Robe da chiodi

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Tre pensieri sul meraviglioso Papa Francesco

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papacroce

Il primo pensiero mi viene da questa foto (cliccate sopra l’immagine per ingrandirla). Di una bellezza da restare senza fiato: complimenti all’autore, Dan Kitwood. Bella l’immagine ma straordinaria la forza del gesto di Papa Francesco, in una San Pietro che sembra oscurata dal buio del Venerdì Santo, con la pianeta rosso sangue e le scarpe da parroco del mondo. Si percepisce l’intensità di affezione per il Cristo in croce, il senso di immensa gratitudine per una salvezza avvenuta attraverso quel sangue versato. C’è la dimensione di un perdono arrivato davvero e arrivato per grazia.
Una postilla a questa immagine: chiaro, io non posso non pensare al papa colpito da una meteorite di Maurizio Cattelan (lo ricordo nel cuore della Sala delle Caritidi, vuota, appoggiato su un tappeto rosso che copriva l’inetro pavimento). Anche quel Papa aveva una croce tra le braccia, e non credo affatto che l’intenzione di Cattelan fosse né beffarda, né blasfema. Identificava un papa da battaglia, come Wojtyla fu, un papa condottiero. Papa Francesco è diverso. È un papa innamorato, che sente la tenerezza di Dio. E se ne lascia abbracciare. In un certo senso questa foto archivia Cattelan.

Il secondo pensiero mi viene da una frase incredibile che il papa ha rivolto ai sacerdoti di tutta la chiesa. La riporto: «…Da qui deriva precisamente l’insoddisfazione di alcuni, che finiscono per essere tristi, preti tristi, e trasformati in una sorta di collezionisti di antichità oppure di novità, invece di essere pastori con “l’odore delle pecore” – questo io vi chiedo: siate pastori con “l’odore delle pecore”, che si senta quello -; invece di essere pastori in mezzo al proprio gregge e pescatori di uomini». (qui il discorso integrale) L’odore delle pecore! C’è tutto in questa indicazione, c’è l’amore all’altro che è fatto di contiguità, di prossimità non teorica ma fisica, corporale; c’è condivisione reale di destino. È l’antica immagine del buon pastore che ha la pecora sulle spalle, che se ne fa carico non per eroismo ma per amore. Nessuno ci aveva mai pensato, ma a quel pastore resterà sempre addosso “l’odore delle pecore”. Ed è la cosa che lo rende contento. Luca, 15: «…ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta».

Ultimo pensiero, un po’ malizioso.
Dopo Pasqua si svelerà finalmente il progetto elaborato per il Padiglione del Vaticano alla Biennale. Si sa che il tema è l’inizio del Genesi, si sa che il sito è quello che nella Biennale 2011 ospitava il padiglione… dell’Argentina. Ma mi sorge una domanda: a questo papa gliene importerà qualcosa che il Vaticano sia alla Biennale? Non riesco a trovare punti di contatto tra il suo modo d’essere e il mondo che ha espresso il bisogno di “legittimarsi” portando grandi artisti sotto la propria sigla alla Biennale. Papa Francesco è disomogeneo ad ogni intellettualismo, non ha complessi. Secondo me sarebbe del tutto d’accordo con questo auspicio di Paolo VI: «… come sapete, il nostro ministero è quello di predicare e di rendere accessibile e comprensibile, anzi commovente, il mondo dello spirito, dell’invisibile, dell’ineffabile, di Dio. E in questa operazione, che travasa il mondo invisibile in formule accessibili, intelligibili, voi siete maestri…».
In formule accessibili: immagino i murales, immagino Diego Rivera… Oppure presumo che si ritroverebbe nel lavoro fatto da Gianriccardo Piccoli per la chiesa di Portovejo, una cittadina in Equador. Una Pentecoste “in formula accessibile” (ma contemporanea). Ma non penso proprio che queli come Piccoli abbiano chance di entrare nell’elite degli invitati alla Biennale…

