Robe da chiodi

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Andate a vedere Isgrò!

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È bellissima la mostra di Emilio Isgrò a Milano. Piena di vita e di libertà. Ne ho scritto su Alias domenica 26. Ecco l’articolo.

Può il gesto del nascondere, del sottrarre, del levare, del velare, in una parola del cancellare, coincidere con un atto d’amore? Da cinquant’anni Emilio Isgrò ripete, anzi rinnova quel segno e se il meccanismo non rivela affatto stanchezza, se quei vuoti creati continuano ad evocare dei pieni, la ragione è tutta in quell’amore, o quegli amori, candidamente confessati. L’ultimo (ma non certo nuovo) di questi amori è quello per Manzoni. Che Isgrò omaggia con l’ultima delle sue cancellature seriali, in occasione della grande mostra che si apre il prossimo 29 giugno a Palazzo Reale a Milano. In realtà l’installazione con le 35 copie dell’anastatica dell’edizione quarantana dei Promessi Sposi (stampata da Salerno editore), quella arricchita dalle illustrazioni di Francesco Gonin, sarà esposta a casa sua, cioè a Casa Manzoni. 35, ma sarebbe più corretto dire 25 più dieci, come dalla contabilità dei probabili lettori evocati all’inizio dei Promessi sposi (i dieci sono i monzesi convocati alle porte della città). Isgrò ha scelto altrettante pagine, senza riverenza verso capitoli “obbligatori”, ma senza neanche timore di concedersi ai luoghi comuni manzoniani (dice, rovesciando i termini: «Manzoni è uno scrittore di luoghi comuni: nel senso che sono comuni a tutti, fanno parte del vissuto»). Isgrò è poi sensibile alle coincidenze: Renzo entra a Milano proprio da Greco, dove lui ha casa e studio. E nel cuore del capitolo X scova un profetico «tutto è cancellato» (quello in realtà funesto del padre di Gertrude, che perdona le intemperanze della figlia in cambio del suo atto di obbedienza).

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Le pagine si spalancano come quinte teatrali, con tanto di apparato di scenografie, perché Isgrò lavora anche sulle illustrazioni di Gonin, riducendole ad ombre ritagliate, quasi fossero prese in controluce. Il copione consiste poi nel tracciato delle parole sopravvissute alle contrazioni del testo, e rese in questo modo cariche di una forza che porta ancor più nel cuore del testo. “Rimorso” – “morso” è il sigillo per la Monaca. “dio” – “io” – “Dio” è invece la fulminea sintesi della notte dell’Innominato. «Il segno focalizza la parola, oscurandola e illuminandola», scrive in catalogo Angelo Stella, presidente del Centro Manzoniano. «Una parola nota diventa nuova, si rigenera, cresce, esplode, continua la sua rivoluzione». «Cancellandola», conferma Isgrò, «mi sono accorto di come la scrittura manzoniana è quanto di più potente e sorgivo abbia offerto la nostra letteratura dopo Dante Alighieri. Giacché in Manzoni anche la cultura si fa natura». Le cancellature, operazioni che contengono una componente provocatoria e trasgressiva, dal sapore post dadaista, nascondendo il testo, finiscono con l’innescare una tensione drammaturgica nella pagina. «Le cancellature non sono tanto un vuoto da riempire», spiega Isgrò, «quanto una presenza, un pieno compatto, che sollecita e contemporaneamente rifiuta ogni proiezione da parte del lettore». Quel pieno compatto è anche un evento pittorico, perché l’alternanza di nero e di bianco, la matericità sempre variabile delle stesure, le velature, la geometria sussultoria delle griglie, tutto concorre a tener alta la qualità pittorica, qualità che trova il suo apice nel trattamento («sivigliano» lo definisce Isgrò) delle illustrazioni.

