Robe da chiodi

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San Giuseppe, Artemisia e il potere del sonno

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Artemisia Gentileschi, Allegoria della pittura

Articolo pubblicato su Il Sussidiario il 17 gennaio

Si sa che papa Francesco su un mobiletto all’ingresso del suo appartamento di Santa Marta tiene una statuetta particolare: è un san Giuseppe che dorme disteso per terra. Se lo era fatto arrivare da Buenos Aires appena dopo l’elezione, in una valigia che conteneva tutti gli oggetti a lui più cari. Una devozione che lui stesso aveva rivelato pubblicamente in occasione del discorso alle famiglie a Manila nel gennaio 2015: «Vorrei anche dirvi una cosa molto personale. Io amo molto san Giuseppe, perché è un uomo forte e silenzioso. Sul mio tavolo ho un’immagine di san Giuseppe che dorme. E mentre dorme si prende cura della Chiesa! Sì! Può farlo, lo sappiamo». Francesco poi raccontava che il suo san Giuseppe non dormiva più per terra, perché sotto la statuetta s’era formato un “materasso” fatto dai biglietti che lui stesso abitualmente mette per affidare al sonno del santo le questioni che lo preoccupano. «Così io dormo più tranquillo», ha detto il papa che ha sempre ammesso di «dormire come un legno».

Il sonno di san Giuseppe del resto, a leggere i Vangeli, non è davvero tempo perso, visto quante volte Dio si è fatto vivo con lui attraverso i sogni per fargli poi prendere le decisioni giuste per la sua strana famiglia. Il sonno quindi non è un momento “morto”, ma è un momento in cui uno stato di abbandono e di “affidamento” si accompagna a un di più di sapienza e di coscienza delle cose. 

Orazio Gentileschi, dettaglio di San Giuseppe addormentato nella Fuga in Egitto

Non si può non guardare con simpatia e anche gratitudine a questa devozione di Francesco, anche per quella sua portata così provvidenzialmente tranquillizzante e anti ansiotica. È una devozione semplice, che in realtà nasconde una profonda intelligenza della realtà.

Ho potuto averne una conferma leggendo l’ultimo libro di Giorgio Agamben, “Studiolo” (Einaudi). Un piccolo libro, quasi un vademecum che scavando in alcune immagini coglie dimensioni profonde del vivere. Ebbene ad un certo punto Agamben si sofferma su un quadro di Artemisia Gentileschi, un’Allegoria della pittura. L’aspetto insolito del quadro è che la pittura nell’allegoria è rappresentata come una donna prosperosa che dorme per terra, tra tavolozza e pennelli. Come spiegare una simile stranezza? Agamben, rifacendosi al De Anima di Aristotele, spiega che il sonno coincide con quella situazione in cui l’anima possiede la scienza prima e indipendentemente dal suo esercizio (che avviene invece nello stato di veglia). Scrive il filosofo: «La potenza – questa è la tesi geniale, anche se in apparenza ovvia di Aristotele –è definita essenzialmente dalla possibilità del suo non –esercizio, cioè dal suo poter stare allo stato dormiente». Banalizzando vuol dire che nel momento del sonno un artista sperimenta la pienezza del proprio essere artista, proprio perché il dono ricevuto è libero dall’intenzionalità e dal calcolo legato inevitabilmente all’agire. Evidentemente non si vive dormendo, ma imparare a fidarsi del sonno è qualcosa che ci rende più umani.

Written by gfrangi

Gennaio 22nd, 2020 at 11:25 am

Dondero l’angelo della fotografia

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Mario Dondero, Francis Bacon nello studio, 1961

Mario Dondero, Francis Bacon nello studio, 1961

Ieri è morto Mario Dondero, un grande fotografo, grande per il suo radicale antinarcisismo. Nel libro Electa pubblicato in occasione della grande mostra romana dello scorso anno c’era un breve intervento di Giorgio Agamben. Ve ne propongo un passaggio, per me straordinario.