Written by gfrangi

Marzo 29th, 2013 at 7:10 pm

Un pre-sguardo alla Biennale di Gioni

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Non si può dire che Massimiliano Gioni abbia sguardi prevedibili. I nomi annunciati per la prossima Biennale, chiamati a costruire il suo “palazzo enciclopedico” sono in buona parte nomi borderline rispetto al sistema artistico. Nomi di cui francamente conoscevo poco e a volte nulla. Per questo sono andato a curiosare. È una piccola selezione della truppa dei 150 artisti chiamati a tentare il sogno di un museo immaginario, sogno brevettato nel 1955 da Mario Auriti, prototipo dell’artista outsider. Si avverte il filo conduttore di un’arte pensata come pratica esoterica, esercitata in cerchi ristretti, mai preoccupata di imporsi come egemone.

Hilma af Klimt

Hilma af Klimt

Augustine Lesage

Augustine Lesage

Aleister Crowley

Aleister Crowley

Anna Zemánková

Anna Zemánková

Emma Kunz

Guo Fengyi

Emma Kunz

Emma Kunz

Fredrich Schröder-Sonnenst

Fredrich Schröder-Sonnenst

Geta Brătescu

Geta Brătescu

Jean-Frédéric Schnyder

Jean-Frédéric Schnyder

Thierry De Cordier

Thierry De Cordier

Varda Caivano

Varda Caivano

Written by gfrangi

Marzo 19th, 2013 at 11:02 pm

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Chi ha paura del corpo e chi no. Il Vaticano, Courbet e un po’ di teatro

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Due pagine del Corsera parlando delle possibili scelte del Vaticano per la prossima Biennale. Niente di particolarmente nuovo, se non la conferma di questo punto di mediazione tra istituzione ecclesiale e arte: escludere la “fisicità” per trovare un terreno d’incontro. Quindi fuori tutti i provocatori e largo agli “aniconici”. A naso nulla di nuovo e quindi anche poco di interessante. Speriamo in uno scarto dell’ultim’ora… «La volgarità delle forme non è un problema, è l’inutilità del pensiero ad essere abominevole», diceva Eugéne Delacroix per difendere i primi libertari dalle accuse feroci da parte dell’accademia. Non è la vecchia insulsa divisione tra figurativi e astratti, ma tra un’arte tutto sommato accomodante e un’arte che rischi e crei sommovimento, con qualsiasi linguaggio lo ricerchi. Siccome la Biennale è un terreno che ha senso per essere terreno di sfide, io avrei provato a mettere a tema una narrazione contemporanea del fatto cristiano. Magari affidandola a uomini dei mondi nuovi e uscendo da questo occidentalismo che sta mostrando tanta cerebralità e una pericolosa vocazione all’anoressia espressiva. Per non ritrovarci ancora una volta in afasica compagnia con i pur eccellenti Spalletti, Parmeggiani o chi per loro…


È stata la settimana del presunto scoop di Paris Match sul ritrovamento della parte mancante del celebre quadro di Courbet L’origine du monde. Sarebbe la testa della modella che Courbet usava in quegli anni, l’irlandese Joanna Hiffernan, fidanzata di un altro artista, James Whistler. L’ipotesi ha incontrato molto scetticismo e comunque non aggiunge molto a quel quadro che evidentemente Courbet ha immaginato come un omaggio all’organo genitale femminile, “sparato” senza timidezza in primo piano. Non si sa se questa tela sia frutto di un progetto di Courbet o richiesta del diplomatico turco che ne fu il primo possessore. Ma anche in questo caso le cose cambiano poco. Il fattore decisivo e dirompente del quadro è a monte: è nella capacità di Courbet di trasformare un soggetto pornografico in qualcosa di assolutamente naturale. La scelta del titolo gioca un ruolo in questo senso: l’organo genitale femminile prima che terminale di un desiderio e di un’attrazione viene visto come finestra spalancata sulla vita. Come potente scaturigine del futuro. È un “luogo sorgivo”, e mi viene in mente la vocazione di Courbet a cercare luoghi sorgivi come soggetti della sua pittura: quante vole ha dipinto ad esempio les Sources de la Loue, il fiume che attraversa Ornans, suo paese natale? Per questo non c’è nulla di vizioso né tanto meno di pruriginoso in questo quadro, che io vedo come un grande atto d’amore, grande anche per la sua spregiudicatezza e libertà. Per questo non si può non amare un pittore come Courbet, grande alleato della realtà. Certamente non a rischio di anoressia umana…

