Robe da chiodi

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1961, ovvero l’anno zero di Gerhard Richter

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Marzo 1961. Gerhard Richter aiutato da un amico sale su un treno della S-Bahn, la rete urbana di Berlino, e passa ad Ovest insieme a Marianne Eufinger, familiarmente Ema, la donna con cui si è sposato nel 1957. Non è una scelta dettata da ragioni politiche ma da un istinto artistico: nel 1959 visitando Documenta a Kassel aveva avuto la chiara percezione che solo in un contesto così avrebbe trovato stimoli per dire qualcosa di nuovo con la pittura. A Est aveva raccolto ottimi riconoscimenti, ma quella per lui era ormai una strada morta. Ad agosto di quell’anno veniva alzato il muro di Berlino: le porte alle spalle gli si chiudevano in ogni senso. Non sarebbe più tornato nella sua Dresda fino al 1986. 

L’alter ego di Richter, protagonista di “Opera senza autore”

Richter arriva in Germania Ovest e si costringe ad azzerare tutto: tra le accademie possibili sceglie quella di Düsseldorf, la più viva ma anche la più lontana da ciò che fino a quel punto lui era stato. Proprio in quel 1961 Josef Beuys prendeva la cattedra di Monumental Sculpture. Richter viene iscritto prima alla classe di Ferdinand Macketanz e poi a quella di Otto Götz. Sono anni cruciali e anche drammatici per quello che oggi viene definito il più grande tra gli artisti viventi. Anni che sono diventati anche soggetto di un film, “Opera senza autore”, uscito nel 2018 e arrivato da poco sia su RaiPlay che su Amazon Prime. Il regista è Florian Henckel von Donnersmarck, lo stesso che con “Le vite degli altri” nel 2007 aveva vinto il premio Oscar per il miglior film straniero. Nel frattempo è uscito un volume monumentale su Richter, edito da Prestel e curato da uno storico dell’arte tedesco, Armin Zweite (“Gerhard Richter. Life and Work”, 2020, 95 euro, 480 pagine), dove proprio ai primi anni di Düsseldorf viene dedicata un’attenzione particolare. 

Quando Richter si iscrive in Accademia ha quasi 30 anni, per vivere è costretto a fare lavoretti e a ricorrere all’aiuto del suocero, Heinrich Eufinger, ginecologo, un personaggio il cui passato, pesantemente coinvolto con il nazismo, non era noto all’artista: è proprio questo il tema al centro del film, girato a partire dalle rivelazioni contenute in una biografia non autorizzata di Richter uscita nel 2005, scritta da un giornalista tedesco, Jürgen Schreiber (la si può leggere in traduzione francese, edizioni Les presses du réel).

Gerhard Richer, “Tisch”, 1962 (opera n. 1 del Catalogo ragionato)

La determinazione con cui Richter affronta questo azzeramento è feroce. Non vuole concedere nulla a ciò che fin lì era stato. Armin Zweite nel libro parla di un “periodo di riorientamento”, in dialogo con compagni di corso che avrebbero segnato la sua storia, Sigmar Polke su tutti. In realtà dalle sue testimonianze e dai suoi scritti il “turning point” risulta segnato da una forte inquietudine. «Esistere significa quotidianamente lottare per la forma e la sopravvivenza», annotava nel 1962. La lotta nel suo caso era quella di non cedere al virtuosismo pittorico di cui aveva pur dato notevole prova negli anni che ora aveva cancellato dalla sua vita. «Odio lo stupore della capacità», scriveva sempre in quegli anni. «È troppo facile lasciarsi distrarre dall’abilità manuale e dimenticare invece l’immagine». Proprio l’immagine, la più casuale e banale, si presenta come il punto di svolta. Nel libro di Zweite questo passaggio è documentato con molta precisione. “Table” (1962), il quadro a cui Richter nella sua precisione catalogatoria assegna il numero “1”, è ispirato da una pagina di “Domus” con la foto di un tavolo allungabile disegnato da Ignazio Gardella. Del tavolo resta solo il piano bianco, che prende tutta la larghezza della tela e lievita nello spazio; l’aspetto è quello di un monolite “bombardato” da una cancellatura di pittura selvaggia. Istintivamente vi si può vedere il segno di quella lotta a cui lo stesso Richter faceva riferimento. A posteriori l’impressione è quella di una genesi, di un parto avvenuto: un nuovo inizio al quale conferire tutti i crismi dell’ufficialità con quel numero “1”. È l’avvio di una sequenza straordinaria di quadri realizzati a partire da semplici foto amatoriali o prese da giornali. La pittura è chiamata ad obbedire ad un già esistente, a sgravarsi da ogni soggettività. «In pittura, pensare è dipingere», «i miei quadri sono più intelligenti di me»: sono due sentenze che ricorrono spesso negli scritti e nelle interviste di Richter e che riescono a rendere l’idea di quel varco che gli si era aperto davanti, proprio in virtù di questa pratica da nuovo amanuense. In realtà nello spazio reso così sottile alla fine fa breccia potentemente la storia.

