Robe da chiodi

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Matisse, il paradiso tipografico della cattività nizzarda

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«Sono paralizzato da un non so cosa di convenzionale che m’impedisce di esprimermi come vorrei in pittura…» Così nel gennaio 1940 Henri Matisse si confidava via lettera a Pierre Bonnard. «Ho una pittura impastoiata dalle nuove convenzioni di tinte piatte… Tutto questo non si accorda con la spontaneità». Erano momenti di grande inquietudine per Matisse, la situazione attorno stava precipitando con la Wehrmacht alle porte, gravi problemi di salute lo assillavano. Aveva anche confidato di avere sul passaporto il visto datato 1 aprile 1940 per rifugiarsi in Brasile. Era stato Picasso a farlo tornare sui suoi passi e convincerlo a non lasciare la Francia. Così alla firma dell’armistizio il 22 giugno 1940 Matisse aveva lasciato Parigi per rifugiarsi a Cimiez, sopra Nizza, nella Francia controllata dal governo collaborazionista.

Prendeva così il via quella che la studiosa Louise Rogers Lalurie ha definito «una performance di libertà nella “cattività”», in quanto Matisse per tutto il periodo dell’occupazione sarebbe stato tenuto sotto stretta osservazione dell’autorità di Vichy. Rogers Lalurie è l’autrice di un libro che incredibilmente mancava nel vasto e quasi bulimico panorama editoriale dedicato al grande maestro francese: un libro sui suoi “libri” (“Matisse. I libri”, Einaudi, 318 pagine, 80 euro). Tra 1941 e 1946 l’artista ne realizzò ben sette (anche se alcuni vennero stampati a guerra conclusa), che si sono aggiunti al Mallarmé disegnato e pubblicato invece tra 1930 e 1932. 

Se a Bonnard Matisse aveva confessato di essere ad un punto morto con la pittura, a Louis Aragon aveva invece rivelato di essere «arrivato al culmine dei miei sforzi con il disegno»: era quello il suo nuovo focus, originato da ragioni creative ma suggerito anche da condizioni esterne, come la sua debolezza fisica per la malattia e ovviamente il contesto storico-politico. Nei quattro anni di questa sua “cattività”, dividendosi tra le stanze dell’Hotel Regina a Cimiez e Ville le Rêve a Vence, Matisse ha finito con il concentrarsi su un complesso di progetti editoriali di grande impegno, che oggi possiamo finalmente scoprire in tutta la loro coerenza e importanza. Non si era trattato di una scelta di ripiego; piuttosto siamo di fronte al cantiere di un artista che esplora una soluzione in grado di portarlo fuori da quell’impasse nei confronti della pittura. Con i libri Matisse s’inoltra in un mondo nuovo, quasi verginale, proprio come il bianco della carta sulla quale andava a depositare con straordinaria varietà i suoi segni. «Uno strano cielo in potenza… un cielo bianco, un cielo di carta», è la bellissima definizione escogitata da Aragon. I libri di Matisse sono integralmente di Matisse, perché nascono da sue scelte, o meglio da sue preferenze. Ha bisogno ogni volta di entrare in intimità con un testo come condizione perché scatti il meccanismo poetico e creativo: il disegno prende il volo nella relazione con le parole, in un gioco di complicità che arriva a generare intrecci visivi e concettuali stupefacenti.

Matisse, da “Pasiphaé”

Come interlocutore, più che gli editori che si alternano di volta in volta, è decisivo il ruolo di un amico, André Rouveyre, conosciuto ai tempi della Accademia quando tutt’e due erano allievi di Gustave Moreau. Nei quattro anni in cui si concentrano i cantieri per i libri, i due sono in contatto quasi quotidiano con una corrispondenza fittissima: oltre 1200 lettere, che sono state pubblicate nel 2001. È Rouveyre a procurare in alcuni casi i testi a Matisse, come nel caso del Charles d’Orleans o delle lettere di Marianna Alcaforado, una sorta di Monaca di Monza lusitana.