Più che di mostre è stata una settimana di teatro. Ho incrociato in tv il Macbeth verdiano con la regia di Bob Wilson al Comunale di Bologna: una messa in scena da restare a bocca aperta, per la pulizia con cui riesce a governare quel dramma truce e a renderlo contemporaneo (guardate qui una sequenza delle scene) Dal vivo ho invece visto Il panico, regia di Ronconi dal testo di un autore argentino, Rafael Spregelburd («Si tratta di costruire un’opera sulla Trascendenza usando solo mattoncini della Banalità», ha spiegato). Visto dalla Galleria del Piccolo, quindi molto in verticale sul palcoscenico, è stata un’esperienza visiva indimenticabile. L’immenso palcoscenico lasciato sostanzialmente vuoto chiuso da due enormi velari bianchi messi ad angolo e scandito da geometrie oblique ma perfette. Una somma di asimmetrie insistite, inquiete per accompagnare il tema (il panico) ma sempre perfettamente controllate. Credo che un artista avrebbe molto da assimilare da due messe in scena così.

Written by gfrangi

Febbraio 10th, 2013 at 12:43 pm

Gabriele Basilico e la Biennale “dormiente”

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Parlano da sole queste fotografie (cliccate sulle immagini per ingrandirle) della stupenda installazione Common Pavilions di Gabriele Basilico con lo studio di architetti di Roger Diener, alla Biennale Architettura in corso. Le foto di Basilico sono state scattate a Biennale dormiente, cioè in quei lunghi mesi di silenzio in cui i padiglioni restano soli, tra un evento e l’altro. Sono strutture silenziose, che finalmente possono svelare se stesse invece di essere inghiottite dalle installazioni che ospitano. Sono stranamente solitarie, quando invece siamo abituati a conoscerle sotto l’assedio del pubblico. A volte (vedi il padiglione tedesco con i tre archi sul fondo) neanche ci eravamo mai accorti di quali fosse il loro disegno architettonico. Le foto di Basilico sono poste sul grande mensolone, in un continuum che le fa essere un amalgama, un flusso continuo. Come creature dal dna diverso ma di una stessa grande famiglia architettonica (è bellissima questa soluzione che rompe con l’idolatria della fotografia e ne fa momento di una rappresentazione di un’idea). L’occhio di Basilico documenta con sorpresa ma con la consueta oggettività la vita segreta di questi padiglioni. Si crea un’intesa tra lui e le architetture che va aldilà del consueto (lui parla di «architetture solitarie abbandonate nell’attesa, con una corporeità fisica silenziosa»). Ma soprattutto colpisce quest’armonia delle diversità. Ogni padiglione è nato come espressione di una cultura e di un’identità, ma qui sviluppano solo dialogo. C’è da chiedersi perché. Penso banalmente che sia grazie alla loro natura di architetture profondamente neutrali, marcate dalla loro funzione: che prevede massima flessibilità e disponibilità a farsi usare. Quei grandi spazi fotografati per una volta vuoti, sono come un eccitante per la fantasia di artisti e curatori. Sono spazi straordinariamente seduttivi nel loro silenzio. Vuoti, ma già densi di sguardi che li desiderano. E qui Basilico gioca tutta la sua maestria: quante volte abbiamo visto sue grandi foto vuote di figure, ma tanto piene di “presenze”. Anzi, come lui dice, piene di corporeità.

Common Pavilions ha anche un sito molto interessante, in cui sono registrate le voci di artisti/architetti/storici dell’arte dei singoli paesi chiamati a dire la loro su questa convivcenza di diversità, ciascuno partendo dal proprio padiglione nazionale.