Gerhard Richter, “Aunt Marianne”, 1965

La vicenda di “Aunt Marianne” (1965) è emblematica. L’opera prende spunto da una foto di famiglia scattata in occasione di una festa, nel giugno 1932. Si riconosce la zia Marianne, sorella di sua madre, che tiene in braccio il piccolo Gerhard, di appena 4 mesi. Proprio la vicenda di Marianne è al centro della biografia non autorizzata (ma molto avvincente) di Jürgen Schreiber. La ragazza, che allora aveva 14 anni, era affetta da crisi di schizofrenia ed era finita negli ingranaggi della tragica macchina messa in atto dai nazisti per la purificazione della razza ariana, prima attraverso la sterilizzazione e poi con vere eliminazioni di massa. Marianne venne costretta a ricoveri forzati per lunghi anni in ospedali psichiatrici, in condizioni spesso terribili. Nell’ultimo, quello di Arnsdorf, aveva trovato la morte il 16 febbraio 1945 (quell’anno morirono il 67% dei pazienti dell’ospedale): ma proprio ad Arnsdorf lavorava in posizione di responsabilità Heinrich Eufinger, il futuro suocero di Richter, ginecologo, tristemente specializzato nella pratica delle sterilizzazioni. L’artista era totalmente all’oscuro di questa tragica coincidenza, anche perché Eufinger dopo la guerra si era abilmente riciclato, salvando la moglie del comandante russo del campo di Mühlberg, a rischio di vita per un parto ad alto rischio. Aveva avuto nuova carta d’identità e si era trasferito ad Ovest. Marianne e la sua vicenda avevano lasciato un segno profondo in Richter, tanto da immaginare il quadro come una maternità. “Mutter und Kind”: con questo titolo venne infatti presentato nel Padiglione Tedesco alla Biennale di Venezia del 1972.

Foto del 1932 con la zia Marianne e il piccolo Gherard

Tra 1963 e 1966 Richter continua a lavorare sui “photo-paintings”; si riconosce nella definizione di artista pop, segue con interesse gli sviluppi di Fluxus, espone con Polke, Lueg e Kuttner in un negozio abbandonato di Düsseldorf, con una mostra in stile neo dada, presentandosi loro stessi come opere d’arte. La pittura è il cuore del suo lavoro, ma, come sottolinea Armin Zweite, per lui è qualcosa concettualmente molto vicino ad un “ready made”. In realtà iniziano ad accorgersi di lui amanti della pittura; e tra i più solerti ci fu Giovanni Testori. Tra le carte dello scrittore, in corso di archiviazione a cura di Davide Dall’Ombra, è stato trovato un piccolo dossier del 1968 con un elenco di opere di Richter, e relative fotografie, sulle quali Testori aveva messo gli occhi.  Quasi tutte venivano dalla galleria Heiner Friedrich di Monaco, che in quegli anni stava promuovendo la nuova arte tedesca e dove Richter aveva nel 1966 esposto i suoi “Farbtafeln”, semplici campionari di colori, a ribadire l’eterogeneità delle sue strategia artistiche. Nel dossier arrivato a Testori erano indicati i prezzi, davvero inimmaginabili rispetto alle quotazioni di oggi: i valori non superavano i 3.500 marchi, che equivalevano a circa 600mila lire. Nonostante lo scrittore avesse messo le crocette sulle opere scelte e conteggiato anche i costi di trasporto, per motivi che non conosciamo l’acquisto non andò in porto. Ma è un episodio indicativo di un reciproco trasversalismo, di cui non ci resta che immaginare i possibili affascinanti esiti.

