Robe da chiodi

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Biennale: quando l'arte ama il presente

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L’editoriale del prossimo numero di Vita. Pensieri positivi dalla Biennale

Al centro del percorso della Biennale veneziana di quest’anno, il curatore Daniel Birnbaum ha voluto fare un colpo di teatro. Nello spazio più grande del magnifico edificio delle Corderie (un capannone ante litteram…) ha chiesto all’artista camerunense Pascal Marthine Tayou di immaginarsi la fisionomia di un villaggio globale. L’idea ci stava, visto che il titolo (molto bello) di questa Biennale è «Fare mondi». Tayou non si è fatto pregare e non ha tenuto a freno la sua immaginazione. Così ci si ritrova in mezzo a un gruppo di capanne africane (foto sopra), tra crocchi di persone che confabulano (realizzate con i materiali più impensati e fantasiosi), mentre il volume assordante di video che proiettano immagini globali, completa la dimensione di spaesamento. Ai margini del villaggio, piloni bianchi in polistirolo, da cui spuntano chiodi arrugginiti, raffigurano crudamente le bruttezze incompiute che la modernità scarica ad ogni latitudine. Prima di uscire si scopre che un’immensa cascata di carta macinata scende a valanga dal soffitto. Non è maleodorante, ma rappresenta l’assedio della discarica. Che Tayou sia un artista di talento lo dimostra il fatto che quando si passa oltre, si è tentati di ritornare sui nostri passi, perché ci è affezionati a quel villaggio, perché in fondo riconosciamo davvero qualcosa di casa nostra.

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Qualche campata più avanti, la Biennale riserva un’altra sorpresa. In uno spazio reso buio, s’accendono e si spengono, come palpitando, decine di lucine. Sono gli elettrodomestici con cui un artista questa volta cinese, Chu Yun, ha popolato quello spazio (foto sopra). Nel buio, all’inizio, l’occhio non li scorge. Poi, man mano che si palesano ti prende quasi un po’ di commozione. In fondo sono strumenti del nostro quotidiano. Dobbiamo a loro un po’ del nostro benessere. E poi parlano un linguaggio universale.

Tutto questo e tanto d’altro accade in una Biennale in cui l’arte gioca le sue carte per farci aprire gli occhi, per stabilire connessioni, per farci amare e apprezzare il mondo in cui viviamo, per quanto complicato sia. È un tentativo generoso, a tratti trascinante, che colpisce perché è privo di risentimenti verso il presente. Semmai prende in contropiede per un’energia lirica innescata nei modi che meno ti aspetti: come quell’artista indiana, Sheela Gowda (foto sotto), che ha composto poeticamente una lunga e altissima parete, appendendo vecchi paraurti cromati con trecce lunghissime di capelli. Potremmo continuare a lungo: ma la raccomandazione è che non vi facciate scappare l’occasione di vedere questa Biennale, che ha preso alla lettera il compito assegnatole: non si limita a fotografare i mondi in cui viviamo (il che sarebbe accademia), ma li spinge avanti. «Fare mondi», appunto. Un input che potrebbe benissimo diventare un programma per tutti noi, a partire da noi che facciamo Vita.
Ps: Tutto questo accade a Venezia, una città che a dispetto di tutte le Cassandre sa essere viva come poche altre città italiane. Una città non scontata, che accetta la sfida complicata di essere crocevia di flussi (i 100mila turisti al giorno), palestra di meticciato culturale, e insieme vetrina per nababbi. Giacché non si vive di sola aria…