Written by gfrangi

Settembre 12th, 2012 at 7:14 am

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Biennale, io mi sono segnati questi

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Io in questa Biennale tutta linda e svizzera, precisa come un orologio (ovviamente svizzero, lo sponsor comanda…), mi sono segnato questi artisti (tralascio, il più grande Sigmar Polke. E il più “a casa sua”, Catellan con i suoi piccioni impagliati, presenze bizzarre e inquiete).

Song Dong, pechinese classe 1966 cui Bice Crugiger ha affidato uno dei parapadigilioni. Mette in piazza la casa dei suoi nonni, in una serie di ambienti creati con ante di armadi, fitte di specchi. Al centro una grande casa piccionaia. Ti senti dentro anche se stai fuori. Aperta anche quando è chiusa. Interessante, pieno di sentimento e di stupore di fronte a una quotidianità frammentata. Sperduto a casa sua (immagine qui sopra).

Urs Fisher. Non è una scoperta. È uno che ci sa fare. Ma il suo Giambologna che si sigoglie man mano che passano i giorni, per il fioco ardere di uno stoppino è immagine che diventa più bella via via che si disfa. Non c’è più la scultura dell’amico Rudolf Stingel, che essendo meno monumentale, s’è già sciolta. Resta lo scheletro delle sedie. Con gli effetti speciali ci sa fare.

Nick Relph. Inglese, classe 1979. Presenta un video che più pittorico non si può. L’immagine si compone di tre velature, di colori accesi, con effetti a volte delicati a volte psichedelici. Comunque si fa guardare, a differenza di troppi video.

Dayanita Singh. Indiana, 1961. Espone foto, rigorose nella scelta dei soggetti. Praticamente una suite. Tutte immagini di faldoni disposti in vari archivi: spaccato dell’ordinato caos che regola la vita del suo paese.

Monika Sosnowska. Polacca, 1972. Suo il parapadiglione ai Giardini, nello spazio dove nel 2009 c’era la stupenda sala di Tillmans. Spazio spaccato in tanti spigoli, inutilmente addolciti da una carta da parati old style. Dentro le foto forti di un autore sudafricano (mi sono perso il nome…). Lei si era già vista al padiglione polacco di qaulceh edixione fa. Una che con gli spazi decisamente ci sa fare.

Christopher Wool. Alla fine uno che (quasi) dipinge ancora. Americano, 1955, con le grandi e drammatiche macchie serigrafate, sembra dialogare con Tintoretto. Dal nero profondo al rosso sangue (immagine qui sotto).

Written by gfrangi

Luglio 27th, 2011 at 7:49 am

Se Tintoretto fa breccia alla Biennale

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«Così Tintoretto illumina il nulla contemporaneo». È questo il titolo di Repubblica per la corrispondenza pubblicata oggi di Leonetta Bentivoglio dalla Biennale di Venezia. Che succede? Per chi ancora non lo sapesse, la curatrice della Biennale 2011, Bice Curiger, avendo scelto come tema la luce (ILLUMInazioni è il titolo), ha pensato giustamente di proporre un link con uno dei grandi maestri della pittura veneziana come Tintoretto. La luce è un elemento chiave dell’arte veneziana e di Tintoretto in particolare e quindi l’intuizione della Curiger sembra davvero azzeccata. Ai Giardini sono arrivate tre grandi tele, Il trafugamento del corpo di San Marco e la Creazione degli animali dall’Accademia e l’Ultima Cena arrivata da San Giorgio Maggiore (nell’immagine sopra, un particolare). Sono quadri che tolti dal loro contesto esplodono in tutta la loro potenza incendiaria. Jonathan Jones, il titolare del popolarissimo blog d’arte sul Guardian, parla di “una qualità sovversiva” e dei “drammatici effetti spaziali” della sua pittura. E poi evidenzia il paradosso di come un pittore “pio e pienamente omogeneo al controriformismo” oggi sia in grado di comunicare tanta energia e di suggestionare con quei suoi lampi di luce la mente di visitatori e artisti ormai impermeabili aogni provcazione.
Tintoretto alla Biennale quindi rimescola un po’ le carte. Dimostra che passato e presente possono assolutamente dialogare. Che la contaminazione può produrre effetti inaspettati. Certo, c’è da mettere in conto un po’ di spiazzamento. Perché come grida quel titolo di Repubblica può essere che le tele di Tintoretto con la loro febbre annientino ciò che sta attorno. Ma questo è un rischio che è salutare correre. Se Tintoretto è uscito dal guscio, è bene che anche l’arte contemporanea accetti di fare altrettanto e accetti il confronto. O no?

