Robe da chiodi

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Una grande, umile foto per ricordare Martini

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Milano, febbraio 1980. Ingresso di Martini a Milano. Foto Dino Fracchia (clicca sulla foto per ingrandire)


La foto (straordinaria) che vedete è quella che apre oggi le pagine milanesi del Corriere della Sera per ricordare Martini. Una scelta molto azzeccata, assai più della retorica foto di un Martini inghiottito dal mantello cardinalizio sparata in prima pagina dallo stesso quotidiano. Vi ripropongo questa immagine con tanto di firma del fotografo in filigrana come la potete ritrovare sul suo sito, per un atto di giustizia: sul Corriere non compare, e non si capisce perché qualsiasi sputacchio di un giornalista debba apparire firmato mentre sui fotografi grava ancora il marchio dell’”arte minore”. Dino Fracchia, l’autore di questo scatto, è un fotografo che fa il suo mestiere con grande semplicità, tenendo gli occhi aperti sulla realtà. E questo ci può bastare. Facendo il suo mestiere, cioè inseguendo la vita vera di Milano con il suo obiettivo ormai da 40 anni, accade che la vita gli offra dei punti di vista straordinari come questi. Ma bisogna essere lì, bisogna aver saputo aspettare, bisogna avere anche molta umiltà: la realtà è più creativa della nostra fantasia. Bisogna credere che anche un’immagine in cui non sta accadendo niente può comunicare qualcosa di profondo e di significativo.
Per raccontare quello che questa foto racconta ci vorrebbero intere pagine. In sintesi: siamo nella Milano del febbraio 1980 giorno dell’ingresso di Martini (cioè alla fine di quegli anni 70 a cui Palazzo Reale ha dedicato una bellissima mostra che chiude domani: se potete non perdetela). Una città grigia. Il vescovo, statuario, di spalle, ha davanti a sé un grande spazio vuoto; sotto il palco si dà da fare un manipolo di fotografi e operatori tutti intabarrati; capelli lunghi e barbe sono come l’identikit di quegli anni. Non c’è molta gioia nell’aria; la gente al di là della transenna guarda con occhi piccolini e un po’ persi quest’uomo nuovo arrivato a sedersi dove s’erano seduto Ambrogio, Carlo e Montini. Ma c’è tanta gente, come si deduce dal particolare di tutte quelle persone arrampicate sul monumento. Sembra una fotografia senza sonoro: quasi stessero lì, tutti zitti a guardare, senza parole. Di fronte domina la facciata dei palazzi, gremiti di neon pubblicitari, ultime schegge luminose della galoppante Milano del boom. Presto sarebbero state spente, per mettere ordine (sic!) nella piazza. In realtà sarebbero state spente perché la festa era finita…
Martini ha cominciato in questa Milano. Che ora guardiamo con un po’ di supponenza, ma che in realtà mi mette una grande tenerezza. Una città grigia, perché Milano ha il grigio nel suo Dna (Foppa, do you remember?). Una città grigia perché ferita da tante difficoltà e quotidiane fatiche. Ma una città vera, che sentiamo sulla nostra pelle e non sopra la nostre teste.
Perciò questa è una grande foto.

Written by gfrangi

Settembre 1st, 2012 at 11:03 am

Berger, come si guarda una foto di Kertész

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Esce questa settimana il nuovo volume della collana “Riga” (pp. 350, € 25) dedicato a John Berger, contiene saggi e testi inediti di Berger, oltre a conversazioni, dialoghi, commenti dello scrittore inglese ed è curato da Maria Nadotti. Di John Berger mi ha spesso affascinato la capacità di leggere le immagini, intersecando sguardi da storico, da critico, da antropologo e da uomo curioso. Ad esempio nel fascicolo di Riga viene pubblicata questa “esplorazione” di una foto di André Kertész. È una foto del 1919, scattata a Budapest. Le parole di Berger entrano nell’immagine senza mai sopraffarla, con giudizi di valofre. Che Kertész sia un grande lo sappiamo. Ma da Berger si impara ad avere la pazienza di entrare negli ingranaggi di quella grandezza (solo Luca Doninelli potrebbe leggere una foto in questo modo).