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Written by giuseppefrangi

Luglio 28th, 2009 at 10:47 pm

Una bella Biennale, anche troppo per bene

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In genere quando si visita una Biennale dopo qualche settimana dalla sua inaugurazione ci si trova davanti a installazioni in disordine, video non funzionanti: questa volta, invece, si ha una bella impressione di ordine e di rispetto per i visitatori di “seconda classe”. Ed è una bella impressione. Merito di un curatore, Daniel Birnbaum, che ha allestito una Biennale lineare, attorno a un tema chiaro, evocativo ma anche semplice: Fare Mondi. C’è molta multietnicità, nelle biografie degli artisti, scovati con occhio curioso nei laboratori delle grandi metropoli soprattutto europee e latino americane. I big hanno presenze marginali e lasciano spazio al vocìo del nuovo. È una Biennale piacevole, senza quelle sconvenienze a scopo mediatico cui ci aveva abituato. A volte una Biennale un po’ ovvia per questa insistita intenzionalità di fare un’arte che vuole bene al mondo, un’arte a forte vocazione sociale. Un’arte molto orizzontale, che non vuole imporre o proporre idee o visioni, ma vuole solo aprire gli occhi sul quotidiano, tessere rapporti, costruire coesione. È arte al limite, molto consolatoria. Quasi per bene.

djurbergIn questo la Biennale è comunque molto omogenea e trova la sua sintesi più emblematica nella grande installazione, messa proprio al centro del percorso dell’Arsenale di Pascale Marthine Tayou. Un artista già molto noto nel circuito, nato a Yaoundé, in Camerun, operativo a Bruxelles, che  ha messo in scena una sorta di villaggio tribal-globale, popolato di rumori, di immagini, di capanne, di figure, attraversato dai segni di traffici illeciti, con una discarica alle porte. Ma tutto sommato un villaggio che resta vitale e felice seppure esposto dall’irrompere caotico e devastante della modernità.
Nel percorso c’è una sola presenza che si mette di traverso. È quella di Natalie Djurberg, l’artista svedese che avevamo conosciuto lo scorso anno alla Fondazione Prada di Milano, e che qui ritorna nella sala bassa e senza finestre del Palazzo delle Esposizioni ai Giardini. Già la location sembra quella di una cripta. Per di più lo spazio è stato riempito sino quasi al soffocamento da enormi fiori fantastici modellati in materiali plastici. È una specie di foresta dove la bellezza sembra essere cresciuta esageratamente e assumere un aspetto spaventevole. I filmati completano la sensazione di un mondo che si autodivora. Più che un fare mondi quello della Djurberg è una documentazione di mondi che si disfano. In questo è anomala nel bel percorso della Biennale. Ma in questo ricorda a tutti che l’arte prima o poi deve affondare. Per esempio affondare nello scompaginamento che l’uomo ha fatto del corpo e della natura. La Djurberg ce lo dà come scompaginamento non riparabile. Questo è il suo scandalo.

Written by giuseppefrangi

Luglio 20th, 2009 at 4:21 pm

Gillo Dorfles biennalesco: quella rana doveva essere verde!

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La Biennale ha questa caratteristica: è la sola mostra capace di muovere i critici. Non si può scrivere della Biennale senza averla vista. O meglio senza esserci stati, perché in realtà i più  vanno essendosi già fatti l’idea prima ancora di aver visto. Insomma vanno con gli articoli in valigia, cui si aggiunge qualche tocco di colore. Anche quest’anno è andata più o meno così. Ognuno ha la sue ragioni e le sue coordinate culturali con cui motivare i propri giudizi: certo mi sembra ci sia una scarsa propensione a farsi sorprendere (in sostanza, per stare a Damien Hirst, a nessuno capita di esclamare: «cazzo,questa che cos’è?»).

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Setacciando le cronache incrociandole e depurandole dai preconcetti inquinanti, abbiamo capito che il padiglione polacco di Krzysztof Wodiczko (a sinistra) è il più ammirato. Che quello americano di Bruce Naumann è il più discusso (Leone d’Oro per un’opera impressionante ma già vista, foto a destra). Che il padiglione Italia è molto debole nel suo insieme. Che il Fare Mondi all’Arsenale, curato da Daniel Birnbaum, ha una sua freschezza capace di sorprendere. Che Nathalie Djurberg, già vista alla Fondazione Prada di quest’anno, ha una grinta allucinata fuori dal comune. Che davanti all’allestimento di Renzo Piano per il suo amico Vedova si resta a bocca aperta (e non poteva essere altrimenti).

