Robe da chiodi

La storia dell’arte e il tacco di Dolce e Gabbana

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Tra i quesiti proposti nel recente sondaggio del Fai per le Primarie della cultura, c’era anche l’idea di investire nell’insegnamento della storia dell’arte nelle scuole. Inutile dire che la cosa mi trova d’accordo, per motivi non solo sciovinistici, anche se la proposta non ha trovato consensi massicci come altre, certamente più scontate. La Storia dell’arte è una sorta di dio minore nei programmi scolastici: scelta vagamente suicida di una scuola plasmata da Croce e Gentile e quindi orientata sull’asse filosofia-letteratura. Ma come diceva Longhi, la lingua italiana conosciuta in tutto il mondo non è quella letteraria bensì quella figurativa. Non conoscerla e non farla conoscere è quindi un atto autolesionistico. Ne va della consapevolezza di chi siamo e ne va anche quanto ad opportunità di lavoro, di investimento rispetto ad un patrimonio e quindi ultimamente anche di lavoro.

Ma c’è dell’altro, e qui vengo alla parte eterodossa del mio ragionamento. La Storia dell’arte ha come componenti costitutive, conoscenza della storia, conoscenza delle forme, conoscenza della storia materiale (l’arte, per quanto sublime, ultimamente è sempre un manufatto): cioè è la disciplina sintetica per eccellenza di quell’uomo artigiano che secondo Richard Sennett sarà il vero motore del terzo millennio.
A questo proposito segnalo una bella intervista che Gian Antonio Stella ha realizzato per Sette a Domenico Dolce e Stefano Gabbana. Dice Dolce, per spiegare cos’è davvero la macchina della moda: «Manca qualcuno che si interessi. Che studi. Che capisca cos’è il nostro settore. La considerano una cosa effimera e invece è il contrario. È un patrimonio enorme, tutto italiano, tutto nostro. Che si appoggia sugli artigiani, sulla manualità. Parli di moda e ti guardano come se parlassi di una cosa evanescente… Non capiscono che per esempio il tacco di una scarpa da donna è un capolavoro di ingegneria: chi porta quella scarpa deve stare in equilibrio perfetto. Non ha idea di quanto studio ci siano dietro particolari come questi ai quali non viene dato peso».
Ecco io penso che lo studio della Storia dell’arte non sia ben di più che un laboratorio di futuri specialisti dei beni culturali (che sarebbe già una cosa salutare, vista la quantità di beni che abbiamo la fortuna di avere), ma sia un modo per alimentare a 360 gradi questa vocazione alla bellezza (sfogliate l’ultimo catalogo primavera estate Dolce e Gabbana e capirete che non è un discorso retorico).

Ps: mi ha colpito che anche Anna Coliva, festeggiando la riapertura della Hertziana di Roma ha sottolineato questa trasversalità (seppur con amarezza): «..la perizia del genio italiano si riscontra nell’abilità raggiunta nella tecnica del trasporto delle opere d’arte, forse l’unico campo in cui manteniamo primato mondiale indiscusso».

Written by gfrangi

Febbraio 2nd, 2013 at 7:14 pm

8 Responses to 'La storia dell’arte e il tacco di Dolce e Gabbana'

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  1. Come dice Pasolini: difendiamo i grandi stili della pittura italiana e ci scordiamo della piccola strada col muro di mattoni… Il piccolo dev’essere ricollegato al grande. Mannaggia a Croce. I danni che ha fatto lui al nostro paese… Per fortuna la moda sembra reggere meglio dell’architettura. E per fortuna ci sono ancora parecchi ruderi in giro

    Beatrice

    3 Feb 13 at 7:37 pm

  2. Bellissime parole quelle di Dolce e Gabbana, peccato che chi ha seguito Report sappia che quel patrimonio “che si appoggia sugli artigiani, sulla manualità” lo hanno affossato in gran parte loro, approfittando delle nostre leggi lassiste per appiccicare un’etichetta “made in Italy” su ciò che non lo è e forse evitando anche di pagare le tasse (al momento sono sotto processo per maxi evasione fiscale). Come al solito a noi italiani le idee non mancano, è la messa in pratica che lascia un po’ a desiderare.