Kertész, Partenza di un ussaro rosso, giugno 1919, Budapest

di John Berger
Una madre con il suo bambino guarda fissamente un soldato. Forse stanno parlando. Non possiamo sentire le loro parole. Forse non si dicono nulla, e tutto è già stato detto dal modo in cui si guardano. Ma è certo che stanno vivendo un dramma.
La didascalia dice: “Partenza di un ussaro rosso, giugno 1919, Budapest”. La fotografia è di André Kertész.
Dunque, la donna è appena uscita da casa con lui e tra breve vi farà ritorno da sola con il bambino. Il dramma del momento è espresso dalla differenza degli abiti che indossano. Quelli di lui da viaggio, per dormire all’aperto, per combattere; quelli di lei per stare a casa.
La didascalia suggerisce anche altre riflessioni. La monarchia asburgica è caduta nell’autunno precedente. L’inverno è stato segnato da tremende privazioni (soprattutto di combustibile, a Budapest) e dalla disintegrazione economica. Due mesi prima, in marzo, era stata proclamata la socialista Repubblica dei Consigli. A Parigi, gli alleati occidentali, temendo che l’esempio rivoluzionario dei russi e ora degli ungheresi si diffondesse nell’Europa orientale e nei Balcani, stavano decidendo il modo di mettere fine alla nuova repubblica. Era già stato posto l’assedio. Lo stesso generale Foch stava programmando l’invasione militare che avrebbero dovuto effettuare truppe rumene e ceche. L’otto giugno Clemenceau telegrafava un ultimatum a Béla Kun chiedendo il ritiro militare ungherese che avrebbe permesso ai rumeni di occupare un terzo del suo paese. L’Armata Rossa ungherese combatté altre sei settimane, ma alla fine venne sopraffatta. In agosto, Budapest era occupata e pochissimo tempo dopo venne stabilito il primo regime fascista europeo sotto Horthy.
Se osserviamo un’immagine del passato e vogliamo metterla in relazione con noi, abbiamo bisogno di conoscere qualcosa della storia di quel passato. Quindi il discorso precedente – e molte altre cose che si sarebbero potute dire – diventa rilevante alla lettura della fotografia di Kertész. Ed è presumibilmente questa la ragione per cui il fotografo ha assegnato all’immagine quella didascalia e non una generica come “Separazione”. Eppure la fotografia – o piuttosto il modo in cui essa chiede di essere letta – non può essere limitata alla sua dimensione storica.
Tutto in essa è storico: le uniformi, le carabine, l’angolo della stazione di Budapest, l’identità e le biografie di tutte le persone che sono (o erano) riconoscibili; anche la dimensione degli alberi al di là dello steccato. Eppure c’è anche qualcosa che fa resistenza alla storia: c’è un’opposizione.
Questa opposizione non è la conseguenza del fatto che il fotografo abbia detto “Stop!”. L’immagine statica che ne risulta non è come un palo piantato in un fiume che scorre. Sappiamo che tra un momento il soldato volterà le spalle e partirà; presumiamo che sia il padre del bambino che la donna porta in braccio. Il senso dell’istante fotografato sta già affermando l’esistenza di minuti, settimane, anni.
L’opposizione esiste nello sguardo d’addio tra l’uomo e la donna. Lo sguardo non è diretto verso l’osservatore. Noi assistiamo alla scena come il soldato anziano con i baffi e la donna con lo scialle (forse una sorella). L’esclusività di quello sguardo è sottolineato ulteriormente dalla presenza del bambino tra le braccia della madre: il bimbo sta guardando il padre, eppure è escluso dallo sguardo che marito e moglie si scambiano.
Quello sguardo, che si incrocia davanti a noi, afferma quello che c’è; non afferma tanto ciò che si trova intorno a loro fuori della stazione, ma quello che è la loro vita, quello che sono le loro vite. La donna e il soldato si guardano e così l’immagine di ciò che è sopravviverà. In quello sguardo il loro essere si oppone alla loro storia, anche se pensiamo che quella storia sia da loro accettata o scelta.

Written by gfrangi

Gennaio 23rd, 2012 at 10:15 pm

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Pietro Toesca, la fotografia come capacità di sguardo

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8861300170A leggere e sfogliare il libro appena uscito Pietro Toesca e la fotografia (Skira, 40euro) si capisce quanto sia decisiva la capacità di sguardo. Toesca è stato uno dei maggiori storici dell’arte italiani. Con lui a Torino si laureò nel 1911 Roberto Longhi. È autore di un libro che Longhi stesso avea definito «il più gran libro apparso in Italia negli ultimi 50 anni». La pittura e la miniatura in Lombardia era uscito sempre in quel 1911 (io l’ho letto nell’edizione Einaudi, copertina grigia. Oggi non è più sul mercato). Toesca è uno dei primi storici ad accorgersi della funzione fondamentale della fotografia, sia a livello didattico (allestiva delle dispense di sole immagini per permettere agli studenti di seguire i suoi corsi: nel libro due serie di quelle immagini sono state affiancate dagli appunti del corso ritrovati negli archivi); sia a livello di ricezione dell’opera. La fotografia non è uno strumento oggettivo e Toesca ne era perfettamente consapevole. Forzando la mano di un fotografo d’eccezione come l’architetto Giuseppe Pagano riesce a farci sobbalzare davanti alla Pietà Palestrina che oggi nessuno assegna più a Michelangelo. È la forza dello zoom, dei tagli delle immagini, delle luci che rendono drammaticamente pulsante la pietra. Le incertezze dell’insieme così vengono sopraffatte dall’energia dei particolari.
Le campagne fotografiche dirette da Toesca sono guidate da una regia precisa e coerente che guidano dentro le immagini: così quelle di Assisi, dove il nome di Giotto sembra balzar fuori a caratteri cubitali nella chiarezza formale e spaziale dei tagli. Oppure quelle del battistero di Castiglione Olona dove Masolino è indagato anche laddove la salsedine sembra mangiarsi tutto; o quelle di Civate che anche editorialmente rappresentarono un capolavoro.
Il tutto è spiegabile solo con quella capacità di sguardo che è di pochi; e che soprattuo pochi sanno fissare e rimbalzare ai nostri sguardi. Da Toesca discende il Piero di Longhi (1926) che sceglie un linguaggio delle immagini sulla stessa falsariga. E, aggiungiamo noi, anche il Testori del Gran Teatro Montano (non per un caso uscito da Feltrinelli, editore popolare, perché la capacità di sguardo ha questo pregio: parla a tutti, non solo agli specialisti).