La ricevuta con i prezzi dei quadri di Richter ritrovata nell’Archivio Testori

Articolo pubblicato da Alias, 18 luglio 2020

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Luglio 20th, 2020 at 2:13 pm

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Appunti da un viaggio americano/1. L’immaterialità dell’arte

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(Sempre per l’idea di ragionare sulle cose viste)
(È stato un viaggio intenso, reso possibile da una sorella volante)

Primo giorno. Collezione Barnes
Ne ho già scritto qui. La collezione è davvero impressionante, per numeri e qualità. È curiosa questa commistione tutta americana tra grandi opere provenienti dall’Europa e ferri battuti appesi alle pareti. Pur nella raffinatezza delle scelte prevale sempre la concretezza di una cultura da “art and craft”. Colpisce la preferenza anomala (e precoce) per un artista come Chaïm Soutine di cui Barnes compra nel 1922 15 opere: un acquisto che aveva cambiato la vita di Soutine, mettendo fine alla stagione della miseria nera.

Dia Beacon, una delle installazioni di Richard Serra

Secondo giorno. Dia Beacon
Cavalcata alla Dia Beacon Foundation. Spazi immensi per autori che non si pongono confini. Cura nei dettagli, come viatico per entrare in quella dimensione di esattezza che per questi artisti è come una caratteristica che qualifica l’infinito: non è mai nulla di vago (parcheggio e giardino sono stati progettati –o meglio pensati- da Robert Irwin). L’ingresso dei 20mila metri quadri di capannoni già della Nabisco, è tutto per Walter De Maria: aste esagonali bianche (legno laccato) distese su immensi tessuti rossi, con un ritmo che lega dentro una logica senza sbavature.
Con i suoi immensi specchi grigi a dittico, ciascuno orientato diversamente grazie a complesse strutture che li reggono, Gerhard Richter fa l’americano e gli riesce benissimo: superfici assolute, verticali. Ma quella di Richter è una vertigine tenuta sempre sotto controllo, per una autorevolezza stilistica. Non così Michael Heizer, i cui quattro punti cardinali, immense voragini, dalle forme rigidamente geometriche, aperte nei pavimenti dei capannoni: risucchiano nel loro vuoto (sono profonde sei metri) e sono per questo isolate da una barriera protettiva. Installazione potentissima, che dimostra come l’infinito sia una proiezione che non risparmia nessuna dimensione. Con Richard Serra si entra in un orizzonte di immensità fisica con le sue “Torqued Ellipses”: occupano lo spazio sotto il pano del capannone, con la loro energia primitiva e insieme quel senso di squilibrio e di instabilità di questi manufatti senza apparenti punti d’appoggio.
Una notazione per Dan Flavin. La sua teoria di neon bianchi quasi a disegno gotico è esposta in un lunghissimo ambiente finestrato (appena schermato da una geometria di vetri opachi progettato da Irwin). Risultato: Dan Flavin è luce su luce. Non è teatro di luce nel buio. Stessa situazione nella casa di Donald Judd. La grande installazione progettata per la stanza da letto corre parallela alla sfilata di finestroni che si affacciano su Soho.
È arte che incanala le sensazioni verso un unico obiettivo, liberandosi da tutte le possibili interferenze. Arte depurata a priori, che quindi nel fare non contempla la possibilità di incertezze. Arte che porta la ricerca sempre sul confine della filosofia. Impressiona la coerenza dell’insieme, pur nella diversità dei linguaggi. Si muovono tutti su territori condivisi, dove ogni riferimento a fisicità o oggettualità è stato espunto. C’è ansia di assoluto, e per agguantarlo la strada è quella di liberarsi dal condizionamento delle cose per stare sul piano della immaterialità dei pensieri.

