Robe da chiodi

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Hopper senza stereotipi

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C’erano mille persone, perché non ce ne potevano stare più di mille l’altra sera al primo appuntamento di un ciclo dedicato ad Edward Hopper, sulla piattaforma del Museo Diocesano di Milano. Hopper è un artista popolare come pochi altri. Ma in questo anno di pandemia è diventato un pittore che tutti sentono, per così dire, sulla propria pelle.

«Siamo tutti dentro un quadro di Hopper», era stato infatti uno dei tweet più virali nei mesi dei vari lockdown: cioè chiusi, soli, esclusi dal mondo, costretti a stare in una bolla. Ma è davvero questo il senso espresso dai quadri del grande artista americano? È per questo che esercita un tale magnetismo sul pubblico di oggi? Se fosse davvero così, sarebbe un pittore magari popolare ma certamente poco interessante: un pittore ripiegato nell’intimismo, chiuso dentro un suo mondo. Evidentemente le cose non stanno in questi termini. E anzi esercitarsi a guardare Hopper vincendo questa pigrizia; aprire gli occhi per liberarlo da sguardi troppo stereotipati è un esercizio utile e anche molto salutare. Il senso del ciclo avviato l’altra sera è proprio questo: non a caso gli incontri sono stati affidati a relatori che non sono specialisti o storici dell’arte, ma che hanno una capacità di scavare e di “aprire” l’opera di Hopper, portando allo scoperto quell’energia segreta e in tanti casi anche imprevista che le rende tanto affascinanti. Prendiamo il caso di un quadro celebre come “Summertime”: si vede una donna, vestita con l’abito più bello, sulla soglia di una casa tradizionale newyorkese, sotto una luce sfolgorante. È appoggiata alla colonna dell’ingresso e ha lo sguardo puntato verso un orizzonte che a noi precluso, ma che vive di riflesso nell’intensità di quella luce e di quella sua posa. Chi aspetta? E cosa calamita con tanta esclusività il suo sguardo? «L’abito non è casalingo», ha sottolineato Luigino Bruni, economista, primo ospite del ciclo. «È l’abito per uscire, non si sta a casa con un cappello elegante. Allora forse il quadro vuole proprio dirci questa tensione, questo movimento tra il desiderio di uscire e il restare, tra la forza centrifuga che spinge fuori casa e quella centripeta che la risucchia dentro».

Dunque è una tensione e non certo una stasi ciò che i quadri di Hopper comunicano. Bruni sorprendentemente ha rintracciato degli archetipi per questa donna sulla soglia e li ha trovati nella Bibbia: in Sara ad esempio, la moglie di Abramo, che sta sulla soglia della tenda, ma interloquisce con gli ospiti imprevisti che si sono palesati. Sta nella casa, ma vive di un’attesa. «È sentinella», ha aggiunto, «che sta sulla soglia tra la città interna e il mondo esterno (Isaia, 21), e parla a chi sta dentro e a chi sta fuori, che chiedono: “sentinella, quanto manca al giorno?”». 

Che banalità interpretare la solitudine dei personaggi di Hopper come se fossero ostaggi di un “lockdown” esistenziale. La solitudine dei suoi personaggi è invece sempre attraversata dalla tensione di un’attesa. Non solo: è solitudine calamitata ogni volta da un fattore esterno, che non è dato vedere e conoscere, ma che con grande evidenza investe lo sguardo e lo cattura. Nei quadri di Hopper c’è sempre un “fuori” che cambia i connotati del “dentro”. Tanto che, come ascolteremo settimana prossima dal secondo ospite, Andrea Dall’Asta, certe opere sembrano prefigurarsi come lo spazio per un’“annunciazione”. Un buon modo di guardare un’opera d’arte e di renderla davvero utile alla nostra vita…

Written by gfrangi

Marzo 26th, 2021 at 6:05 pm

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Hopper. L’idea nascente, a posteriori

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Era il 9 luglio 1924. A New York nella chiesa Ugonotta sulla Sedicesima Strada, Edward Hopper si sposava con Josephine Verstille Nivison. Lui 42 anni, lei uno di meno, si erano conosciuti molto tempo prima alla New York Art School, dove tutt’e due erano stati allievi di Robert Henri. Si erano rivisti nel dicembre 1922 in occasione di una collettiva alla Belmaison Gallery e in poco tempo avevano stretto i legami tra le loro vite con il matrimonio.

