Robe da chiodi

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Il primo giorno degli Impressionisti

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Data la serenità e la felicità dell’esito è difficile immaginare la convulsione e anche la confusione dell’inizio, quel 15 aprile di 150 anni fa. Quel giorno inaugurava a Parigi la mostra di una “banda” di artisti, 28 per la precisione, uniti dal desiderio (e necessità) elementare di esporre al pubblico i propri lavori, visto che le porte dell’annuale grande Salon per loro erano sistematicamente tenute sbarrate da una giuria molto conservatrice. Si erano messi insieme costituendo un’associazione per ragioni pratiche, senza preoccuparsi di darsi un programma comune. Gran parte di quei pittori si sono eclissati nella storia, ma in otto hanno invece fatto la storia. Ecco i loro nomi: Edgar Degas, Paul Cézanne, Claude Monet, Camille Pissarro, Auguste Renoir, Alfred Sisley, Jean-Baptiste Guillaumin e Berthe Morisot. Ne mancava uno all’elenco, Edouard Manet, che aveva preferito esporre  ancora una volta al Salon des Refusés, l’esposizione parallela al Salon, proposto come spazio di riparazione “ufficiale” per gli artisti respinti dalla giuria.

La “banda” di quei transfughi aveva trovato uno spazio negli ex studi del grande fotografo Nadar, in Boulevard de Capucines. Il catalogo era stato affidato al fratello di Renoir, Edmond: niente immagini ma un semplice elenco delle 165 opere esposte. Oltre a lamentarsi per il ritardo da parte di tanti artisti, Edmond se l’era presa con Claude Monet per l’estrema monotonia dei titoli scelti per i suoi quadri. «E lei metta “Impressione”», aveva risposto l’artista. Nello specifico il riferimento era ad una veduta dipinta due anni prima all’alba al porto di Le Havre, “Impression. Soleil levant”. Un titolo destinato a segnare la storia, anche se in quella circostanza era diventato più che altro pretesto per ogni tipo di sarcasmo, da parte del pubblico e soprattutto della critica. Quella mostra che oggi è su tutti libri di storia ebbe numeri abbastanza modesti: 175 visitatori all’inaugurazione, 54 all’ultimo giorno. Il Salon intanto staccava tra gli otto e i diecimila biglietti al giorno… Uno smacco che aveva lasciato sul lastrico alcuni artisti del gruppo, Monet in particolare.

Tutto questo fa parte di una ben risaputa aneddotica sulla nascita dell’Impressionismo. Ma qual era il fattore che allora non venne capito e che invece ha determinato lo straordinario successo postumo di quella mostra e di quella “banda” di artisti? C’è una parola che meglio di ogni altra aiuta a dare una risposta: “istante”.  Era stato Edmond Duranty, romanziere e critico d’arte, a indicarla in un libro significativamente intitolato “La nouvelle peinture”, pubblicato a Parigi nel 1876. Duranty aveva scritto che ciò che univa questi artisti così diversi tra di loro, eccentrici e istintivi, era il desiderio di «catturare l’istante». È questo il “nuovo” che gli impressionisti immettevano a sorpresa sulla scena dell’arte, in modo allo stesso tempo ingenuo e dirompente. A cascata crollavano in serie tanti dogmi che tenevano bloccati gli artisti nelle tenaglie di un accademismo, sempre più retorico e bolso, che pretendeva di imporre la sua egemonia attraverso la grande kermesse annuale del Salon. 