    Giacomo

    3 Feb 13 at 7:59 pm

  3. Sono d’accordo. Penso inoltre che oggi uno dei più grossi ostacoli allo sviluppo sia il ritorno prepotente del ragionamento a compartimenti stagni. Per noi italiani la separazione tra cultura alta e cultura bassa, tra lavoro intellettuale e materiale è cosa vecchia. Hanno creato qualcosa di nuovo solo coloro che hanno saputo rompere gli schemi e aprire così nuove strade.

    Nicoletta

    4 Feb 13 at 9:00 am

  4. personalmente (parlo di consumo personale) io sono per la cultura alta. (O almeno a buon livello). Bach che componeva a gloria di Dio e ad insegnamento per gli uomini, ed era un umile artigiano delle note, mi ha sempre aiutato. Di Leonardo assunto dagli Sforza per progettare la coreografia delle feste e i costumi delle dame ci è rimasta meglio l’opera idraulica e qualche traccia di un’ultima cena. Personalmente da Dolce e Gabbana non mi arriva niente. Con ciò non saprei dove è oggi la cultura alta. Non lo dico ironicamente: certo c’è, non so dove.

    paola

    5 Feb 13 at 10:49 pm

  5. L’importante è porsi la domanda 🙂 come facevano Ruskin o Gaudi. Il bello di queste domande è che ne trascinano di altre enormi: qual è il senso del lavoro umano, del lavoro manuale, cos’è la cultura (“alta”, “bassa”), dov’è il progresso… E’ come se dopo il fallimento del Bauhaus ci fossimo scottati e avessimo rinunciato alle grandi domande. E quindi poi è colpa nostra (di noi intellettuali dico) se le uniche risposte sono Ikea, o Apple.

    Il problema è nello specialismo, paola: la cultura ai tempi di Leonardo, come la tecnica, era più semplice e unitaria. Pensa che è come chiedere agli studiosi di fisica quantistica di farti un abito o una forchetta in base alle stesse idee… Lo vedi quanti problemi sull’arte e sulla tecnica che si tirano fuori? E’ bello

    Beatrice

    6 Feb 13 at 10:33 am

  6. Mi sembra che lo studio della Moda non come evanescente espressione del mercato (come è quasi sempre quella prodotta dal 1997 in poi) ma come espressione di un più culturale e consapevole progetto, anche artistico, sia stata portata avanti dall’Università di Parma da Quintavalle e Bianchino. La moda è anche storia. Dolce e Gabbana, e basta guardare le loro collezioni passate, non esisterebbero se non avessero puntato alla copia di Versace vero creatore di cultura, ogni suo abito è il racconto di un pezzo di storia e di mostre viste. Oggi punterei sulla visione che della moda propone Antonio Marras che è poi l’unico a distinguersi oggi dal mercato.Sulla questione cultura Alta e cultura Bassa pensavo che la questione fosse chiara da tempo.

    Francesco

    6 Feb 13 at 10:36 am

  7. Ho letto anche io la bella intervista di Stella su Sette e trovo che sia una bella cosa, l’articolo e la storia di questi due “ragazzi” che hanno fatto della creatività la loro vita (e solo dopo il business); e trovo preziosa la proposta del Fai per la Storia dell’Arte di cui se ne sta perdendo traccia, purtroppo a scapito di una devastazione culturale senza precedenti.
    Sul concetto di artigianato, manualità e creatività, credo sia ormai l’unica fonte del futuro prossimo. Senza il ritorno all’artigianalità non ci sarà più alcun sviluppo.

    luigi

    8 Feb 13 at 9:41 am

  8. ero stata un po’ provocatoria ma sincera. Proprio perché la questione cultura alta o bassa è stata chiarita (o chiusa) da tempo volevo riaprirla (negli anni 60 della mia università Aldo Rossi era forse l’unico a non esserne sicuro).
    Non per riaprire una ‘questione’ ma perché come dice Beatrice mi sono fatta una domanda. Domanda semplice: “A me cosa serve, cosa mi nutre, cosa mi fa vivere?”
    Ci provo: per me cultura alta è quella fatta (artigianalmente con mani e cervello e cuore) a gloria di Dio e insegnamento degli uomini. Anche le scarpe (se la tensione è questa) anche guidare il tram.
    E sempre rischiando: la parola ‘creatività’ mi insospettisce. Mi vengono in mente gli scrittori latino americani di moda negli anno ’70.

    paola

    8 Feb 13 at 9:30 pm

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