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Proseguendo a percorrerlo a ritroso il percorso immaginato da Isgrò e da Marco Bazzini, curatore della mostra (fino al 25 settembre; catalogo Electa) prevede un’altra tappa manzoniana alle Gallerie d’Italia a Piazza della Scala: qui è esposta, in uno spazio suggestivo e inedito, la cancellatura del ritratto di Hayez, la più celebre e nota immagine del grande scrittore milanese (“L’occhio di Alessandro Manzoni”, 2016). «Ho voluto imperniare la mostra attorno a questo omaggio a Manzoni per più motivi», racconta Isgrò. «Il primo è quello di un elementare omaggio alla città che mi ha accolto e nella quale dal lontano 1967 ho iniziato a esporre. In secondo luogo, da siciliano, mi ritrovo in questa visione pacatamente illuminista di Manzoni. Intellettuale che però non ha avuto timore di “sporcarsi le mani” e rivolgersi a un pubblico vasto e allargato, “popolare” nel senso migliore. Non bisogna dimenticare che per un intellettuale di quella stagione scegliere la forma del romanzo era un azzardo e una sfida, per rompere il guscio di forme espressive troppo accademiche e ingessate».

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A Palazzo Reale la mostra si spalanca con grande respiro e generosità. Ben 200 opere, che non prendono mai il tono filologico dell’antologica ma conservano quel sapore un po’ performativo della prima ora. Non manca Manzoni neanche qui, presente con un’opera storica, “I Promessi sposi non erano due” del 1967: per coincidenza lo stesso anno in cui anche Giovanni Testori proponeva un suo libero atto d’amore verso Manzoni, violando la gabbia narrativa in cui nei Promessi Sposi era stata prudentemente rinchiusa la Monaca di Monza (la regia teatrale fu di Luchino Visconti, con Lilla Brignone protagonista). Non a caso Testori stesso, che di Isgrò fu amico nonostante una chiara distanza di visioni artistiche, è al centro di una cancellatura del 2015 presente in mostra. Ma soprattutto a Testori Isgrò ha dedicato uno stupendo “antimonumento” in una delle nuove piazze di Milano, una cancellatura ispirata al Ponte della Ghisolfa. Anche in questo caso la contrazione del testo si rivela esattamente l’opposto di un nascondimento, cioé un vero svelamento: “dal ponte che i lampioni illuminavano… di tremore smisurato”. Una contrazione che restituisce la vera quintessenza del Testori dei Segreti di Milano.
L’opera dedicata allo scrittore milanese in mostra è inserita in una piccola sezione ribattezzata Trilogia dei censurati, insieme al ciclo dedicato a Pico della Mirandola (dal punto di vista formale uno dei picchi della produzione di Isgrò) e insieme al Curzio Malaparte del 2014.

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Questa sezione sottolinea un aspetto ovviamente strategico delle cancellature: quello di affermare l’idea della cultura come irriducibile fatto di libertà. E quindi di sfida concettuale e radicale ad ogni ipotesi di censura. «Le cancellature hanno altre funzioni», chiarisce Isgrò. «Servono a provocare un’assenza e a mettere in moto i meccanismi cerebrali del fruitore, che vorrà sempre sapere “cosa c’è sotto”». Quello che muove l’artista non è mai una condivisione contenutistica, stilistica o ideologica ma una simpatia umana verso ogni intellettuale che si metta in gioco. Questo spiega il suo vitalissimo trasversalismo che lo porta indifferentemente a sentirsi affine allo spirito dei poeti del Gruppo 63 come a quello nazional popolare di Manzoni. «La mia radice è concettuale», racconta, «ma mi sento lontano da quegli esempi di insopportabile freddezza di stampo anglosassone. Il mio, se è concettualismo, è sempre brulicante di vita. Cerco un’empatia con l’autore e anche con l’osservatore, non una semplice e fredda relazione mentale».