Written by gfrangi

Giugno 1st, 2011 at 3:37 pm

Padiglione vaticano alla Biennale? C’è chi aveva già svelato il mistero

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Oggi Pier Luigi Panza sul Corriere dedica un articolo sull’annunciato padiglione Vaticano alla Biennale 2011. Cerca risposte ma non ne trova, anche se sui primi programmi il Padiglione non compare. Avrebnbe dovuto leggersi il Blog di Luca Fiore per trovare la risposta che cercava. Tutto rinviato al 2013. Il neo cardinale Gianfranco Ravasi autorevolmente dixit (peccato, se ci è permesso un commento…)

Written by gfrangi

Ottobre 21st, 2010 at 7:54 am

L’Apparizione di Polke

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È morto Sigmar Polke ad appena 69 anni. È un artista difficile da classificare. Di lui ricordo due visioni veneziane. Una alla Biennale 1999, la prima di Szeeman, in cui aveva esposto una sola enorme tela dal titolo Apparizione di Maria. Tela pixelata e delicatissima, che tgeneva con il fiato sospeso in quel suo lasciar appena affiorare l’immagine (vedi sotto). Quest’anno invece alla Punta della Dogana era suo l’ambiente più potente: grandi teloni traslucidi, come pellicole tese e impalpabili che davano una sorta di enigmatica solennità allo spazio. Polke con Richter ha rappresentato la risposta dell’Europa alla pop art americana. Ha riproposto la complessità laddove gli Stati Uniti spianavano la strada all’elementarità. In una lettera del 1963 in cui Richter presentava a un gallerista il lavoro suo e di Polke rivendicava lo spazio e l’identità di “una pop art tedesca”.

Se in Richter si coglie un’ambizione di classicità, quasi di strutturazione dell’arte pur senza negare l’avvenuta rottura di tutti i codici, Polke invece sviluppa un’arte fatta di esperienze sensoriali, di illuminazioni più che di costruzioni. Scrive Richter che «Polke ritiene che deve esserci qualcosa nella pittura, perché la maggior parte dei malati di mente inizia a dipingere spontaneamente». È il punto di squilibrio che sviluppa una pervasività creativa. Se coscienza c’è (e Polke senz’altro ne aveva) è coscienza psichedelica. Quella grande tela della Biennale del 1999 in fondo è la metafora: l’arte è come un’apparizione, offre sempre visioni che non t’aspetti. Vi riporto questa frase dal testo che Polke aveva scritto per quella Biennale: «Spero di aver contribuito, con i miei ragionamenti, a far sì che nel nostro tempo, privato di ogni immaginazione da ottusi iconoclasti, possa ridestarsi qualcosa dell’antica iconodulia».

Written by gfrangi

Giugno 22nd, 2010 at 7:52 am

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Yayoi Kusama, che vuole vivere per sempre

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Al Pac di Milano c’è una bella mostra di Yayoi Kusama. Ve la consiglio. 80 anni, una biografia tormentata dall’assillo di continue malattie psichiche, la Kusama venne “scoperta” da Lucio Fontana che nel 1966, con slancio giovanile, la sostenne in un’operazione provocatoria alla Biennale. In mostra si vede una bellissima foto (senza didascalia, purtroppo) in cui il vecchio Fontana con allegria giovanile si diverte con la ragazza Yayoi. Alla Biennale la Kusama aveva pensato a un’installazione, Narcissus Garden, fatta di 15oo sfere, da vendere a 1200 lire l’una. Fontana l’aveva aiutata a disporle nei prati davanti ai Giardini. Una volta provocazione così erano “contro” il mercato, oggi vengono immediatamente cooptate dal mercato… Si può dire che era più sana la realtà di allora (e se ne trova conferma nel divertimento di Fontana che traspare da quella foto).

