Robe da chiodi

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Appunti piovosi di viaggio (Parigi e Londra)

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Di Piano in Piano
Prima a Trento, al nuovo Muse e al quartiere delle Albere. Un Piano molto calligrafico, attento ad integrarsi con il contesto, a non fare troppo rumore. Il Muse è bello, con una sua poeticità che in qualche modo indirizza anche il contenuto. Il quartiere invece ha un che di troppo “dirigista”, con tutto quelle sue preoccupazioni di sostenibilità che alla fine lo rendono freddo, poco plasmabile da chi ci vive. È un po’ un villaggio vacanze, sobrio ed elegante. Un paio di settimane dopo sono a Parigi e Londra. E lì si incontra un altro Piano. Quello del Beaubourg e quello della “scheggia”: datano 40 anni l’uno dall’altro, ma li unisce la carica trasgressiva rispetto al tessuto. È il Piano che esce dal seminato, che osa, che accetta la sua funzione di mettere a nudo equilibri troppo fittizi. The Shard si alza come una guglia gotica impazzita, con quel finale divaricato e drammatico, quasi un grido; quasi una bocca di un uccello affamato. Ci vedo anche un’assimilazione architettonica di visioni come quelle di Franz Kline. Una grande intuizione formale, che lascia il segno negli occhi.

Il complesso Pompidou
Il Beaubourg è sempre quell’astronave affascinante e piena di mille anomalie. Ma la macchina interna è in grande affanno. C’è una stanchezza nel capirne la funzione, biblioteca a parte. Divora gente, ma non si capisce bene per fare e vedere cosa. L’allestimento del museo in questo agosto era qualcosa di sconcertante. Una parte storica tutta pasticciata, seguendo un filo delle riviste che hanno fatto la storia del secolo, ma senza un minimo di continuità e di coerenza. Qualche capolavoro spuntava qua e là, perché tenerli in deposito è un controsenso. Sono 25 anni dalla grande mostra Les Magiciens de la Terre. Il complesso verso le culture altre è tutt’altro che risolto. I due piani del museo sono pieni di opere acquisite da ogni angolo del mondo. Ma affastellate senza criterio e con un livellamento complessivo che lascia solo una sensazione di confusione. Dobbiamo pur convincerci che il ritratto di Monsieur Pellerin di Matisse è qualcosa che non ha bisogno di una par condicio con una pur nobile scultura africana per legittimare il proprio spazio di muro…

La macchina della Tate
Al confronto con il complessato cugino parigino, la Tate sembra una macchina da guerra. Due mostre straordinarie (Matisse e Malevitch), un cantiere esterno che già svela l’enorme ampiamento, firmato sempre Herzog De Meuron: un corpo geometrico ruotante altissimo, che con uno spigolo s’appoggia sulla Turbine Hall. Nella presentazione del progetto si nota che l’investimento sulla parte eductaional è enorme e che gli spazi nuovi sono in buona arte pensati per quella funzione. Così vanno i grandi musei… Non convince invece, come sempre, il criterio espositivo tematico che da sempre caratterizza la Tate Modern. Ogni volta ci si trova davanti a soluzioni superficiali ed arbitrarie. Mi chiedo perché quando si affronta il 900 non si possa proporre un percorso storico, come un museo d’arte antica. C’è sempre bisogno degli effetti speciali curatoriali (vedi anche alla Gam di Torino). Cioè la mostra che si mangia il museo…

Le chiese di Parigi
Difficile che venga voglia di entrarci. Hanno un che di esagerato e respingente. Ma stavolta mi sono preso l’impegno di vincere la ritrosia, anche per vedere un po’ di quadri che comunque vi sono custoditi. Entrarvi fa sentir grati di essere italiani: non c’è mai senso dell’architettura in questi edifici così magniloquenti, né quando perpetuano un gotico con due secoli di ritardo, né quando si prendono la rivincita dai violenti sgarbi della rivoluzione. Basta alzare lo sguardo verso le volte dell’immensa Saint Eustache: le volte si reggono con un groviglio disperato e insensato di archi. Si vedono bei quadri, qua e là. Magnifico Simon Vouet a Saint Nicholas des Camps, con gli apostoli che “stregati” dal sepolcro lasciato vuoto dalla Vergine; disperato Delacroix nella Pietà di Saint Benoît (nel Marais) ispirata chiaramente dalla Deposizione di Rosso Fiorentino del Louvre.