Era stato come un improvviso giro di volta dalla notte al mattino, dal buio alla luce, dal chiuso all’aria libera. I pittori, attirati dal fascino e dal fremito della vita moderna, avevano abbandonato il recinto chiuso dell’atelier e scoperto per controcanto la meraviglia del “plein air”. Questo grazie ad una piccola ma preziosissima innovazione: l’arrivo sul mercato dei colori ad olio confezionati i tubetti, che permettevano loro di dipingere ovunque, senza essere condizionati dal tradizionale armamentario custodito in atelier. La natura, con la sua libertà, diventa maestra, prendendo il posto dei pedanti custodi di regole ormai fuori dalla storia. E dato che in natura tutto si muove e ogni attimo è diverso da quello che lo ha preceduto, ecco che l’occhio detta i tempi e la mano deve andar veloce per star dietro alla percezione visiva registrata sulla retina. La mano impara così a muoversi con una molteplicità di tocchi sulla tela, senza preoccuparsi dello stato di apparente indefinitezza e di frammentarietà dell’immagine. “Non è un occhio, ma che occhio!”, diceva infatti Cézanne di Monet, l’impressionista per antonomasia, che più di ogni altro negli anni a seguire si sarebbe inoltrato in questa perdita delle coordinate oggettive della visione. La natura facendosi “maestra” insegnava che la luce è tutto, che accende i colori, li fonde, riempie di fulgore ogni cosa, rende sempre nuova la realtà. Presi da questa febbre che era insieme di pittura e di vita, quell’estate stessa del 1874 un gruppetto di reduci della mostra-terremoto si era ritrovato ad Argenteuil, sulle rive della Senna poco a nord di Parigi, alcuni anche per sfuggire ai creditori parigini. Vedersi l’un l’altro dipingere all’aperto e in libertà era stata un’esperienza che aveva consolidato la loro autocoscienza, vincendo anche le ritrosie di Edouard Manet. È lui a firmare in quelle settimane un quadro che può essere considerato emblema del nuovo: si vede Claude Monet con una modella mentre dipinge su una barca trasformata in atelier galleggiante sulla Senna. Anche Manet, il più autorevole della compagnia, così osservante delle regole della vecchia pittura, ad Argenteuil si era convertito al richiamo irresistibile del “plein air”. «Saranno questi artisti i primitivi di un grande moto di rinnovamento artistico?» si chiedeva Duranty, scrivendo a ridosso di quei fatti. E si dava la risposta sottolineando meravigliato «l’audacia che balza da quei pennelli». “Balza”, perché solo così si poteva cogliere la meraviglia dell’istante e documentarlo sulla tela. 

Per quegli artisti dipingere significava restituire non un’impressione generica e soggettiva su ciò che avevano davanti agli occhi, ma restituire qualcosa che era molto simile, ogni volta, ad un primo sguardo dato al mondo, con lo stupore e anche la freschezza che ne derivava. Sono pittori nuovi perché «non sanno», aveva sottolineato Charles Péguy parlando delle Ninfee di Monet nelle pagine di “Veronique”. Uno come Monet dava il meglio di sé al primo sguardo, spiegava Péguy. E coincludeva: «È la prima che conta. È lo stupore che conta, principio indiscusso di scienza». 

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Aprile 21st, 2024 at 6:01 pm

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Il documentario su Emilio Vedova

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Per me dipingere è un misfatto

Visto il film documentario su Emilio Vedova “Dalla parte del naufragio” di Tomaso Pessina. Molto bello, capace di arrivare al cuore di questo grande anarchico dell pittura del 900.

Mi sono segnato alcune sue affermazioni che dicono come meglio non si potrebbe della sua pittura. Le metto in sequenza, senza ansia di dover articolare un discorso su di lui, perché ciascuna è già conclusa. Dipingere per lui è compiere ogni volta un “misfatto”. Il suo avvio (molto belli i disegni un po’ piranesiani delle architetture veneziani) viene descritto così: “la mia nascita è cresciuta nel sincopato”. Il suo amore per Tintoretto, un amore pericoloso: “Tintoretto mi sbatte in una deriva”. La sua uscita dal periodo più geometrico non è un cambiamento, ma “un’arrampicata dentro la geometria”. Davanti al territorio della tela bianca avviene “una scrittura senza tempo né spazio in simultanea”. Ogni quadro diventa un “territorio d’inchiesta per dire la lacerazione dell’uomo”. Di se stesso dice di essere “una personalità d’emergenza” sulla frontiera dei “sentimenti dell’attuale”. Infine il senso di un quadro è quello di “metterci le mani addosso”.