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Del resto come racconta nella bella e preziosa intervista a Luca Massimo Barbero in catalogo (preziosa per ricostruire la memoria della Milano tra anni 60 e 70), l‘origine delle cancellature è del tutto casuale non pianificata. «Amo raccontare una storiella: che l’idea delle cancellature mi sia venuta osservando nella redazione del “Gazzettino” un dattiloscritto di Giovanni Comisso zeppo di errori e correzioni. Un potente intrico dove le parole eliminate dal pennarello nero avevano più peso di quelle superstiti». Che sia vero o no l’aneddoto, Isgrò è onesto nel riconoscere i suoi debiti, e lo fa con una punta di elegante ironia che gli deriva dalla sua origine siciliana. Ed è proprio l’ironia la chiave che mantiene vitali e giovani i suoi lavori, che li mantiene sempre sorprendenti. Un’ironia che si abbatte sull’eccessiva sussieguosità con cui tanta arte concettuale si proponeva (“Biografia di uno scarafaggio», 1980); un’ironia gentile con cui racconta i miti di ogni stagione, quelli ideologici (il “Trittico della rivoluzione culturale”, 1979) o quelli commerciali (l’opera sulla Volkswagen, 1964: “Dio è un essere perfettissimo come una Volkswagen…”). Ma Isgrò è capace di piegare l’ironia alla tenerezza come accade nel semplicissimo e quasi disarmato “Jacqueline”, 1965. Una freccia inclinata verso il basso simboleggia Jackie Kennedy che “si china sul marito morente”. In questo caso la cancellatura coinvolge l’immagine eclissata dietro un rettangolo grigio. A conferma di quel che per Isgrò è un credo artistico e poetico: «Il potere reale della cancellatura, è nella capacità di aprire le porte del linguaggio, fingendo di chiuderle».

Written by gfrangi

Giugno 30th, 2016 at 5:49 pm

Un pomeriggio di meravigliosa Lombardia

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Prima tappa a Castiglione delle Stiviere, dove Emilio Isgrò ha portato il suo progetto dedicato a Pico della Mirandola. La mostra è ospitata nel palazzo Bondoni Pastorio, gestito con passione e competenza da Giulio Busi e da Simona Greco. Le cancellature su 23 leggii che si incontrano nelle sale del palazzo, raccontano di un ampiezza di sguardo, su tutte le voci del sacro che quando entra nella storia, si presenta con il suo passo ardente. Il segno di Isgrò, che lavora su un’edizione antica delle celebri Propositiones, insegue questo palesarsi di un oltre che brulica misterioso e prende voce e soprattutto lettera a degli uomini. Pico a Castiglione arriva non a caso. A parte che Busi è uno dei suoi massimi conoscitori, qui soggiornò sua sorella Caterina, che fu sposa, in seconde nozze a Rodolfo, capostipite dei Gonzaga di Castiglione. La mostra resta aperta sino al 9 novembre.
Castiglione è paese nobile. Che allunga elegante e composto le sue vie nel pieno della pianura lombarda. È paese gonzagesco, di un ramo cadetto della famiglia, da cui nacque però San Luigi, di cui qui si venera la testa… Quanti fili s’intrecciano tra strade e questi muri.

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Da Castiglione in pochi km siamo a Montichiari. Qui per vedere il piccolo museo nato dalla donazione dei conti Lechi. Anche qui paese ordinatissimo, capacità di valorizzazione del proprio patrimonio impeccabile. Il museo, a due passi dalla parrocchiale che custodisce la folle ultima cena di Romanino, con gli apostoli che tengono il tovagliolo sulla spalla e Giuda che compie quel gesto incomprensibile al capotavola (versa vino per terra?). Ma il colpo gobbo di Montichiari è quello di Ceruti, con la sua Filatrice, assoluto monumento di umanità. Uno di quei quadri che ti sembrano inimmaginabili, tanto sanno tenere insieme degli opposti: in questo caso la miseria e la monumentalità. Nudità di elementi che raccontano una vita fatta di niente e da questa ne traggono un’immagine di intensità grandiosa. Ad un certo punto guardo da vicino il grembiule che Ceruti dipinge con i buchi e le lacerazioni, e mi vien in mente Burri.