Ma ci voleva il vecchio Gillo Dorfles per darci uno sguardo disincantato e insieme affascinato di questa Biennale. Il Corriere lo ha messo in prima pagina e poi fotografato, vestito in un inappuntabile completo beige, con tanto di fogli per annotazioni in mano. Il Gillo “biennalesco” la definizione è sua) scrive senza acrimonie, sottolineando alcuni giudizi a tutto tondo. Constata l’arretramento dei video, cui però non corrisponde una ripresa della pittura: «non possiamo non constatare quanto modesto sia l’apporto della tela dipinta». Lui, studioso di tutti i linguaggi alti e bassi, critica certa arte si concede derive troppo facilmente ludiche. Poi con quell’aria birichina del nonuagenario che si puà permettere tutto, scrive questo del Ragazzo con la rana messo dal neo doge François Pinault sulla Punta della Dogana: «Anche la statua di Carles Ray, Ragazzo con la rana (balordo riferimento alle antiche sperimentazioni di Galvani) avrebbe avuto un po’ più di fascino se l’antico anfibio fosse stato di un bel marmo verde del Belgio!».

Written by giuseppefrangi

Giugno 10th, 2009 at 11:05 pm

La grande arte che ti fa dire “cazzo, cos'è"

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«Che cos’è la grande arte? La grande arte è quella che ti fa fermare quando giri l’angolo e dire, “cazzo, cos’è?” È quando ti trovi davanti ad un oggetto col quale hai un rapporto personale fondamentale, stretto e capisci qualcosa sull’essere vivi che non avevi mai capito prima». Sono parole di Damien Hirst tratte dal suo Manuale per giovani artisti (un bellissimo, selvaggio libro generazionale). Ho intercettato queste parole leggendo una relazione di Beatrice Buscaroli, curatrice con Luca Beatrice del padiglione italiano della Biennale testé aperta. I giudizi ingiuriosi che accompagano questa citazione (per la quale d’istinto le avrei fatto i complimenti) evidenziano una cosa: che la critica cerca ossessivamente di rifugiarsi in uno schema, mentre l’arte scappa dagli schemi. Il libro intervista di Hirst è zeppo di intuizioni critiche fulminanti (vi si leggono alcune delle cose più acute che siano state dette su Bacon), ma soprattutto non si “lascia prendere”.  Colpisce e scappa via. Prima ti persuade e il passo dopo ti spiazza. Invece la critica “biennalica” ha la sola preoccupazione di mettere in ordine le cose, di mettere paletti e punti fermi (del tipo: qui è arte e qua no), di stabilire canoni estetici dentro i quali non sentirsi persi.  Una sorta di grande anestesia esperienziale.
Meglio ammettere che i conti non sempre tornano (anzi quasi mai). Quel “cazzo cos’è” di Damien Hirst è ancora l’esperienza più bella che l’arte ci riserva. Non sapevi, non prevedevi e ti trovi investito da un’evidenza che ti scuote e ti resta incollata in testa. Ad esempio io ho sempre in testa l’agnello di Damien Hirst sigillato dentro quella teca tabernacolo alla mostra di Napoli di qualche anno fa. Un po’ Zurbaran e un po’ Bacon: con la purezza di un Agnus Dei riemerso dalla profondità della storia.

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«Francis Bacon dipinge un ombrello del cazzo e ti caghi addosso. Dopo avrai sempre paura degli ombrelli. È un artista, uno scultore, un pittore. È l’ultimo bastione della pittura. Prima di allora la pittura sembrava morta. Completamente morta» (Damien Hirst)

Written by giuseppefrangi

Giugno 5th, 2009 at 10:20 pm