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Novembre 29th, 2020 at 11:12 pm

Le Corbu con gli occhi di Peter Doig. L’essenza drammatica della Cité radieuse

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Lo annuncia già il suo nome: Briey-en-Fôret. Briey è un piccolo centro al Nord Est della Francia, cittadina un tempo a forte vocazione mineraria, circondata da grandi boschi. Qui la municipalità nel 1957 venne tentata da un progetto utopistico, per dare casa a minatori e operai delle sue industrie siderurgiche: chiamò Le Corbusier proponendogli di costruire una nuova variante dell’Unité d’habitation inaugurata nel 1952 a Marsiglia. Sarebbe stata la terza, dopo quella già in cantiere a Nantes.

L’architetto fu subito conquistato dal contesto per via di quella grande foresta demaniale che avrebbe circondato il nuovo edificio. Edificio che era già tutto nella sua testa: «Dalle finestre si vedrà l’ondeggiare degli alberi; qualche passo più in là si scende in un piccolo valloncello delizioso attraversato da un corso d’acqua: faremo un lago, un giorno. L’Unité di Briey-en-Fôret sarà davvero come il nome suggerisce». 

La prima pietra venne posata il 4 marzo 1959. Nel 1961 il cantiere era concluso e 339 nuovi appartamenti attendevano i loro inquilini. Tra loro anche il futuro sindaco, Guy Vattier che ricorda così quegli inizi: «Erano appartamenti con un buon isolamento termico e fonico. Regnava una vita straordinaria, con un mix di abitanti molto diversi: ingegneri, insegnanti, operai e medici. A loro si aggiungevano gli americani della vicina base aerea della Nato, che stavano sempre con le porte aperte. Era veramente un agglomerato umano come quello sognato da Le Corbusier».  Nei 17 piani dell’edificio, che era lungo 110 metri, si erano accasate quasi 1500 persone. Ogni famiglia in un appartamento caratterizzato da un colore diverso, per spaccare l’uniformità cromatica del cemento armato grezzo, elemento principe nella chimica costruttiva delle Unité d’Habitation. Avrebbero dovuto esserci anche un asilo sul grande terrazzo e un supermercato: ma i due progetti finirono nel dimenticatoio, contro la volontà di Le Corbu.

Era il primo segnale di un vacillamento che avrebbe portato l’Unité sull’orlo di un declino irreversibile. I primi a lasciare gli appartamenti (ne occupavano ben 50) furono i soldati americani con le loro famiglie, dopo che nel 1966 la Francia aveva deciso di uscire dalla Nato. Nel frattempo anche la filiera siderurgica era entrata in crisi e Briey si trovò a fare i conti con una vera emorragia di popolazione. Progressivamente altri appartamenti vennero lasciati dai loro inquilini. La situazione precipitò al punto che nel 1983 tutto l’edificio, ritenuto pericoloso, fu chiuso e gli ingressi murati. Fu presa in considerazione addirittura l’idea di demolirlo, sinché nel 1987 la proprietà passò all’ospedale della cittadina, dietro il pagamento simbolico di un franco, con il progetto di portarvi la scuola di infermieristica. Era il segnale di una timida rinascita, a cui avrebbe lavorato con intelligenza e passione un’associazione locale, Premiére Rue, nata per iniziativa di un gruppo di architetti, con lo scopo di promuovere e valorizzare il grande edificio di Le Corbu. Il peggio era scongiurato, ma tanto era ancora il lavoro da fare. 

Peter Doig, Concrete Cabine, 1994

Erano stati proprio i responsabili di Premiére Rue ad invitare Peter Doig nel 1991, insieme ad un gruppo di artisti, per discutere come ristrutturare i primi tre piani dell’edificio. Doig, scozzese, nato nel 1959, oggi è uno degli artisti più quotati al mondo, prese subito a cuore il destino di quell’edificio sfortunato, rendendosi anche disponibile a lavorare, per ripulire parti di cemento dagli strati di pittura. In realtà, forse a dispetto dei promotori dell’iniziativa quello che aveva colpito Doig era una sensazione fortemente drammatica: la grande costruzione che emergeva in mezzo alla grande foresta di Briey gli appariva come un «edificio- teschio, bianco osseo, che parla con i suoi vuoti». Una sensazione che lui stesso avrebbe paragonato con quella ricevuta visitando la città-isola di Suakin, in Sudan, con le sue migliaia di piccole case crivellate dai continui bombardamenti.