Dettaglio dell’installazione con gli specchi di Gerhard Richter

I grandi buchi dell’installazione North, East, South, West di Michael Heizer

Camminando tra le Torqued Ellipses di Richard Serra

Written by gfrangi

Luglio 17th, 2018 at 10:27 pm

Tre pensieri a proposito di Maria

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Ci sono giorni in cui sembra davvero di non riuscire a star dietro alle cose belle e interessanti che ti capitano davanti. Ti verrebbe voglia di approfondire, di ragionarci di più…
Riassumo tre spunti, che hanno un filo conduttore: Maria (visto che siamo nel suo mese).

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Questa “tavoletta graffita Madonna” di Lucio Fontana, del 1934 va all’asta settimana prossima a Milano da Sotheby’s. È una cosa piccola, senza pretese, molto delicata e semplice. Si scorge una devozione istintiva in questo sovrapporsi di azzurre aree velate. C’è anche una memoria formale della Madonna della Misericordia, nell’allargarsi della massa verso la base: come il senso grafico di un abbraccio. Difficile per un pittore moderno riprendere il tema iconografico più diffuso della storia. Sono davvero rari i casi degni di nota (Matisse, of course, Nolde, le simil Madonne di Andy Warhol…; mi piace ricordare la Madonna a 36gradi “corporei” di Alberto Garutti; poi Pignatelli, Piccoli. E anche una cosa magica di Sigmar Polke).
Ps: Mi sono dato una ragione di questa difficoltà. Maria obbliga alla semplicità, al non intellettualismo. Esige di essere almeno un po’ gente di popolo. Fontana questo lo ha nelle sue corde…

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A proposito di Madonna, alla Beyeler apre la mostra di Richter curata da Obrist. Ci sarà la replica dall’Annunciazione di Tiziano. Non avevo colto che le varianti su quel soggetto fossero ben cinque, e tutte indirizzata verso una precisa direzione, quella di enfatizzare il buco di luce centrale, assimilando il bagliore atmosferico con quello misterioso che scende dal cielo. Così la versione 4 (nella foto), presente a Basilea, perde le figure che restano solo come impronte cromatiche e lascia che sia proprio la luce a plasmare la pittura. Forse è la versione più bella, perché porta il Tiziano del 1540 là dove sarebbe arrivato (l’inarrivabile) Tiziano del 1565 di San Salvador.

Sempre a proposito di Maria. Leggendo il piccolo libro (stupendo, assolutamente da non farsi scappare; Emi, 11,90 euro) che raccoglie alcuni testi del Papa sui Gesuiti e su Sant’Ignazio, sono incappato in questa riflessione iconografica di Bergoglio. È Ignazio, dice, a introdurre il concetto “figurativo” di pietà, per cui le Madonne della Misericordia nel XVI vengono sostituite dalle Pietà. Le sue parole (di Bergoglio): «Nel convulso secolo XVI, la Pietà è la madre con il figlio straziato e morto in braccio, fiduciosa che in quello strazio c’è la resurrezione. Questa speranza, culmine della teologia ignaziana del peccato (e anche del peccato dei gesuiti) manca alla concezione luterana dell’angoscia, non potrà mai fare altro che mancarle, non è una promessa nel suo orizzonte. La Pietà è un’espressione della rivoluzione dell’affetto con cui Dio ha voluto salvare l’uomo».
Buona domenica.

