Robe da chiodi

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Don Milani e la ragione dei colori

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Don Milani, Autoritratto, 1942

Don Milani, Autoritratto, 1942

Vedendo la mostra sul don Milani pittore al Museo diocesano di Milano ho scoperto che era nato 15 giorni dopo Giovanni Testori. E che come Testori in quegli anni tra 41 e 43 si era immaginato un destino da pittore. Per poi, ancora in perfetta analogia, cancellare in un sol colpo quell’esperienza (per Testori era accaduto nel 1949). Certamente don Milani era meno pittore di Testori. Le opere di questa esperienza, per quanto vissuta con grande convinzione (si iscrisse anche a Brera), sono opere alquanto balbettanti. Ed è difficile rintracciarne tracce significative nell’esperienza del don Milani prete, anche se nelle foto e in un filmato lo vediamo alle prese con i suoi allievi muniti di artigianalissimi cavalletti per le lezioni di educazione artistica. Per cui le cose più interessanti sono quelle che spiegano l’uscita dall’esperienza artistica: spiegazioni che rivelano già una lucidità e anche una determinazione che non lasciavano scampo. Scrive al suo maestro Staude, che gli chiedeva il perché del ripensamento: «È tutta colpa tua perché tu mi hai parlato di cercare sempre l’essenziale, di eliminare i dettagli e di semplificare, di vedere le cose come unità dove una parte dipende dall’altra. A me non bastava fare tutto questo su un pezzo di carta. Non mi bastava cercare rapporti tra i colori. Ho voluto cercarli tra la mia vita e le persone del mondo. E ho preso un’altra strada». E poi in un’altra lettera a Oreste del Buono (suo compagno al Berchet): «Cominciai ad andare in Duomo perché, come pittore, mi interessava dipingere i paramenti dei proporti in certi riti solenni. Pensai che se esistevano quei colori, doveva esserci una ragione. E la cercai…»
Cercare la ragione del perché esistono i colori (che, dalle tante testimonianze a Don Milani, continuavano a piacere: li segnalava sempre ai suoi ragazzi): ma quello è un compito della vita e non della pittura…
La pittura per don Milani ha quel peccato originale di dar troppo rilievo all’“io”. Lui era tutto il contrario. (Rothko gli avrebbe dato ragione…) «Ad esempio perché teneva sempre la tonaca?», dice di lui un prete amico, don Giubbolini. «La tonaca era un simbolo, perché in questo grande sacco spariva l’uomo, l’uomo-prete completamente coperto dalla tonaca».
Restava spazio per un creare collettivo, come gli accadde quando si decise ad abbellire la chiesa di Barbiana, ovviamente mettendo all’opera i suoi ragazzi che avevano potuto fare un’esperienza in una scuola in Germania, durante la prima gita all’estero. Ne sono venute fuori vetrate più che discrete, realizzate usando solo materiali di scarto. La più bella è la più “donmilaniana”: si vede un monaco in piedi in un prato pieno di fiori, con tanto di aureola; un libro aperto gli copre il volto. Il titolo, bellissimo, lo diede don Milani stesso: il Santo scolaro. Non molto ortodosso, ma a papa Francesco piacerebbe moltissimo…

Written by gfrangi

Giugno 8th, 2014 at 9:26 pm