Doig è nato ad Edimburgo ma è presto emigrato con la sua famiglia prima a Trinidad e poi in Canada, luoghi su latitudini così lontane e opposte che hanno allenato il suo sguardo ad orizzonti vasti e impregnati di mistero. A Briey l’orizzonte in realtà era chiuso dalla fitta cortina di tronchi: ma l’apparire al di là degli alberi della massa bianca della costruzione di Le Corbusier aveva provocato una sollecitazione visiva fortissima, dalla quale nell’arco di quattro anni, tra 1991 e 1995, avrebbe ricavato una serie di cinque grandi opere, certamente tra le più emblematiche del suo percorso: una di queste, “Boiler House” (il soggetto in questo caso è l’edificio caldaia staccato dal corpo dell’Unité), è andata all’asta questa settimana da Christie’s con un prezzo di partenza di 13 milioni di sterline. 

Peter Doig, Boiler House, 1992

Le Corbusier è sullo sfondo, eppure è la sua creazione che occupa lo spazio mentale di questa serie di quadri. Doig racconta di aver scoperto la forza fantasmatica di questo edificio, scattando delle immagini in bianco nero, a loro volta fotocopiate e poi montate in un piccolo album. L’idea progettuale sulla quale si erano riversati i rovesci della storia, emergeva da quelle immagini indefinite, ancora più potente, come nucleo di un’utopia ferita. «Sono rimasto sorpreso dal modo in cui l’edificio si è trasformato davanti ai miei occhi da pezzo di architettura in sentimento. All’improvviso è stata tutta emozione», ha raccontato Doig. Sospinta all’indietro, schermata dall’intricato groviglio di alberi che Le Corbusier sognava di poter vedere ondeggiare dalla finestra, l’architettura prende corpo, sviluppa appieno il pensiero da cui è stata generata, che è un pensiero aperto anche ai fallimenti. Le linee certe e bloccate di Le Corbusier (“Concret Cabin” è il titolo di tre quadri di questo ciclo) sono chiamate a misurarsi con le sfocature e l’instabilità visiva degli alberi. In questo modo Doig mette in scena l’architettura come dramma finendo con il renderle davvero onore: è una sorta di servizio che la pittura rende a quella che è sempre stata ritenuta la sorella maggiore nel campo delle arti. Ne era stato maestro Cézanne, le cui case provenzali, quante volte schermate dalla geometria degli alberi, si ergevano nelle retrovie della tela come corpi cubici, muti e senza tempo. Ma per venire a noi, è una logica che vediamo messa in atto anche nei paesaggi urbani di Sironi, dove la pittura impregna le architetture di una densità che popola la città; una logica che riconosciamo anche nella Roma di Scipione, con i suoi edifici ad altissime temperature, infiammati dagli stridori della storia. Quello di Doig è dunque come un nuovo capitolo di questa storia dove pittura e architettura giocano un duello che conosce solo vincitori.

 

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Ottobre 26th, 2020 at 8:39 am

La trappola di Bacon

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Francis Bacon, Three studies for figures at the base of a Crucifixion, 1941, particolare

Francis Bacon, Three studies for figures at the base of a Crucifixion, 1941, particolare