Written by gfrangi

Agosto 23rd, 2014 at 6:25 pm

Van Gogh, liberi sguardi sui grandi del passato

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È uscito un libro dalle dimensioni e dall’aspetto un po’ biblici. È la raccolta di 265 lettere di Van Gogh (sul totale di 903), traduzione italiana del volume ricavato dal gigantesco lavoro fatto per il Van Gogh Letters Projects (bisogna andare sul sito per rendersi conto di cosa si tratti: tutte le lettere pubblicate e linkate a tutti i riferimenti che Van Gogh fa al loro interno). Bello il titolo dato a questa edizione, Scrivere la vita. Il volume ha oltre mille pagine, con indice dei nomi molto ben fatto e quindi molto utile (Donzelli, 55 euro). Le lettere di Van Gogh sono un documento meraviglioso ma assolutamente asistematico. Così la tentazione è sempre quello di saltare da una pagina all’altra, segnandosi alcune frasi che non possono essere dimenticate, tale la suggestione che evocano. Ho fatto anch’io così. Ma aiutandomi con l’utilissimo indice dei nomi sono andato a cercare le pagine in cui VG parla di altri pittori.
(tralascio Millet, di cui si sa bene cosa VG pensasse: ricorre in ben 75 lettere).

A proposito di Delacroix (in indice 39 occorrenze)
«Delacroix, ah, lui – “ho trovato la pittura – ha detto – quando non mi erano rimasti più denti né fiato”. E quanti hanno visto questo illustre artista dipingere hanno detto: quando Delacroix dipinge è come il leone che divora un pezzo di carne. Scopava poco e aveva solo avventurelle per non sottrarre il tempo consacrato alla sua opera»

«Ah il bel quadro di E. DELACROIX – la barca di Cristo sul mare di Genesaret -; lui con l’aureola giallo limone chiaro – che dorme luminoso – nella drammatica chiaza viola, blu scuro, rosso sangue del gruppo dei discepoli attoniti. Su quel terrifico mare di smeraldo che monta, monta fino alla parte più alta del quadro».

«Non mi sorprenderebbe affatto che gli impressionisti trovassero da ridire sul mio modo di dipingere, che è stato fecondato più dalle idee di Delacroix che dalle loro».

«Così morì quasi sorridendo Eugéne Delacroix, pittore di grande razza- che aveva un sole nella testa e nel cuore una tempesta – che passò dai guerrieri ai santi – dai santi agli innamorati – dagli amanti alle tigri – dalle tigri ai fiori».

A proposito di Rembrandt (in indice 45 occorrenze)
«… cò che tra i pittori solo Rembrandt ha, o quasi solo lui, quella tenerezza dello sguardo degli esseri umani che vediamo sia nei Pellegrini di Emmaus, sia nella Fidanzata ebrea, sia in quella strana figura d’angelo come in quel quadro che tu hai avuto la fortuna di vedere – quella tenerezza afflitta, quel barlume di infinito sovrumano che allora appare così naturale, lo si incontra in numerosi passi di Shakespeare».

A proposito di Rubens (3 occorrenze)
«Niente mi colpisce meno di Rubens quando esprime il dolore umano. Comincio col dire, per spiegare cosa intendo – che perfino i volti della sue Maddelene piangenti o Mater dolorose mi fanno sempre pensare semplicemente alle lacrime di una ragazza che si sia presa magari una malattia venerea… Rubens è sorprendente nel dipingere donne comuni, belle. Ma nell’espressione non è drammatico».