Mario ha espresso una volta una certa distanza rispetto a due fotografi che pure ammira, Cartier-Bresson e Sebastião Salgado. Nel primo egli vede un eccesso di costruzione geometrica, nel secondo un eccesso di perfezione estetica. A entrambi oppone la sua concezione del volto umano come una storia da raccontare o una geografia da esplorare. Nello stesso senso anche per me l’esigenza che ci interpella dalle fotografie non ha nulla di estetico. È, piuttosto, un’esigenza di redenzione.
L’immagine fotografica è sempre più che un’immagine: è il luogo di uno scarto, di uno squarcio sublime fra il sensibile e l’intellegibile, fra la copia e la realtà, fra il ricordo e la speranza. A proposito della resurrezione della carne, i teologi cristiani si chiedevano, senza riuscire a trovare una risposta soddisfacente, se il corpo sarebbe risorto nella condizione in cui si trovava al momento della morte (magari vecchio, calvo e senza una gamba) o nell’integrità della giovinezza.
Origene tagliò corto a queste discussioni senza fine affermando che a risorgere non sarà il corpo, ma la sua figura, il suo eidos. La fotografia è, in questo senso, una profezia del corpo glorioso. È noto che Proust era ossessionato dalla fotografia e cercava con ogni mezzo di procurarsi le foto delle persone che amava e ammirava. Uno dei ragazzi di cui era innamorato quando aveva 22 anni, Edgar Auber, gli regalò, su sua insistente richiesta, il proprio ritratto. Sul verso della fotografia, scrisse in guisa di dedica: «Guarda il mio volto: il mio nome è Avrebbe Potuto Essere; mi chiamo anche Non Più, Troppo Tardi, Addio». La dedica è certamente pretenziosa, ma esprime perfettamente l’esigenza, così viva in ogni foto, di cogliere il reale che si sta perdendo per renderlo nuovamente possibile.
Di tutto questo la fotografia esige che ci si ricordi, di tutti questi nomi perduti le foto di Mario testimoniano, simili al libro della vita che il nuovo angelo apocalittico – l’angelo della fotografia – tiene fra le mani alla fine dei giorni, cioè ogni giorno.

Written by gfrangi

Dicembre 14th, 2015 at 2:07 pm

L’opera d’arte come liberazione. Quattro situazioni da vedere (o leggere)

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A maggio con Vita abbiamo fatto (grazie al lavoro di Anna Spena, in particolare, e di Marta Cereda e Daniele Capra) una copertina che lanciava la domanda “L’arte può salvare il mondo?”. In scia allo spunto di quel numero, ho intercettato molte suggestioni che meritano, secondo me, di finire in un ideale taccuino, in vista di una continuazione di quel lavoro avviato. Ecco alcune di quelle suggestioni, molto libere e assolutamente trasversali.
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animale

Uomini come cibo.
È geniale il tema che Luca Santiago Mora ha dato ai ragazzi del suo Atelier dell’Errore per il lavoro di quest’anno, ribaltando il tema dell’Expo, così come loro con le loro opere ribaltano qualsiasi gerarchia nella scala della produzione artistica. Come sempre negli Atelier che sono diventati tre (quello storico di Reggio, quello di Bergamo, e quello iniziato da quest’anno per gli allievi che hanno superato i 18 anni e che è stato ospitato alla Fondazione Maramotti di Reggio Emilia), soggetto unico sono gli animali. Animali fantastici, a cui i ragazzi assegnano nomi che meriterebbero un’antologia. Ma quest’anno il tema del mangiare gli uomini ha fatto scattare nella fantasia dei ragazzi una potenza inedita. A tratti davvero travolgente. La mostra apre il 18 giugno, sostenuta da Maramotti che ha sposato pienamente il progetto, in un palazzo centralissimo di Milano, in via Monte di Pietà, 23. Si tiene su cinque piani. Ho avuto la fortuna di vederla in anteprima. È assolutamente imperdibile. È la vita che torna ad occupare fisicamente la città. (nell’immagine: VendicatoreDiNotteCheDivorisceDeiCompagniDiClasseIoMiAvvicinoELoroSiAllontananoEDiconoChePuzzo)