Domanda: l’immagine usata per la copertina venne scattata da Giraudon negli anni 30. Un’immagine che palna sul capolavorodi Michelangelo senza gonfiarlo di retorica. È un’immagine che aderisce alla pietra, che è un punto di vista ma non falsa l’oggetto, ma te lo fa conoscere, te lo fa “vedere”. Chi sa fotografare oggi così lo Schiavo morente?

Written by giuseppefrangi

Luglio 13th, 2009 at 9:37 pm

Rossi in treno con Basilico

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Un’ora con Gabriele Basilico. Il discorso cade su Aldo Rossi. Mi racconta che scrisse per lui due introduzioni, una per un libro sui porti e un’altra per un libro sui treni. Leggo da quest’ultima un passaggio che commuove per la precisione dell’osservazione: «Raramente Basilico ci mostra il treno che entra in città. È una giusta posizione discreta e attenta ad evitare la ricerca di ciò che sta dietro alla foto… Perché la fotografia può essere complice. Quando i treni entrano in città all’ora vespertina mostrano gli spaccati delle case e una vita interna fatta di tappezzerie scolorite e gente stanca alla luce di lampadine giallastre…. E i treni che entrano lenti a Milano mostrano ringhiere d’altri tempi e alle finestre donne stanche ma belle di una bellezza indovinata per l’avvicnarsi del letto».

Written by giuseppefrangi

Maggio 8th, 2009 at 8:13 pm

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Giacomelli a Lourdes

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giacomellilourdes02«L’ospizio era così da star male, faceva parte delle mie preoccupazioni del momento, mi angosciava, rappresentava quello che la vita può serbare. Un tempo infatti avevo creduto che crescere significasse imparare a vivere e a essere felici, maturando invece, mi sono reso conto che alla fine dei tuoi giorni puoi ritrovarti in un ospizio: tutto il contrario quindi. Se la vecchiaia è così triste e spaventosa, come sarebbe stato a Lourdes? Sono stato attratto da quel luogo, ma non ci sarei mai potuto andare se non avessi ricevuto un notevole contributo economico da uno dei più capaci direttori di riviste di fotografia di allora, il direttore di Camera. Andai e feci le foto dall’alto. Guardavo giù e vedevo un mare di dolore, eppure non avevo ancora compreso del tutto. Quando poi mi avvicinai di più, udii tutta la sofferenza, e all’improvviso vidi un ragazzo accanto ai genitori e a due infermieri che spingevano la carrozzella. Quel giovane era segnato per tutta la vita! Ho provato un senso di angoscia più forte di quando avevo fotografato l’ospizio, e ho perso il coraggio di continuare: non sono stato un bravo fotografo, ho restituito il denaro e non ho più completato il lavoro. Le poche foto scattate allora sono tutte da lontano».

«Tutto questo mi ha insegnato molto. Credo che un miracolo ci sia, e sia quello di vivere tutti i giorni, non avevo mai pensato prima a que­sto miracolo continuo del vivere».

(da Avvenire, mercoledì 19 febbraio, intervista inedita a Mario Giacomelli di Luisa Masaccesi. Realizzata nel 2000)

Written by giuseppefrangi

Febbraio 20th, 2009 at 5:46 pm

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Giacomelli, il fotografo assorbente

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giacomelli27editedLetto il bellissimo libretto di Mario Giacomelli, La mia vita intera (Bruno Mondadori, 2008). Sono dialoghi raccolti negli ultimi tempi di vita del grande fotografo da Simona Guerra, che ne ha curato l’archivio: un’autobiografia leggera, fragile nei riferimenti cronologici, senza nessuna pedanteria com’è nel personaggio. Giacomelli è soprattutto un uomo innamorato delle cose, della vita, delle persone: un puro, un mite che gioca questi rapporti per cercare la verità di sestesso. Segnalo alcuni passaggi straordinari. (Nella foto Giacomelli con la sua Kobell, obiettivi Zeiss Bessa: ha fotografato tutta la vita con questa macchina).