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Gran finale le otto di sera in piazza del Duomo a Cremona. Ultimo aperitivo dell’anno all’aperto… Sopra la facciata illuminata che ti sembra spettacolo troppo bello per esser vero. Peccato solo che le meravigliose statue di Marco Romano siano state lasciate in contro luce. Le porte naturalmente sono chiuse. Dentro si possono solo immaginare i sonni rissosi di Romanino e Pordenone…

Written by gfrangi

Ottobre 7th, 2014 at 8:17 am

Isgrò e la stupenda “cancellatura” per Testori

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È stata una sorpresa scoprire che nella grande piazza al centro dei tre edifici del Portello (ultimo, forte progetto firmato dal grande Gino Valle, lui che progettò la tomba di Pasolini…), c’è posto per una bellissima installazione dedicata a Testori. Siamo sul margine del lungo viadotto, che all’altro capo inizia proprio dal ponte della Ghisolfa. Quindi Testori qui ci sta bene. Ma l’installazione è qualcosa di più. È firmata da Emilio Isgrò e ha come titolo “Grande cancellatura per Giovanni Testori”: si allunga per una trentina di metri su un muro elegante ed obliquo che chiude a nord la grande spianata (in questo l’installazione ha una doppia funzione: quella ovviamente di cancellatura delle parole, ma anche di elemento che perimetra lo spazio). L’impressione visiva è di grande bellezza, con le righe lunghissime per la gran parte coperte del segno nero della cancellatura, e quell’inclinazione che dà slancio formale all’insieme. Sotto il nero le parole “vibrano”, anche se non le possiamo leggere, se non in piccola parte. Ma è appunto quella piccola parte che Isgrò ha lasciato emergere che fa scattare l’immaginazione su tutte le altre. Ci vien detto che si parla, là sotto, “del ponte che i lampioni illuminavano”; poi emergono due parole non consequenziali, che però si combinano in modo meraviglioso “di tremore smisurato”. E infine a chiudere l’allusione di un “altrove”.
È ben noto che il linguaggio espressivo di Isgrò non ha molto a che vedere con il linguaggio figurativo che Testori aveva amato e difeso a spada tratta in vita. Questo aumenta ancor di più la sorpresa, perché dimostra come gli schemi “uccidano” la memoria, mentre le “segrete intese” la fanno sussultare e la rendono viva. Isgrò si dimostra capace di toccare una corda che ci restituisce Testori meglio e più fedelmente di tante letture “testorianamente ortodosse”. Coglie quella dimensione di “tremore smisurato” che è la dimensione che fa sempre vibrare la scrittura di Testori, che ne descrive anche il profilo psicologico.
Isgrò con Testori aveva avuto rapporti ai tempi della nascita del Teatro Franco Parenti («alcune riunioni si erano tenute a casa mia», ci racconta); c’era stato anche un invito a pensare a una rappresentazione sacra per Gibellina; poi tra loro le relazioni si erano interrotte per una somma di incomprensioni, derivate soprattutto dalla svolta “cattolica” di Testori. Tuttavia nel 1980 Isgrò sul Giorno, dando conto di questa distanza che si era aperta, ne aveva già dato una lettura nient’affatto prevenuta e per certi versi sorprendente: «È ancora da stabilire se Testori… non appartenga a quella stirpe di profeti che hanno bisogno di guardare all’indietro per intravedere il presente e il futuro con una certa approssimazione». L’articolo del 25 gennaio 1980 è stato ripubblicato nel volume di scritti di Isgrò, Come difendersi dall’arte e dalla pioggia (Maretti, 2013).
Si può dire che nel senso di amicizia e anche di magnanimità di quelle vecchie parole, stesse già germinando la bellissima installazione che sabato 14 giugno (alle ore 12) verrà inaugurata al Portello, insieme alla piazza intitolata proprio a Gino Valle. Come mi suggerisce Isgrò, dovrà essere l’occasione di una «grande festa per Milano e per Testori».

Written by gfrangi

Giugno 10th, 2014 at 1:29 pm