«Nel mio caso è davvero questione di riuscire a piazzare una trappola con la quale poter catturare il fatto nel suo momento più vitale».
Lo dice Francis Bacon, una frase che ho citato ieri per presentare il settimo incontro del ciclo sul 900.
È una frase in cui Bacon porta allo scoperto il dispositivo delle sue tele, e lo porta allo scoperto dimostrando una lucidità impressionante: tutto l’impianto del quadro è una “trappola”, che deve scattare per bloccare quei pezzi di pittura/vita che costituiscono sempre l’epicentro e la ragion d’essere essere della sua pittura. Il suo compito da artista è quello di allestire quel contesto neutro, quasi indifferente al fatto convulsivo che invece è atteso. Perché la trappola scatti infatti occorre che non ci siano elementi da destare sospetti nella “vittima”. Tutto deve essere controllato, ordinato e normale. Lui lo spiega anche così: «…si tenta di operare quella costruzione tramite la quale questa cosa sarà catturata cruda e viva e poi lasciata lì e infine fossilizzata».
La metafora è coerente: la trappola serve per catturare. E il momento della cattura è l’unico che non si può prevedere, che arriva quando vuole lui non quando il pittore decide. E il momento della cattura è anche un momento cieco, in cui la mano perde il controllo, in cui il dispositivo messo in campo procede quasi per un automatismo. Bacon dice insistentemente che a quel punto è il caso che governa il farsi del quadro, e c’è da credergli. Quando la trappola scatta nei suoi quadri succede qualcosa che oltrepassa il progetto, che trasforma la pittura in un’entità contigua alla vita; una contiguità che ha risvolti così radicali da apparire terrificanti. Sempre B. ha detto : «Non si vuole forse che una cosa si avvicini il più possibile al dato reale e al tempo stesso sia profondamente capace di suggestioni o di schiudere aree del sentire invece che limitarsi a una semplice illustrazione dell’oggetto che si intende rappresentare? Non è questo in fondo il senso dell’arte?»
(fuor di metafora: la croce, che per Bacon è “l’armatura” «alla quale appoggiare ogni espressione di sentimenti o di sensazioni», è la “trappola”. Un’“armatura” così collaudata dalla storia che, dice lui, non ce n’è un’altra altrettanto efficace. Sarebbe interessante guardare la pittura del passato con la stessa ottica. Ne verrebbero tante sorprese).

Da leggere, un articolo di Maria Teresa Maiocchi, psicanalista lacaniana, che ha affrontato Bacon nel percorso su Rovesciare il 900.

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Aprile 30th, 2013 at 2:34 pm

L’occhio di Richter sul Duomo

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Torna in asta questo straordinario quadro di Gherard Richter Domplatz, Mailand. È un quadro importante nel percorso di Richter: lo realizzò su commissione di Siemens Elettra quando la casa tedesca aveva aperto i suoi uffici milanesi nel 1968. Restò a Milano per 30 anni, poi venne messo all’asta nel 1998 e acquisito per poco più di 3 milioni di euro, dalla famiglia Pritzker che lo ha tenuto esposto in uno degli alberghi di loro proprietà, il Park Hyatt Hotel a Chicago e che ora hanno deciso di rimetterlo sul mercato, il 3 maggio da Sotheby’s a New York. Non fosse per il prezzo spaventoso che con ogni probabilità spunterà (la stima è tra i 30 e 40 milioni di dollari: per i Pritzker è stato un buon affare), sarebbe un quadro da avere in museo a Milano…

Gerhard Richter, Maiand, Dom, 1962

Gerhard Richter, Maiand, Dom, 1962

Il quadro è importante storicamente, perché è la tela di maggiori dimensioni (275 x 290 cm) tra le photo-painting di quella stagione da “German Pop Artist”. Quattro anni prima Richter aveva dipinto un’altra photo painting, questa volta con la facciata del Duomo, una tela di 130 per 130 cm.
È interessante questa attrazione da tedesco per l’unica cattedrale tedesca dell’architettura italiana: in particolare quello del 1962 esprime una visione fiammeggiante della facciata, come in fuga verso l’alto, contravvenendo a quella dimensione di “gotico per il largo” che caratterizza il Duomo milanese.
Ma ciò che unisce le due tele è quel tono da immagini post belliche: non c’è niente di quieto nell’eleganza della composizione. C’è l’avvisaglia di qualcosa di cupo, in quell’infilata di palazzi di Corso Vittorio Emanuele, o nella facciata della Cattedrale tagliata, quasi “mutilata” per due terzi. Sotto l’apparenza di self control che contrassegna la sua pittura, Richter lascia scorrere visioni e pensieri inquieti. Qui sta il suo fascino e forse la sua grandezza.