Altro interlocutore chiave è Louis Aragon che lo accompagna nella realizzazione del progetto più personale e forse più rivelatore, “Dessins. Thèmes et variations”: un percorso di soli disegni organizzati con un’intrinseca sistematicità. In questo caso il testo è l’introduzione che Aragon scrive e che poi confluirà nel meraviglioso “Henri Matisse. Roman”, pubblicato nel 1971. Il titolo di quel testo introduttivo è molto significativo perché evidenzia e a suo modo risolve una criticità relativa alla posizione dell’artista. “Henri Matisse en France” suona come una garanzia a fronte del sospetto che Matisse avesse una posizione ambigua nei confronti del regime di Petain. Infatti uno dei libri sui quali aveva scelto di lavorare gli aveva procurato anche uno scontro Rouveyre: è la “Pasiphaé”, poemetto di Henri De Montherlant, scrittore di destra e non ostile agli occupanti. «È un testo sul quale posso sognare», era stata la sua risposta alle contestazioni dell’amico. Il quale poi, davanti alla bellezza delle incisioni su linoleum realizzate da Matisse, lo aveva perdonato. «Hai dimostrato», gli scrisse, «come nessuno artista aveva mai fatto prima che il pretesto immediato può essere del tutto irrilevante».

Matisse, da “Pasiphaé”: «L’angoisse qui s’amasse en frappant sur ta gorge»

Il sogno di Matisse è sogno che lascia trapelare anche angosce segrete: su tutte quelle per il destino della figlia Marguerite che era entrata nelle file della resistenza e che sarebbe anche stata arrestata e torturata nel carcere di Rennes. Tra le incisioni della “Pasiphaé” ce n’è una meravigliosa e sottilmente agghiacciante con un profilo femminile che si inarca come per urlo muto. È immagine che fa memoria di un momento drammatico della vita di Matisse, quando la figlia, ancora bambina, venne sottoposta ad un’operazione di tracheotomia d’emergenza per evitare il soffocamento e lui dovette tenerla ferma mentre il chirurgo interveniva: «L’angoisse qui s’amasse en frappant sur ta gorge», è il verso che accompagna l’immagine. 

Matisse si concede la massima libertà nel concepire e realizzare i suoi libri. Adotta la tecnica che più gli sembra pertinente, allargando lo spettro del concetto di “libro d’arte” e spiazzando gli stessi bibliofili. Di volta in volta usa l’acquaforte, la litografia, la fotolitografia, la linoleografia (usata appunto per la “Pasiphaé: segni bianchi su fondo nero), la xilografia, sino al gran finale di “Jazz” dove gli originali realizzati con la tecnica del papier découpé sono riprodotti con la tecnica della stampa a “pochoir”. Nella messa a punto delle tecniche era assistito da Lydia Delectorskaya, l’insostituibile amante, modella, infermiera, segretaria che gli era stata al fianco nell’ultima stagione della sua vita (Lydia ha anche pubblicato le sue memorie, in un volume di lusso, carissimo, che purtroppo è circolato pochissimo, “Henri Matisse. Contre vents et marées”, 1996).

Matisse, da “Lettres Portougaises”

Il libro di Rogers Lalaurie ora finalmente permette di avere un quadro completo di questa cruciale stagione creativa di Matisse, che fino ad ora era rimasta ostaggio di un collezionismo poco propenso a credere e valorizzare una produzione, che in tanti casi è stata messa disordinatamente sul mercato, smembrando le singole immagini di Matisse. Peccato che lo sguardo resti uno sguardo di taglio antologico, perché mancano le necessarie vedute d’assieme dei singoli libri: poterli “sfogliare” visivamente anche in formato micro avrebbe restituito il ritmo che Matisse magistralmente conferiva ogni volta a queste sue creazioni. Aragon definisce le sequenze come “carambole”, dove ogni carambola riprende la situazione di quella precedente.