Written by gfrangi

Maggio 18th, 2014 at 7:35 am

L’occhio di Richter sul Duomo

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Torna in asta questo straordinario quadro di Gherard Richter Domplatz, Mailand. È un quadro importante nel percorso di Richter: lo realizzò su commissione di Siemens Elettra quando la casa tedesca aveva aperto i suoi uffici milanesi nel 1968. Restò a Milano per 30 anni, poi venne messo all’asta nel 1998 e acquisito per poco più di 3 milioni di euro, dalla famiglia Pritzker che lo ha tenuto esposto in uno degli alberghi di loro proprietà, il Park Hyatt Hotel a Chicago e che ora hanno deciso di rimetterlo sul mercato, il 3 maggio da Sotheby’s a New York. Non fosse per il prezzo spaventoso che con ogni probabilità spunterà (la stima è tra i 30 e 40 milioni di dollari: per i Pritzker è stato un buon affare), sarebbe un quadro da avere in museo a Milano…

Gerhard Richter, Maiand, Dom, 1962

Gerhard Richter, Maiand, Dom, 1962

Il quadro è importante storicamente, perché è la tela di maggiori dimensioni (275 x 290 cm) tra le photo-painting di quella stagione da “German Pop Artist”. Quattro anni prima Richter aveva dipinto un’altra photo painting, questa volta con la facciata del Duomo, una tela di 130 per 130 cm.
È interessante questa attrazione da tedesco per l’unica cattedrale tedesca dell’architettura italiana: in particolare quello del 1962 esprime una visione fiammeggiante della facciata, come in fuga verso l’alto, contravvenendo a quella dimensione di “gotico per il largo” che caratterizza il Duomo milanese.
Ma ciò che unisce le due tele è quel tono da immagini post belliche: non c’è niente di quieto nell’eleganza della composizione. C’è l’avvisaglia di qualcosa di cupo, in quell’infilata di palazzi di Corso Vittorio Emanuele, o nella facciata della Cattedrale tagliata, quasi “mutilata” per due terzi. Sotto l’apparenza di self control che contrassegna la sua pittura, Richter lascia scorrere visioni e pensieri inquieti. Qui sta il suo fascino e forse la sua grandezza.

Pensavo a queste immagini mentre ieri parlavo del Duomo in un incontro pubblico. Pensavo che davvero quest’inquietudine e questa cupezza è una chiave per capirlo e non cadere nella retorica un po’ beghina della bella, grande, giusta cattedrale. Nel Duomo c’è qualcosa di oscuro, di ansioso, che è proprio del gotico, ma che va oltre il gotico stesso. Mi pare un gotico contro natura: a partire dal fatto che è un gotico fuori posto (che ci fa qui, a sud delle Alpi?); un gotico il cui slancio è sempre destinato a tornare a terra (dice in fondo questo la poesia di Rebora). Quando vi si entra, la sensazione è di entrare in una caverna, con i pilastri in funzione di stalattiti; nel Duomo più che entrare sembra di sprofondare. Ha scritto Doninelli in Cattedrali che il Duomo è come una “roccia chiusa”.

Written by gfrangi

Aprile 6th, 2013 at 11:19 am

Le dieci mostre da ricordare dell’anno che se n’è andato

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Premessa: Sono dieci mostre che ho visto. Quindi è una classifica fortemente parziale, da cui sono escluse rassegne sicuramente straordinarie come gli Stein a Parigi, De Kooning a New York e la sorpresa Ostalgia di Massimilano Gioni sempre a New York).