Pensavo a queste immagini mentre ieri parlavo del Duomo in un incontro pubblico. Pensavo che davvero quest’inquietudine e questa cupezza è una chiave per capirlo e non cadere nella retorica un po’ beghina della bella, grande, giusta cattedrale. Nel Duomo c’è qualcosa di oscuro, di ansioso, che è proprio del gotico, ma che va oltre il gotico stesso. Mi pare un gotico contro natura: a partire dal fatto che è un gotico fuori posto (che ci fa qui, a sud delle Alpi?); un gotico il cui slancio è sempre destinato a tornare a terra (dice in fondo questo la poesia di Rebora). Quando vi si entra, la sensazione è di entrare in una caverna, con i pilastri in funzione di stalattiti; nel Duomo più che entrare sembra di sprofondare. Ha scritto Doninelli in Cattedrali che il Duomo è come una “roccia chiusa”.

Written by gfrangi

Aprile 6th, 2013 at 11:19 am

Giotto appese Cristo a una croce di lapislazzuli

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È una vera esperienza visiva entrare nella chiesa di Ognissanti a Firenze, percorrere tutta la navata, tra i Ghirlandaio e il serratissimo Botticelli, arrivare al presbiterio e affacciarsi sul transetto sinistro: lì, improvvisamente, si palesa la gigantesca Croce di Giotto, appena restaurata, che ai tempi se ne stava con Madonna di Ognissanti (Uffizi) e la Dormitio Virginis (Berlino) a dividere la zona dei fedeli da quella dei monaci e degli ufficianti. È un vero colpo che prende il cuore: quasi cinque metri di altezza, bombardata di luce che rende opaco tutto ciò che sta attorno, più che una Crocifissione sembra una vera chiamata alla Gloria. Cristo ha un’aureola intarsiata di vetri  e soprattutto è attaccato a una croce che è tutta di color lapislazzulo. Una croce che rifulge di luce, che resta impressa nella retina di chi la guarda come quando si fissa il sole. Una croce che sembra fatta di cielo. È bellissimo guardare le facce delle decine di turisti ignari che arrivano per curiosità a vedere il Giotto ritrovato, e appena voltano dalla navata al transetto, restano ammutoliti e stupiti a testa in su a vedere quell’immagine inimmaginata. Il lapislazzulo è ferito solo dalle scie rosse di sangue che cola dalle due mani e dai piedi. Tutto concorre a comunicare, senza enfasi, quanto sia prezioso per il mondo (per me, per te) il sacrificio di Cristo. Una comunicazione diretta, persuasiva, senza bisogno di didascalie: il semplice guardare deposita questa certezza nel cuore di ciascuno.

Un altro particolare merita: è la trasparenza del perizoma, che leggero lascia intravvedere l’incarnato sofferente e persino le ombre del pube. Se notate, la Madonna inguantata nel suo dolore, manca del velo. Come aveva spiegato  Chiara Frugoni, è un gesto verosimile immaginato dall’inconografia medievale: la Madonna arrivata sul Calvario, vedendo il Figlio nudo, chiede questo atto di pudore. Gli presta il suo velo.

Questa è la quarta croce che si conosce di Giotto (la più bella a Santa Maria Novella, poi Rimini e più piccola a Padova); Giovanni Previtali dubitava fosse proprio sua, e l’aveva attribuita a un “parente di Giotto”. Oggi, anche per ragioni di marketing culturale, tutti i dubbi sono stati spazzati via. Ma certi particolari fanno pensare ragionevolmente che Giotto abbia fatto ricorso ad aiuti (paragonate le mani di Cristo con quelle di Santa Maria Novella; o la tenuta dei tendini delle braccia). Tutto ciò non toglie che alla radice dell’opera ci sia un’invenzione così folgorante da reggere anche all’innesto di maestranze nella fase esecutiva.

Qui potete vedere una galleria di foto realizzate in corso di restauro (realizzato dall’Opificio di pietre dure di Firenze)

Written by gfrangi

Novembre 21st, 2010 at 11:55 am

Appunti sul Lotto visto naso a naso

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Visita ai restauri (nella sede del Credito Bergamasco).

