Robe da chiodi

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Musei, per chi tutto questo?

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Quante volte entrando in un museo mi assalga la domanda: “ma per chi tutto questo?”. È una domanda che prende sfumature diverse se mi trovo come spesso capita di trovarmi in musei semivuoti, oppure in musei presi d’assalto perché appartenenti alle rotte maggiori. Ma la domanda resta: per chi, se un museo non ha un pubblico; per chi, se ha un pubblico completamente inebetito dalla parole d’ordine della cultura di massa.
Per cui quando mi capita di vedere qualcosa che si muove nella direzione di prendersi cura della questione del pubblico (chi viene, perché ci viene, cosa gli resta una volta che se ne è andato), resto sempre molto colpito. Perché si capisce che l’impresa non è impossibile.
In questi giorni mi sono capitati tre casi che mi sembra molto interessanti. Il primo, di grandi dimensioni, riguarda le linee di indirizzo che il nuovo direttore del Louvre, Jean-Luc Martinez ha voluto dare al museo. Lo slogan, a pensarci, è da saltare sulla sedia: “Non preoccuparsi di avere più pubblico, ma pensare di più al pubblico”. Quindi agevolare comprensione e conoscenza (ne ho fatto un pezzo uscito su Panorama questa settimana).
Gli altri due casi sono di portata più ridotta ma per me non meno significativi, in quanto a impegno e scelta di priorità. A Brera è iniziato il secondo Ciclo di percorsi sperimentali dedicati agli immigrati (curati da Emanuela Daffra e Paola Strada). Brera un’altra storia è un progetto affidato a otto mediatori di altrettante comunità straniere che condurranno il pubblico attraverso una lettura che porta scoprire «nuovi significati e chiavi di lettura inedite, sino a trovare segni di contaminazione e reciproco influsso figurativo». Ho sempre in mente nella prima edizione la lettura che la mediatrice filippina faceva del Portarolo di Ceruti (donato da Testori), riportandolo a memoria di venditori di uova di quando era ragazza, al suo paese. Una lettura che arrivava davvero molto vicina alla verità di quell’immagine di Ceruti.
Il secondo caso viene ancora una volta da Torino, Palazzo Madama, dove Enrica Pagella, in occasione dell’ospitalità della Sacra Famiglia di Raffaello arrivata dall’Ermitage, ha varato un format nuovo di coinvolgimento del pubblico: Art speed date, in cui lei stessa per 15/20 minuti racconta il quadro, con l’accortezza di sottolineare cosa porta un’immagine di Raffaello alle persone di oggi, e poi risponde alla domande di chi ha partecipato nel bellissimo Caffè di Palazzo Madama. L’iniziativa ripetuta più volte ha fatto sempre il tutto esaurito, con tante richieste inevase.
A Palazzo Madama poi continua a crescere l’esperienza di Madama Knit, le signore che il sabato vengono a lavorare a maglia nelle sale del museo e che per Natale hanno realizzato i grandi stendardi che hanno composto la parola Felicitas appese alle merlate del palazzo (seguendo il modello della parola composta da Juvarra).
Una conclusione: la forza di queste “incursioni” sta nel restituire al museo una dimensione di luogo in cui si sta bene, in cui ci si sente a casa (e che quindi si sente come proprio: “patrimonio” in senso non formale). Il che mi sembra la premessa per qualsiasi percorso di conoscenza e di comprensione.

Written by gfrangi

Gennaio 19th, 2014 at 3:37 pm

Fare mostre in tempo di crisi

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È stato utile lo scambio di vedute promosso dall’assessorato alla Cultura di Milano di Stefano Boeri sull’organizzazione delle mostre in tempo di crisi. Il “modello Bramantino”, mostra a budget basso, con ridotto spostamento di opere, ingresso gratuito e quindi grandissima fruizione da parte del pubblico ha rappresentato una novità che meritava di essere approfondita insieme a tutti gli operatori, in particolare quelli privati. Per la cronaca rimando ai tweet di Giulia Zanichelli (@giuzan, 19 ottobre)). C’è un punto sollevato da Enrica Pagella, direttrice di Palazzo Madama a Torino, che mi sembra “il punto” oggi da affrontare: cioè quello del pubblico. Ha detto Pagella che c’ è un «dovere imperativo di incontrare la domanda del pubblico», che non vuole dire assecondarla «ma farsi attraversare dalla domanda». Bellissima indicazione, soprattuttto perché viene da un funzionario pubblico che potrebbe starsene al riparo (non è un caso che Pagella sia stata nominata direttore dell’anno 2012). Farsi attraversare vuol dire indagarla, conoscerla e saperla interpretare provando a fornire così delle risposte che rappresentino anche un salto di qualità rispetto alla domanda stessa. Mi sembra una formula molto chiara e coraggiosa, che costringe ad uscire dall’angolo “sicuro” dello specialismo, obbliga a immaginare soluzioni nuove e coraggiose che stimolino il pubblcio ad un percorso di crescita e consapevolezza. I numeri del sistema torinese dicono che il coraggio viene ampiamente premiato
Ci si può chiedere in che senso la mostra di Bramantino abbia seguito questa logica. A me pare che un elemento vincente sia stato quello di aver saputo incrociare un artista di mezzo millennio fa con una sensibilità e uno sguardo contemporanei. Cioè di aver fatto un grande sforzo per far salire interesse e curiosità verso un autore che poteva essere soprattutto materia per specialisti, facendo leva su alcuni fattori che erano costitutivi della sua identità artistica, in primis la straordinaria bizzarria iconografica ben sintetizzata dall’immagine del manifesto con il rospo/demonio di scorcio a pancia in su. La stessa piena visibilità restituita agli arazzi nella Sala della Balla andava nella direzione di risucchiare lo sguardo dei visitatori verso la miriadi di particolari fantastici e fuori da ogni canone (la donna con il burka nella misteriosa scena che rappresenta il mese di febbraio è un po’ l’emblema), e quindi di far salire interesse e fascinazione per Bramantino.
Cosa significa questo? Che forse bisogna avere il coraggio e l’energia intellettuale per trovare, concependo mostre su artisti del passato (ma non solo quelle), un punto di incrocio con l’oggi. Il che non vuol dire trovare scorciatoie che accostino opere antiche con opere moderne… Ricorderò sempre come nell’introduzione al Caravaggio 1951 fosse questa la tensione sottesa al lavoro di Roberto Longhi. Tant’è che la sua lettura di Caravaggio insisteva poprio su questa capacità di riportare tutto al suo “oggi” (sottolineato con i corsivi nel testo…). Poi era stato quasi automatico, data la grandezza del personaggio, che l’oggi di Caravaggio si riversasse a piene mani sull’“oggi” di chi si metteva in coda a vedere quella mostra.

Written by gfrangi

Ottobre 22nd, 2012 at 9:25 am