Gerhard Richter fotografato da Anton Corbjin

1. Gerhard Richter alla Tate. Una mostra che non si dimentica, esteticamente e moralmente altissima. Ne ho scritto qui.
2. Modigliani scultore al Mart. Un allestimento esemplare, che ha esaltato, contestualizzandola, l’eleganza esagerata delle pietre.
3. Tancredi a Feltre. Occasione centrata per una riscoperta di un grande inquieto capace di grande leggerezza.
4. Leonardo alla National. Per i prestiti ottenuti e perché le due Vergini delle rocce non erano mai state insieme. Per il resto molte riserve.
5. Le Madonne vestite a Sondrio. Vera sorpresa di fine anno. Una mostra che fa leva su un lungo lavoro di ricerca, che ha incrociato storia dell’arte, storia dei materiali e antropologia.
6. Pipillotti Rist per Fondazione Trussardi al Cinema Manzoni di Milano. Su di lei potrei avere qualche riserva, perché il suo mondo è immobile da 15 anni. Ma la qualità e l’impatto dell’operazione è di grande livello.
7. La Transavanguardia a Palazzo Reale di Milano. Una mostra che pensavamo nata morta (come l’analoga celebrativa per l’Arte Povera) invece mi ha preso in contropiede. Con una zampata il vecchio Abo ha dimostrato tutta la vitalità, in parte ancora operante (vedi sala finale di Cucchi), di quel movimento.
8. L’allestimento di Punta della Dogana a Venezia. In un certo senso era un appuntamento scontato. Di spettacolare e abile sistemazione di tante cose già viste: ma Cattelan nella stanza spoglia guadagna in drammaticità. Invece le sorprese non sono mancate:la Sturtevant con la corsa infinita del suo cane, la grinta di Thomas Schütte, la delicatezza piena di nostalgia di Chen Zen, le sorprese di Tatiana Trouvé e dell’etiope Julie Merethu. Poi al suo posto c’era sempre il grande ciclo di Sigmar Polke.
9. L’arte russa al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Ovvero quel senso epico che l’arte del Novecento non ha mai sperimentato. Una mostra pulita e ben fatta, che rende la coralità senza indugiare troppo sulle individualità.
10. Andrea Mastrovito a Casa Testori. Segnalazione in palese conflitto di interesse. Ma non credo di sbagliare: per ambizione, passione, coraggio la prova dio Matrovito (32 anni) nelle 20 stanze della casa è stata una grande prova.

Written by gfrangi

Gennaio 2nd, 2012 at 9:30 am

C’è un pensiero duchampiano nella pittura di Richter

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Mentre è in corso la mostra alla Tate Gallery, la galleria Marian Goodman di Parigi sta esponendo gli ultimi lavori di Gerhard Richter. il catalogo contiene un saggio di Benjamin H.D. Buchloh. Da cui ho ricavato questo spunto, che mi sembra particolarmente allineato alle frontiere che Richter in questi tempi sta frequentando (il corsivo nel testo è mio). Nell’immagine: 6 Standing Glass Panes, in mostra a Parigi.

«Con questi nuovi dipinti, Richter si interroga sul modo in cui la credibilità della pittura può essere conservata di fronte al recente sviluppo della tecnologia dei media e cultura digitale. Lo statuto della pittura è molto fragile, e per quanto sia stato potentemente formulato nella sua assimilazione con le sfide tecnologiche, la pittura appare nuovamente indebolita nel rapporto con innovazioni tecnologiche. Tuttavia, applicando la strategia duchampiana per riunire tecnologia avanzata e pensiero critico sulla pittura, le opere sorprendenti di Gerhard Richter aprono un nuovo orizzonte di domande. Potrebbero riguardare la funzione attuale di ogni progetto pittorico che non vuole fare passi indietro in rapporto alla pittura del passato, ma che vuole confrontarsi con la distruzione della esperienza pittorica attraverso la pratica stessa della pittura, in contrapposizione radicale alle tendenze totalizzanti della tecnologia, e come atto palese di denuncia della perdita subita dalla pittura, quando si mette sotto l’egida della cultura digitale».