Il gran finale è con “Jazz”, il libro certamente più noto, che ebbe un immediato e straordinario successo. Matisse resta deluso dalla stampa che aveva finito con l’appiattire la fisicità dei papiers découpés. “Jazz” è un felice capolinea che spalanca a Matisse un orizzonte che lo portava oltre quella “paralisi” per la pittura di cui aveva scritto a Bonnard. “Jazz” apre infatti la stagione dei grandi papier découpés. Un nuovo capitolo della sua vita. Come lui scrisse a Rouveyre «una seconda vita, in un qualche paradiso».

Articolo pubblicato su Alias, il 24 gennaio 2021.

Per altre informazioni su Matisse e Lydia https://www.dailymail.co.uk/home/event/article-2590862/Henri-Matisse-Guns-Girls-Gestapo-The-wild-final-years-Henri-Matisse.html

Written by gfrangi

Gennaio 24th, 2021 at 3:14 pm

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Michelangelo in Duomo e altri pensieri domenicali

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C’è una ragione anche storica perché la Pietà Rondanini faccia tappa in Duomo, dopo San Vittore e prima della sua nuova sistemazione, all’Ospedale degli Spagnoli. Sarà posizionata, sempre che nessuno si metta di traverso, nel transetto destro davanti alla tomba di Gian Giacomo de’ Medici, detto il Medeghino. Figlio di un ramo minore dei Medici, si costruì con spregiudicatezza una straordinaria carriera politica e militare. Quando morì suo fratello che era diventato papa, Pio IV (loro sorella era invece la mamma di san Carlo, Margherita Medici di Marignano), aveva chiesto a Michelangelo, come racconta Vasari, di progettare la tomba da sistemare nel Duomo milanese. Michelangelo non riuscì a realizzare la commessa, ma in compenso avrebbe realizzato il disegno della tomba monumentale, a cui l’autore. Leone Leoni, si è attenuto. Quindi la presenza seppure per breve tempo, della Pietà, coeva al monumento del Medeghino, risarcisce in un certo senso per quella mancata realizzazione.


Vista la piccola, bella mostra in omaggio a Giulio Einaudi realizzata dal nipote Malcom nelle sale laterali di Palazzo Reale a Milano. Una sala è tappezzata da tutte le copertine dei Coralli, la collana di narrativa iniziata con Pavese nel 1947. 312 libri (non solo copertine) incorniciati e sistemati con grande ordine.
A parte la bellezza grafica che contrassegna senza cadute 40 anni di storia, è affascinante l’intuizione, dopo che l’inizio era stato affidato a un illustratore, di abbinare un’opera d’arte a ciascuno titolo. Con scelte a volte di grande ricercatezza: come il meraviglioso e millimetrico particolare preso dal quadro dei Proverbi di Brueghel per Il Coltello di pietra di José Revueltas (1948)

Bello l’estratto dall’introduzione del nuovo libro di Camille Paglia uscito negli Usa (Glittering Images: a Journay Throught Art from Egypt to Star Wars), di cui avevamo già letto un’intervista sul Corriere. Riporto: «Benché sia atea, rispetto tutte le religioni e le prendo seriamente, come vasti simboli che contengono una verità profonda sull’esistenza umana. Anche se nel suo nome si è fatto del male, la religione stata una forza enorme di civilizzazione nella storia del mondo. Schernire la religione è una cosa puerile, sintomatica di un’immaginazione rachitica. Eppure, questa posizione cinica è diventata di rigore nel mondo artistico, un ulteriore sintomo della banale superficialità di tanta arte contemporanea». Dall’altra parte «i conservatori a loro volta, hanno peccato contro la cultura. Nonostante i loro squilli di tromba per un ritorno dell’educazione al canone occidentale, si sono comportati come filistei di provincia rispetto alle arti visive».

Written by gfrangi

Gennaio 20th, 2013 at 3:29 pm