A proposito di Degas (11 occorrenze)

«Degas vive come un piccolo notabile e non ama le donne, ben sapendo che se le amasse e scopasse troppo si ammalerebbe mentalmente e diverrebbe incapace di dipingere. La pittura di Degas è virile, impersonale appunto eprché lui ha accettao di essere un piccolo notaio, aborrendo la vita sergolata. Osserva gli animali umani più forti di lui infoiarsi e scopare e li dipinge bene appunto perché non ha tutte le quelle pretese di infoiarsi».

A proposito di Giotto
«Io e Gauguin abbiamo visto un suo piccolo pannello a Montpellier. La morte di qualche santa. In quel dipinto le espressioni di dolore e di estasi erano talmente umane che, pur essendo nel XIX secolo, ti senti li dentro – e ti pare di essere stato là tanto ne condividi le emozioni».

Written by gfrangi

Febbraio 1st, 2014 at 1:55 pm

Posted in pensieri

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Delacroix, naturaliter cristiano

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C’è un tratto comune in due libretti che ho letto quest’estate. Sono  Mon Histoire, raccolta un po’ sconclusionata di testi di e su Monet, e Verso l’Immateriale dell’arte, di Yves Klein. Il tratto comune è rappresentato dal comune amore per Eugène Delacroix. Un amore strano, perché a prima vista le relazioni sembrano inconsistenti. Eppure Delacroix ha questo potere, di essere un artista padre, sotto le cui ali ciascuno si sente libero e protetto. Bella, a proposito, la frase di D. che Klein cita nella sua conferenza alla Sorbona del 1959: «Guai al quadro che non mostri niente aldilà del finito! Il merito del quadro è l’indefinibile: ciò che sfugge appunto alla precisione».

20061110164946Ovviamente Delacroix ha attraversato anche la strada della vacanza. A Parigi, per due volte a messa Saint-Sulpice, mi sono ancora una volta lasciato agganciare dai due grandi affreschi del Delacroix estremo. C’è in lui una strana capacità di essere antico senza pregiudicare la propria modernità. Di dipingere quadri sacri in assoluta naturalezza, senza imbarazzi e senza sentirsi un “fossile”. Non lo percepisci mai “obbligato”: lo slancio dell’angelo che punisce Eliodoro, o la grinta del Giacobbe che lotta con l’angelo sono figli di una passione per il mondo, per la vita, per la Chiesa. Nel visitare il suo atelier a Place Furstenberg (chi non sogna un atelier così?) si vede un quadro affascinante. Il soggetto è di quelli che i pittori non dipingono più da 300 anni: l’Educazione della Vergine. La genesi del quadro è emblematica, come racconta Delacroix in una lettera, scritta da Nohant dov’era ospite di George Sand: «Ho visto rientrando dalla passeggiata un motivo superbo per un quadro, una scena che mi ha profondamente toccato. Era una contadina con la sua nipote. Ho potuto guardarle con agio, da dietro un cespuglio senza che lor mi vedessero. Tutt’e due erano sedute su un tronco. La vecchia teneva una mano posata sulla spalla della bambina che imparava con attenzione la lezione di lettura». Da quel “motif” Delacroix trasse il quadro, agganciando lo squarcio di vita al soggetto sacro con assoluta naturalezza. Attorno c’è il consueto “incendio” di cieli e di alberi.

Sempre all’atelier si scopre un’altra vicenda strana. Delacroix nel 1821 aveva dipinto un quadro che era stato commissionato a Géricault, ma di fronte al quale Géricault era rimasto paralizzato. Il tema era la Devozione del Sacro ciore di Gesù e di Maria, destinato alla cattedrale di Nantes. La tela non venne ritenuta adatta e nel 1827 fu dirottata alla cattedrale di Ajaccio. Ma tutti credevano si trattasse di Géricault, perché Delacroix non ne aveva preteso la paternità. L’opera è ancora lì. Nell’atelier se ne vede il bozzetto.

Written by giuseppefrangi

Agosto 18th, 2009 at 11:27 pm