Erano di carattere opposto: lui riservato e di pochissime parole, lei espansiva e sempre pronta a dire la sua su ogni cosa: «Bella, vivace, piccola, rapida nel pensiero e nell’azione, attentissima a tutto quello che accade attorno a lei», l’ha descritta Brian O’Doherty, critico del “New York Times”. «Una delle donne più straordinarie che un artista abbia mai sposato. Riserva a se stessa il privilegio di attaccare il marito, come quello di difenderlo con la medesima energia». Date queste premesse si capisce come Josephine, detta “Jo”, fin da quel 1924 abbia voluto prendere il timone della produzione di Edward iniziando a compilare degli “Artist’s Ledger Books”, libri mastri sui quali riportare sistematicamente tutti i lavori del marito. È un lavoro continuato fino al 1966, anno che precede la morte di Edward. In tutto si tratta di tre “Artist’s Ledger Books” (più un quarto e un quinto con poche annotazioni); Jo, prima di morire, con decisione riconoscente, li aveva donati a Lloyd Goodrich, terzo direttore del Whitney Museum che tanto si era adoperato a sostenere il lavoro di Hopper. Goodrich ha poi lasciato in eredità al museo Libri mastro, riunificandoli così al grande lascito di Jo.

Nel 2012 Brian O’ Doherty aveva curato un’antologia di questi straordinari inventari che oggi arriva anche in Italia grazie a Jaca Book (“Edward Hopper. Dipinti & disegni dai Libri master”, 146 pagine, 50 euro): libro indispensabile per la conoscenza di Hopper, pubblicato in formato che rispecchia quello dei Ledger Books, macchiato purtroppo da una traduzione costellata di errori macroscopici: “Second Story Sunlight”, titolo di uno dei capolavori di Hopper, il famoso “secondo piano al sole”, è diventato “Seconda storia Sunlight”…)

L’autorialità di questi “Artist’s Ledger” è messa in chiaro fin dal frontespizio del primo quaderno: “Edward Hopper. His Work”, in terza persona perché, come viene precisato all’interno, la compilazione è opera di “Jo N. Hopper”. Pagina per pagina si familiarizza con la sua scrittura sinuosa: ogni scheda segue un ordine preciso, con date, titolo, misure in pollici, luogo in cui l’opera è stata dipinta, dove è stata esposta e quando è stata venduta. Segue una descrizione sintetica dell’opera, nella quale prevale quello sguardo “argento vivo” di Jo: osservazioni molto letterali sull’opera si accompagnano a notazioni personali, a volta anche ad ipotesi alternative di titoli (“Office in Small City”, 1953, per lei avrebbe dovuto titolarsi “The Man in Concrete Wall”, riferendosi a quel senso di oppressione dato dalla grande edificio a scatola di cemento). Hopper la lasciava fare e in gran parte dei casi completava l’inventario con notazioni molto più laconiche, com’era nel suo carattere, in cui indicava semplici dettagli tecnici: tela usata, preparazione, tipo di colori. 

L’idea di redigere questi libri mastri era frutto dell’insegnamento di Robert Henri, che aveva tenuto un inventario della propria opera (ben 13 quaderni). Anche con il passare degli anni Jo aveva sempre mostrato grande stima per il loro vecchio professore. Henri, insegnante appassionato e visionario, iniziò a inventariarele sue opere quando era ormai artista maturo. Jo fu invece più avveduta, avviando subito la compilazione: infatti nel 1924 Hopper, per quanto vicino alla mezz’età, era ancora agli inizi della sua carriera.  La prima opera di successo, “House by the Railroad” è datata 1925: venne selezionata per la mostra “Paintings by 19 Living Americans” al MoMA, che poi comperò l’opera nel 1930. Rispetto a libri mastri di Henri però c’è un’altra differenza fondamentale. Il vecchio professore accompagnava le voci di inventario con dei piccoli schizzi solo in funzione di promemoria.

Hopper all’inizio procede allo stesso modo. Poi, a partire dal 1928, prese l’abitudine di riprodurre fedelmente i quadri finiti, disegnando ogni volta, all’interno di una cornice ben definita, prima a matita e poi con penna a inchiostro, il “d’après” della propria opera. Come scrive O’Doherty nel testo introduttivo, Hopper in questo modo «attraverso una riproduzione a posteriori, riconduce la sua opera allo stato di idea. Gli schizzi dei registri, nel loro carattere sommario e concettuale, riportano forse Hopper – e noi – all’idea originale per il dipinto – idea che si dissolve, secondo la sua stessa testimonianza».

Era stato infatti Hopper a parlare più volte, nei suoi scarni scritti o dichiarazioni pubbliche, di un rischio di “decadimento” dell’idea nel farsi stesso dell’opera. «Il soggetto arriva lentamente, prende forma: poi, purtroppo, sopraggiunge l’invenzione», aveva spiegato nel 1962, in una lunga intervista a Katherine Kuh. Il tentativo invece era quello di «fissare ogni volta sulla tela le reazioni più mie intime di fronte al soggetto, così come mi appare quando lo amo di più: quando cioè il mio interesse e il mio modo di vedere riescono a dare unità alle cose». E ancora: «Mi scontro sempre, quando lavoro, con la fastidiosa intrusione di elementi che non fanno parte della visione che mi interessa: l’opera stessa, nel suo procedere, finisce per cancellare e rimpiazzare la visione originaria. La lotta per evitare questo decadimento è il destino, penso, di tutti i pittori a cui non interessa inventare delle forme arbitrarie».