La pala di San Bernardino.

La luce arriva dall’alto da destra. Impressionante il buio in cui Lotto fa precipitare la balaustra sul lato sinistro del trono. La luce poi batte sulla fronte dell’angelo e ne lascia gran parte del volto in ombra, ma la sua ombra gettata sul basamento ha qualcosa di innaturale. Viene quasi da pensare che in realtà sia l’ombra di un personaggio che sta fuori dal quadro. L’ombra di Lotto? (a proposito di ombre: che dire del Dio padre che come un fantasma un po’ spaventoso si alza nello sfondo della Trinità? Ombre, ombre…)

Nel tendaggio verde che fa da fondale, Lotto apre un piccolissimo pertugio in basso che lascia intravvedere il paesaggio. Bellissima la firma con la doppia LL maiuscola, legata con grande eleganza. La Madonna con il suo manto carminio, ha le maniche come fossero delle guaine, aderentissime. È una fissazione di Lotto, che ha molto a che vedere con gli inguainati di Pontormo. Vestiti come doppia pelle, sintomi di paranoia manierista.

Comunque un quadro straordinario. Perfetto nelle sue geometrie e in via di impazzimento appena appena affondi nei dettagli (il profilo spiritato di Bernardino, gli incarnati declinanti – premesse di disfacimenti a venire – di Giovanni e Antonio).

Il Polittico di Ponteranica.

L’angelo lo vedi a 30 centimetri. Per lui luce che viene da destra ma vento da sinistra (quello che gli solleva i capelli). Un’aspirazione a smaterializzarsi. Curioso il cornino di luce che spunta davanti alla fronte (c’era anche nell’angelo della pala di san Bernardino). L’ago di luce passa da destra a sinistra anche la testa del Cristo redentore. Qui da notare le fontanelle di sangue che approdano tutte nel calice dalle cinque piaghe. Nel calice il sangue cadendo rimbalza in minuscole goccioline. Cenni fantasmagorici nei riflessi del calice: studiatissimi ma sfuggenti a una lettura.

Nella figura di Maria, due pentimenti: il leggìo a cui dà una sterzata radicale con quello scorcio vertiginoso, e il braccio destro leggermente abbassato, per seguire la posa di Maria che si china. Di Maria: labbra come con un tocco delicato di rossetto. E la solito sottomanto che diventa come una guaina. Poi l’aureola: Lotto le trasforma in dischi di vetro, con la circonferenza che riflesste la luce (in questo caso quella della colombra sopra l’angelo annunziante).

Written by gfrangi

Ottobre 18th, 2010 at 6:53 am

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Tutti a mangiar frutta con Caravaggio e Federico

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Che ci faceva La Canestra di frutta di Caravaggio nelle collezioni del Cardinale Federico? Perché proprio lui volle un quadro di quel grande pittore di cui disprezzava tutto, a partire dai suoi comportamenti? Non si può mancare domani all’Ambrosiana ad ascoltare Cristina Terzaghi, che nel 2004 studiò a fondo al vicenda dedicandole un saggio che ha segnato una svolta nella comprensione di questo capolavoro, «Per la Canestra e Federico Borromeo a Roma» (Studia Borromaica, 18 2004). «Per confortare la testa e per rinfrescarla quando è calda, mi son piaciuti i fiori; et i frutti anchora sopra le tavole, et ho goduto massimamente di havere le premitie di primavera e nell’estate ancora» scrive il cardinale nel manoscritto De nostris studis. Che sintetizza così questa sua “debolezza”: «Un piacere dolce e senza amaritudine tra le spine del mondo».

È il mistero dell’unica opera di Caravaggio destinata alla sua città che sia sopravvissuta. Insieme a Cristina Terzaghi ci sarà Giacomo Berra, autore di una ricostruzione meticolosa sugli anni giovanili di Caravaggio a Milano. Per iscriversi alla conferenza che si concluderà con la visita alla Canestra, basta andare sul sito dell’Associazione Testori.

