesi chiamati a dire la loro su questa convivcenza di diversità, ciascuno partendo dal proprio padiglione nazionale.

Written by gfrangi

Settembre 12th, 2012 at 7:14 am

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