Il link alla mostra parigina
Una bella galleria fotografica della mostra

La grandezza senza retorica di Richter

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«We were playing with fire to see how far one could take the destruction of art». Oggi inaugura la mostra molto attesa di Gerhard Richter alla Tate di Londra. Mostra dal titolo molto richteriano: Panorama. La frase che riporto è tratta da un’intervista che l’artista aveva rilasciato a Obrist su Frieze nel lontano 1993. È una dichiarazione che mi ha impressionato perché sintetizza in modo chiaro e perentorio il rischio che l’arte sta prendendosi oggi; un rischio in cui è riposto anche, paradossalmente, il suo senso. Se mettiamo in rapporto la dichiarazione con il suo autore si capisce come dietro la calma e il controllo che sembra tener fuori la sua pittura dal marasma del contemporaneo in realtà sia una riflessione estrema sul senso e sullo spazio dell’arte. L’ordine, il self control, la parabola quasi classica di Richter alla luce di quella frase mi sembra assumano una profondità che non avevo colto prima d’ora. Anche il suo elegante eclettismo che lo porta a transitare dalla figurazione all’astrazione, dalla fotografia all’impulsività controllata di una pittura gestuale diventano un po’ come la danza di un acrobata sul ciglio di un burrone, che individua con scioltezza e con rapidità di presa tutti gli appigli che gli garantiscono di non cadere. Io amo molto Richter, lo considero capace di una grandezza che forse oggi non ha uguali. Amo il suo procedere sempre così lucidamente logico. Questa sua capacità di restare immune da ogni retorica. Questa sua riservatezza borghese, che tiene la biografia al riparo dai rischi che l’artista pur si prende.
Ma soprattutto capisco che Richter è uno di quegli artisti, sempre molto rari, su cui converge il senso di un’intera epoca. Non geni che spalancano nuove stagioni, ma grandi che raccolgono chi è in rotta e si costringono a dare un ordine credibile alle cose. Cézanne aveva fatto un po’ così, il genio più inconsapevolmente lucido della storia dell’arte moderna.
Nella foto, Mother and child, olio su tela, 1995
Il sito della mostra alla Tate
Il sito di Richter con tutte le sue opere

Written by gfrangi

Ottobre 6th, 2011 at 7:26 pm

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L’Apparizione di Polke

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È morto Sigmar Polke ad appena 69 anni. È un artista difficile da classificare. Di lui ricordo due visioni veneziane. Una alla Biennale 1999, la prima di Szeeman, in cui aveva esposto una sola enorme tela dal titolo Apparizione di Maria. Tela pixelata e delicatissima, che tgeneva con il fiato sospeso in quel suo lasciar appena affiorare l’immagine (vedi sotto). Quest’anno invece alla Punta della Dogana era suo l’ambiente più potente: grandi teloni traslucidi, come pellicole tese e impalpabili che davano una sorta di enigmatica solennità allo spazio. Polke con Richter ha rappresentato la risposta dell’Europa alla pop art americana. Ha riproposto la complessità laddove gli Stati Uniti spianavano la strada all’elementarità. In una lettera del 1963 in cui Richter presentava a un gallerista il lavoro suo e di Polke rivendicava lo spazio e l’identità di “una pop art tedesca”.

Se in Richter si coglie un’ambizione di classicità, quasi di strutturazione dell’arte pur senza negare l’avvenuta rottura di tutti i codici, Polke invece sviluppa un’arte fatta di esperienze sensoriali, di illuminazioni più che di costruzioni. Scrive Richter che «Polke ritiene che deve esserci qualcosa nella pittura, perché la maggior parte dei malati di mente inizia a dipingere spontaneamente». È il punto di squilibrio che sviluppa una pervasività creativa. Se coscienza c’è (e Polke senz’altro ne aveva) è coscienza psichedelica. Quella grande tela della Biennale del 1999 in fondo è la metafora: l’arte è come un’apparizione, offre sempre visioni che non t’aspetti. Vi riporto questa frase dal testo che Polke aveva scritto per quella Biennale: «Spero di aver contribuito, con i miei ragionamenti, a far sì che nel nostro tempo, privato di ogni immaginazione da ottusi iconoclasti, possa ridestarsi qualcosa dell’antica iconodulia».