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Ottobre 23rd, 2009 at 1:52 pm

Pensiero sul Caravaggio perduto

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Quarant’anni fa in una notte come questa, tra il 17 e il 18 ottobre, veniva rubato all’oratorio di San Lorenzo il Presepe di Caravaggio. Un quadro che per una coincidenza di date era stato dipinto proprio nell’ottobre di 400 anni fa, nel 1609, ultimi istanti della permanenza siciliana di Caravaggio. Un quadro di cui Longhi sottolineò saggiamente l’irriducibile ascendente lombardo: «… la scena affiora dal fosco quasi come una’antica Sacra conversazione lombarda». Longhi, nel testo del 1968, va poi anche oltre: «Tutte nuove sono le scoperte pittoriche nei semitoni ombrosi dei due animali da presepe, nel San Giuseppe in giubbotto verde elettrico e nella grande ritrosa della lustra canizia; nell’angelo di nuovo “bresciano”, ma che spiomba come un giglio scavezzato dal proprio peso; nel bambino miserando, abbandonato a terra come un guscio di tellina buttata». (aggiungo, c’è del Savoldo nella figura del pastore sulla destra della tela)

È un quadro anche profondamente siculo, per i tratti somatici della Madonna dalla pelle olivastra con il vestito che le scende dalla spalla, per quell’insolito san Francesco, per l’eleganza nobile del San Lorenzo. Ma certo la cosa più bella è quell’angelo che con le sue braccia tiene per mano la terra e il cielo. Lo rivedremo mai?caravaggio_nativit_copy1

Written by giuseppefrangi

Ottobre 17th, 2009 at 1:59 pm

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Strafalcioni michelangioleschi

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14035-martyrdom-of-st-peter-michelangelo-buonarrotiAvendo dovuto lavorare per un articolo giornalistico sul restauro della Paolina, mi sono trovato a toccare con mano la confusione di un libro di larga diffusione pubblicato da un editore accreditato. È la biografia di Michelangelo di Antonio Forcellino, uscita nel 2005 per Laterza. A parte l’estemporaneità molto arbitraria a livello di interpretazione delle opere e del personaggio (un Michelangelo spiritualista, cattolico dissidente, antipapalino: lui che era alla testa di tutti i più importanti e ricchi cantieri pontifici…), il libro ha errori, individuati persino da un occhio dilettante come il mio. Si dice che il restauro del 1930 contò 80 giorni lavorativi per i due affreschi della Paolina. Mi parevan pochi, nell’arco di sei anni. Sono andato a fare una verifica: sono 85 più 87. Si dice che Giotto nella predella del Polittico Stefaneschi, per “chiudere” lo spazio lasciato aperto in alto dalla Crocifissione di San Pietro (un problema compositivo per tutti gli artisti) escogitò la soluzione geniale di mettere due cavalieri che avanzano a coprire il vuoto. Nient’affatto: i cavalieri ci sono ma stanno in basso a riempire lo spazio già pieno dalle braccia aperte di Pietro. Sopra ci sono gli angeli e le sagome delle due piramidi: la piramide di Caio Cestio, già presunta tomba di Remo, e la meta Romuli, la piramide in Borgo distrutta nel 1496 e presunta tomba di Romolo. Pietro infatti, secondo una tradizione, era stato crocifisso sul Gianicolo e poi sepolto in Vaticano (l’ho scoperto leggendo un preciso articolo di Arnold  Nesselrath sull’Osservatore Romano). Giovanni Andrea Gilio, che criticò la Conversione di san Paolo per la sua idea più bella (Cristo «che par che si precipiti dal cielo con atto poco honorato»), viene presentato come monsignore, e non come il teorico censore che proprio nell’anno dlela morte di Michelangelo, il 1564, pubblicò il suo malevolo Dialogo degli errori de’ pittori per scatenare la polemica contro i nudi della Sistina. (Guardate che bello il particolare della Crocifissione di San Pietro).

Written by giuseppefrangi

Settembre 9th, 2009 at 6:48 pm