Hopper con questo sguardo a ritroso va dunque ogni volta a recuperare l’idea al suo stato più puro, in un certo senso la mette in salvo. Recupera così quel passaggio cruciale della sua formazione che corrisponde ai lunghi anni dedicati all’acquaforte, una tecnica grazie alla quale le immagini, come lui stesso aveva sottolineato, «arrivavano a cristallizzarsi». Sempre grazie alla disciplina esecutiva e mentale imposta dall’acquaforte era anche maturato quello che in un altro testo O’Doherty ha definito «il fatidico matrimonio tra il pittore e il suo soggetto». 

In questi schizzi “a posteriori” infatti ritroviamo spesso l’idea allo stato puro e nascente. Prendiamo il celebre “Morning Sun” (1952). Nel disegno il tratteggio a penna lascia libero il grande rettangolo del sole che batte sulla parete, reso con il bianco “nudo” della carta, in continuità con il cielo, oltre la finestra, lasciato ugualmente bianco. Si coglie così quella radicalità dell’intenzione che nel quadro si attenua, a vantaggio di una stesura pittorica così calibrata, densa e riflessiva. 

Per il resto gli “Artist’s Ledger Books” sono territorio sotto completo controllo di Jo, che affianca una disciplina descrittiva a vere scorribande. Schedando uno dei capolavori di Edward, “Cape Code Evening”, sottolinea il dettaglio del disegno sul vetro smerigliato della porta della casa, ma poi mette un asterisco vicino al titolo e annota una sua osservazione: «Doveva chiamarsi “Uccello notturno”. Il cane lo sente. Donna finlandese e arcigna. (Lei è uccello notturno). L’uccello è lì ma fuori vista». Per “Second Story Sunlight” (1960) la ragazza sulla balaustra viene liquidata così: «“Brava pupa, sveglia ma turbolenta. Un agnello travestito da lupo”. Citazione del pittore». 

Commovente invece la reticenza che accompagna la didascalia per l’ultima opera di Hopper, “Two Comedians” (1966), dove lei e lui si accomiatano dalla scena, in vesti di clown, con un senso di suprema leggerezza e ironia. Scrive Jo: «Terminata 10 nov. 1966 nello studio di S. Truro… figura bianca su fondo scuro, leggermente verde a d.». Hopper sarebbe morto a maggio del 1967. Lei lo avrebbe seguito 10 mesi dopo. 

Pubblicato su “Alias” il 27 dicembre 2020

Written by gfrangi

Dicembre 28th, 2020 at 6:00 pm

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Hopper e Warhol. Chi dei due?

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warhol-america-bk1Per una coincidenza mi è capitato di ragionare a distanza di pochi giorni su Hopper (per via della mostra milanese) e su Warhol (per l’uscita da Donzelli di America, che non era mai stato pubblicato in italiano; a sinistra la copertina dell’edizione originale, 1985). Perdonatemi la partigianeria, il confronto si è risolto con la certezza dell’assoluta grandezza di Warhol. Hopper rappresenta l’America della prima metà del secolo, W. la seconda. H. è il primo americano integrale ma non provinciale: il suo mondo, per quanto circoscrivibile e topograficamente identificabile, ha connotati di universalità. Sono luoghi interiori, stati di attesa, prospettive tese verso un punto di fuga fuori quadro, ma che non sembrerebbe fuori tiro (se il fiotto di luce entra dalla finestra, se gli sguardi sono puntati, qualcosa c’è o è lì lì per palesarsi). Hopper è un artista semplice, mai presuntuoso, a volte un po’ piccolo rispetto alla vastità del continente in cui gli è stato dato di vivere e di esprimersi (se pensate che negli stessi anni in Europa giganteggiavano Matisse o Picasso: l’America di Hopper sembra ancora un mondo in miniatura…).

Warhol invece è americano integrale con una punta di Europa orientale nel sangue (era Andrej Warhola, figlio di immigrati slovacchi). È uno a cui riesce un gioco impossibile: dare patente di eternità alla paccottiglia del consumismo americano. Per farlo non ricorre a nessun escamotage nobilitante: la serialità delle sue opere assimilano il suo fare arte alla dinamica, sempre uguale a se stessa, di una macchina. Ma perché Warhol neutralizza il sé come soggetto operante per lasciar lavorare il sé come produttore automatico? E soprattutto, perché le immagini di Warhol, pur non andando mai oltre la superficie delle cose non restano mai prigioniere della loro provvisorietà? La risposta è una sola: sono icone. Warhol opera questo impensabile trasferimento di una visione senza tempo (quello delle icone del suo originario oriente) nella civiltà più effimera che la storia abbia mai conosciuto. E innesta dentro questa, senza per nulla forzarla, un punto di vista adorante o “contemplativo”. Per questo le immagini di Warhol sono sempre nuove, anche se uguali a se stesse: anche il banale (quotidiano) ha trovato un rimando di gloria.

Ecco perché amo Warhol assai più del nobile Hopper.

Written by giuseppefrangi

Novembre 2nd, 2009 at 8:10 pm