Spettacolare il grande I Want to Live Forever, gigantesco quadro composto da cinque pannelli, in cui l’ossesione ripetitiva del motivo pittorico a rete minuta, produce un risultato che non sai se essere più delicato o allucinato. Bellissima e a suo modo perfetta anche l’installazione (nella foto) Aftermath of Obliteration of Eternity (2008): in una scatola a specchio, con migliaia di luci che si perdono in un infinito che sembra a portata di mano. In Yayoi Kusama c’è una giocosità infantile, una tattilità visiva, che non sai come misteriosamente conviva con le nevrosi che ne hanno segnato pesantemente la vita. Ma il suo bello, sta proprio in questa misteriosa sospensione del destino.

Written by giuseppefrangi

Dicembre 16th, 2009 at 12:24 am

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Benvenuto il Papa alla Biennale

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Chiude una Biennale che ha stabilito un record assoluto di visitatori: prima del weekend finale erano oltre 360mila. Una media giornaliera di 2199, una punta record nel weekend del 17 ottobre con i 10mila sfiorati. Chiude nel giorno della Madonna della Salute, e per questo ai veneziani è riservato un biglietto di 2 euro. La chiusura della Biennale s’incrocia con un altro fatto significativo: l’incontro tra il Papa con gli artisti nella cappela Sistina. Dieci anni fa c’era stata la lettera di Giovanni Paolo II agli artisti, 25 anni fa l’incontro con Paolo VI. Oggi le cose sono ovviamente cambiate, e quel residuo plotoncino di artisti in qualche modo considerati “cattolici” si è assottigliato, nei numeri e ancor più nel protagonismo delle proposte. Per cui la cosa interessante dell’incontro è una presenza vasta e rappresentativa di artisti (in particolare per le arti figurative), che dimostra come ci sia interesse a riprendere un rapporto. In secondo luogo l’altra notizia è che il Vaticano si affaccerà sulla scena della prossima Biennale 2011 con un suo Padiglione, come accade a tutt gli stati. Lo ha annunciato Gianfranco Ravasi, “ministro” della cultura del Papa: «Convocheremo non più di dieci artisti, da tutti i continenti del mondo, e consegneremo loro, come libera base tematica, i primi undici capitoli della Genesi da leggere. Contengono i temi fondamentali dell’essere e dell’esistere: la creazione, la coppia, l’amore, il male, la violenza, l’oppressione dei popoli, il diluvio universale. E non escludo anche di convocare artisti non credenti, perché il nostro scopo non é quello di produrre arte liturgica». Staremo a vedere, con grande curiosità.

Un pensierino finale: la chiesa è stata la più grande committente di prodotti artistici mai apparsa sulla scena della storia. Con la sua committenza e la sua convinzione nella potenza positiva delle immagini, ha fatto esistere dei capolavori assoluti. Ha accettato, a volte con un po’ di scuotimenti interni, anche processi di rinnovamento radicale (Giotto, Donatello, Caravaggio…). Questo per dire che il nesso tra chiesa e arte è un nesso potentemente propagandistico, nel senso positivi del termine (la Chiesa o è visibile o non è). L’arte è mezzo per portare tra gli uomini l’esperienza reale dell’Incarnazione e, di conseguenza, il senso visibile della bellezza e della vittoria. Speriamo che ci vengano risparmiate quindi le vie introspettive, le premure per il dialogo, i cencelli dello spirito… Bisogna osare, altrimenti è meglio un bel padiglione Vaticano vuoto…

Written by giuseppefrangi

Novembre 21st, 2009 at 10:44 am