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Donatello
I tre Crocifissi di Donatello a Padova.
A proposito della relazione tra l’arte e la vita, nessuno probabilmente nel passato aveva capito il nesso meglio di Donatello. A Padova ho potuto vedere la mostra dei tre Crocifissi: quello celebre del Santo, affiancato da quello giovanile di Santa Croce e da quello ritrovato pochi anni fa, a Santa Maria dei Servi, sempre a Padova. Ci sono immagini da questa piccola mostra che non ci si toglie più dagli occhi. La prima: il perizoma di Cristo nel Crocifisso del Santo. Un piccolo straccio di bronzo disperatamente strappato da un vento che scuote la storia. La seconda: il ventre di Cristo, contratto nello spasmo della morte. Dal punto di vista plastico un pezzo di intensità drammatica con pochi paragoni. Bronzo sottoposto a contrazioni esplosive. Un punto di scontro di forze, tra la muscolatura dell’addome e la corona delle costole che sporgono in fuori con uno strappo doloroso.
La terza immagine: è relativa all’altro Crocifisso padovano, che è in legno, e che è stato recuperato eccezionalmente nella policromia originale. La linea del muscolo della coscia e il rossore del ginocchio sono di una verosimiglianza carnale che quasi domanda una carezza. La quarta immagine: il clamoroso retro di questo stesso Crocifisso che l’allestimento lascia giustamente libero. Il corpo di Cristo è completamente nudo, e schiena e natiche sono intagliate con una delicatezza che toglie il respiro. Ma come sempre quello che spiazza è la libertà di Donatello, che affronta l’iconografia senza retorica e senza moralismi (ovvero quando il cattolicesimo non aveva il complesso culturale del corpo e della carne…)

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Longhi e il senso dell’opera d’arte.
Letto il libricino con le Proposte per un critica d’arte di Roberto Longhi
(ed. Portatori d’acqua, con prefazione – bella – di Giorgio Agamben). A proposito della relazione tra Arte e vita, cito questo passaggio di Longhi: «È dunque il senso dell’apertura di rapporto che dà necessità alla risposta critica. Risposta che non involge soltanto il nesso tra opera e opere, ma tra opera e mondo, socialità, economia, religione, politica e quant’altro occorra. Qui è il fondo di un nuovo antiromanticismo illuminato, semantico, terebrante, analitico, empirico o quel che volete, purché non voglia svagare. L’opera d’arte è una liberazione, ma perché è una lacerazione di tessuti propri e alieni. Strappandosi non sale in cielo, resta nel mondo. Tutto perciò si può cercare in essa, purché sia l’opera ad avvertirci che bisogna andare a trovarlo, perché qualcosa ancora manca al suo pieno intendimento».

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Matisse e il suo maestro.
Sto leggendo L’intervista perduta di Matisse con Pierre Courthion.
È un libro a cui Matisse lavorò tanto e che alla fine non volle pubblicare. Oggi esce per l’editore che lo allora lo aveva (invano) commissionato, Skira. Matisse vi racconta ad esempio il suo rapporto con Gustave Moreau, suo maestro. «Per lavorare con Moreau bisognava avere talento e temperamento per tenergli testa. Mi ha strapazzato spesso. Mi diceva: “Lei semplifica troppo la pittura”. Ma duceva anche: “Non mi presti ascolto. Quel che dico non ha importanza. Un professore non è niente. Faccia quello che vuole, questa è la cosa principale. Tutto quello che fa mi piace più di quello che fanno altri e che non sgrido”». Così fa un vero maestro…

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Post scriptum: Visita di Alessandro Mendini a Casa Testori per la mostra su Bonvesin. Con lui anche Fabio Novembre. Bello il riconoscimento di un grande maestro come lui alla vitalità dei giovani illustratori. «Sono più avanti di noi designer», ha detto. Bel segno di libertà intellettuale.

Written by gfrangi

Giugno 14th, 2015 at 11:46 am