Pagina 39 (capitolo Prime opere): «Penso che ci siano cose che non si possono capire, ma si può essere come carta assorbente messa sopra una macchia. La macchia è sul tavolo, la carta è neutra e vergine; se ce la metti sopra, quando la alzi vedi che sulla carta c’è il segno della macchia, che però rimane sempre anche sul tavolo… quindi rimane sempre lì, come la macchia, ma io ho appreso qualcosa, come fossi una carta assorbente!».

Pagina 74 (capitolo Vita d’ospizio): «La vecchiaia se ci rifletti è la cosa più grande che esista – la gente non riflette su queste cose -, è così vera, forte, così volgare e dolce contemporaneamente, come il giorno e la notte, come il mare e la felicità. La vecchiaia è completa di tutto, perché ha questa forza cui tu non puoi sottrarti e quindi non c’è nessuno, per quanto grande, che possa dire: “Io sono il Papa e non muoio! Io rappresento Dio sulla Terra!”. Eh no,tu muori come muoiono tutti. Quindi la vecchiaia è la cosa più grande che esista sulla Terra».

Pagina 91 (capitolo Una donna, un uomo, un amore): «A me il realismo interessa da morire, mi piace questa corrente, però la mia realtà è sempre deformata. Il fotografo ha sempre bisogno della realtà, non ne può fare a meno, perché lui fotografa quello che sta di fronte, e quello che sta di fronte, in fondo, è reale (…). il mio realismo è molto poetico, nel senso che trascura, va a discapito di alcune cose (…). A me interssa provare emozioni, saper guatdare dentro di me. Mi interssa capire chi sono, cosa voglio in quel momento di fronte a quella cosa, perché sono lì e non là, o perché voglio questo e non altro».

Written by giuseppefrangi

Dicembre 26th, 2008 at 7:55 pm

Ramallah al Mint

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vincenzocastella13Che stupore nella sarabanda di una mostra d’antiquariato mixata al contemporaneo (il Mint di Milano) trovarsi davanti a questa foto di Vincenzo Castella, nello stand dello Studio La Città di Verona. Le dimensioni sono minime, 20×20: la foto è stata scattata a Ramallah nel 2007. Il punto di osservazione, come sempre per Castella, è dall’alto. Si vede quella molteplicità di cubi bianchi, disseminati silenziosamente sulla collina, con le mille parabole tese in ascolto. È un’ora di siesta, si direbbe. È tutto nitido, a dispetto del groviglio delle strade e a dispetto delle asprezze della storia. È un microcosmo nitido, con un che di presepiale per quel senso di attesa che pervade aria e muri. Quel che colpisce di Castella è la limpidezza dello sguardo che si deposita minuzioso su ogni angolo, su ogni finestra, senza trascurare niente. Uno sguardo che tocca tutto con una grazia silenziosa e leggera. Sono foto d’architettura le sue, ma con un che di fuggente. Questo è l’attimo; il prossimo non sarà più così esatto e commosso.

Castella, Napoli 1952, è un fotografo appartato. Su internet lo si può vedere all’opera nella campagna fotografica nei Territori, davanti al trespolo e alla sua macchina, con tanto di impermeabile a mantello sulle spalle, che guarda nell’obiettivo come ad attendere l’attimo, anche se davanti in apparenza sembra immobile. Ma l’immobilità è solo un’apparenza. Dice: «Il carattere più strabiliante dell’arte della fotografia è la sua specifica proprietà di captare la totalità delle figure e dei momenti, degli spazi e degli eventi. Sempre e comunque».

Altre foto di Castella sul sito della Galleria.

Written by giuseppefrangi

Novembre 24th, 2008 at 11:40 pm

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Miracolo a Milano

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Ammetto l’ignoranza, non lo conoscevo. Eppure Ugo Zovetti, classe 1916, fotografa Milano dagli anni 40. Questa immagine è datata 1960. Si vede il Qt8 nascente, con la chiesa-tenda di Magistretti. Qui una coppia con il figlioletto. Là un ragazzetto in Vespa. Una foto per così dire “domenicale”. Sullo sfondo le sagome delle case popolari. Sembra un fotogramma di Rocco, girato però  con cielo sereno e destinato a un lieto fine. C’è un che di epico che non so se Milano abbia perso o non solo sappia più raccontare.

Vedremo le foto di Zovetti al Centro culturale di Milano, via Zebedia, dal 22 ottobre.

Written by giuseppefrangi

Ottobre 11th, 2008 at 12:09 am

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