Written by gfrangi

Giugno 22nd, 2010 at 7:52 am

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Bilanci del decennio, il via alle danze

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Il Guardian, nella sua sezione Art, affida ad Adrian Serle un primo bilancio dei dieci anni che ci stiamo per lasciare alle spalle. DÈ un bilancio molto ossequioso verso i valori consacrati dal mercato e dalla grande macchina del sistema artistico. Quindi sostanzialemnete con poche sorprese. Del resto l’articolo sottolinea come il 2000 sia stato l’anno dell’inaugurazione della Tate Modern, che ha fatto di Londra il nuovo baricentro dell’arte mondiale. Non è un caso che l’articolo sia corredato con l’immagine dell’impressionante installazione di Olafur Eliasson alla Turbin Hall della Tate: una colossale installazione in trionfante stile new age. Più saggiamente tra le opere del decennio viene eletto un quadro unico di Gerhard Richter, dedicato all’11 settembre, ma realizzato nel 2005: le due torri in una visione tragica ma insieme redentiva. Non una semplice calligrafica sismografia del dramma, ma un tentativo di balzarci fuori, di cercare orizzonti di gloria. Forse Tiepolo avrebbe fatto un quadro così…

Infine, Serle dice che il più bel video del decennio è quello visto al Couvent des Cordeliers  a Parigi. L’autore è albanese, Anri Sala. Il titolo: Entre Chien et Loup. Dalla descrizione sembra di rivedere Roma di Fellini girato a Tirana. Chissà…

Written by giuseppefrangi

Dicembre 7th, 2009 at 11:08 pm

Prove di bilancio di un decennio. Primo, Cy Twombly?

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I primi decenni del secolo in genere sono stati decenni chiave. Pensateci: 1304, Giotto agli Scrovegni; 1401, il duello Brunelleschi Ghiberti per la porta del Paradiso; 1508 Michelangelo sulla volta Sistina; 1600-1610, gli anni di Caravaggio. Nulla di epocale nel 700 e nell’800. Ma poi nel 900 i primi dieci anni presentano un’infornata memorabile dal Cézanne estremo, alle Demoiselles d’Avignon, all’esplosione di Matisse…

E questo decennio che si sta per chiudere come passerà alla storia? Proviamo a ripercorrerlo con una breve rincorsa. Gli anni 80 erano stati quelli in cui l’arte era tornata a respirare, a volte in modo un po’ beota, dopo l’assedio del decennio precedente. I 90 sono stati quelli di un nuovo furore contro un modello di mondo in cui l’invocata libertà si era tutta tramutata in immensi bonus per i banchieri: è stato il decennio della Young british art, della performance di Marina Abramovich alla Biennale, delle cose per cui Damien Hirst avrà un angolino nella storia. È stato il decennio dell’addio all’ultimo gigante del 900, Francis Bacon. E il primo decennio del terzo millennio? Non è stato un decennio pieno dell’energia che nel passato dava ogni voltar di secolo. La cifra va cercata, io credo, in un moltiplicarsi di voci, in un’orizzontalità in cui mancano punte di riferimento. Una qualità diffusa senza acuti straordinari. È stato un decennio “partecipato”, in cui l’arte ha sentito di dover dire la sua sugli affanni del mondo. A volte s’è fatta strumento di un miglior vivere per tutti (il caso di Alberto Garutti in Italia). S’è chinata ad avere un profilo meno protagonistico: la Biennale del 2009, in questo senso, ha centrato in pieno l’anima del decennio. Arte socializzante.

Detto questo quali sono le cose più belle del decennio? Provo ad avviare un elenco, che è un elenco aperto a suggerimenti e correzioni di rotta. Al primo posto ci metterei Cy Twombly (le rose immense, 2008; o Paphos 2009). Poi Gerhard Richter (Snow White, 2009; ma anche le coraggiose vetrate del Duomo di Colonia, 2007); Sigmar Polke a Punta della Dogana, con le sue enormi pareti tese, come smaltate di fango. Poi mi sono rimaste negli occhi la porta di Kounellis all’orto monastico di Santa Croce in Gerusalemme a Roma, i nove lenzuoli di marmo di Cattelan sempre a Venezia, e Natalie Djumberg, la più ossessionata del decennio.  E poi Anselm Kiefer con il suo Merkaba. E la svolta candida di Baselitz.

Written by giuseppefrangi

Novembre 19th, 2009 at 10:53 pm