Robe da chiodi

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Michelangelo, una rivincita a Milano

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Michelangelo, La Pietà Rondanini, particolare

Michelangelo, La Pietà Rondanini, particolare. Foto di Giovanni Dall’Orto

C’erano più di 800 persone martedì alla presentazione del ciclo sulla Vita di Michelangelo organizzato dal Fai su proposta e progetto di Giovanni Agosti A parlarne lo stesso Agosti, Jacopo Stoppa e Stefano Boeri. A parte il dispiacere personale di non poter seguire un percorso così (27 appuntamenti che percorrono tutta la vita di Michelangelo, qui il programma), per via di incompatibilità con orari di lavoro, a parte l’invito a chi può di non perdere un’occasione così, mi venivano due considerazioni.
Oggi un format di questo tipo, rappresenta qualcosa di molto innovativo, di coraggioso e non scontato. Conferma di richiamare un pubblico largo, fa formazione e divulgazione, propone un percorso che costruisce vera conoscenza e non conoscenza spot, ed è un’opportunità per chi studia di diffondere il proprio sapere e di verificare la propria capacità divulgativa. Dove voglio arrivare? Che questa è una pratica intelligente alternativa al rito sempre più stanco e insulso delle mostre. Immaginare cioé dei percorsi, che come è dimostrato sono capaci di grande impatto sul pubblico, e che magari si concludano con una mostra, anche piccola, ma che diventa “grande” e importante proprio per il percorso che l’ha originata.
A Milano (ed è la seconda considerazione che volevo fare) ad esempio questo corso avrebbe potuto concludersi idealmente con quella stupenda iniziativa che Stefano Boeri aveva immaginato e messo a punto e che la giunta Pisapia, dopo il suo allontanamento, ha disgraziatamente messo da parte: l’esposizione temporanea della Pietà Rondanini a San Vittore. Era una grande sfida, di quelle capaci di scuotere una città, di ridarle vigore civile, di affermarne un’immagine più interessante e dinamica nel mondo. Oltre che di ricordare a tutti quell’impressionante capolavoro che giace semi dimenticato. A chi pensasse che Michelangelo oggi sia qualcosa di estraneo alla città, quegli 800 nell’Aula Magna della Statale sono la migliore risposta.

Written by gfrangi

Ottobre 6th, 2013 at 8:45 am

Fare mostre in tempo di crisi

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È stato utile lo scambio di vedute promosso dall’assessorato alla Cultura di Milano di Stefano Boeri sull’organizzazione delle mostre in tempo di crisi. Il “modello Bramantino”, mostra a budget basso, con ridotto spostamento di opere, ingresso gratuito e quindi grandissima fruizione da parte del pubblico ha rappresentato una novità che meritava di essere approfondita insieme a tutti gli operatori, in particolare quelli privati. Per la cronaca rimando ai tweet di Giulia Zanichelli (@giuzan, 19 ottobre)). C’è un punto sollevato da Enrica Pagella, direttrice di Palazzo Madama a Torino, che mi sembra “il punto” oggi da affrontare: cioè quello del pubblico. Ha detto Pagella che c’ è un «dovere imperativo di incontrare la domanda del pubblico», che non vuole dire assecondarla «ma farsi attraversare dalla domanda». Bellissima indicazione, soprattuttto perché viene da un funzionario pubblico che potrebbe starsene al riparo (non è un caso che Pagella sia stata nominata direttore dell’anno 2012). Farsi attraversare vuol dire indagarla, conoscerla e saperla interpretare provando a fornire così delle risposte che rappresentino anche un salto di qualità rispetto alla domanda stessa. Mi sembra una formula molto chiara e coraggiosa, che costringe ad uscire dall’angolo “sicuro” dello specialismo, obbliga a immaginare soluzioni nuove e coraggiose che stimolino il pubblcio ad un percorso di crescita e consapevolezza. I numeri del sistema torinese dicono che il coraggio viene ampiamente premiato
Ci si può chiedere in che senso la mostra di Bramantino abbia seguito questa logica. A me pare che un elemento vincente sia stato quello di aver saputo incrociare un artista di mezzo millennio fa con una sensibilità e uno sguardo contemporanei. Cioè di aver fatto un grande sforzo per far salire interesse e curiosità verso un autore che poteva essere soprattutto materia per specialisti, facendo leva su alcuni fattori che erano costitutivi della sua identità artistica, in primis la straordinaria bizzarria iconografica ben sintetizzata dall’immagine del manifesto con il rospo/demonio di scorcio a pancia in su. La stessa piena visibilità restituita agli arazzi nella Sala della Balla andava nella direzione di risucchiare lo sguardo dei visitatori verso la miriadi di particolari fantastici e fuori da ogni canone (la donna con il burka nella misteriosa scena che rappresenta il mese di febbraio è un po’ l’emblema), e quindi di far salire interesse e fascinazione per Bramantino.
Cosa significa questo? Che forse bisogna avere il coraggio e l’energia intellettuale per trovare, concependo mostre su artisti del passato (ma non solo quelle), un punto di incrocio con l’oggi. Il che non vuol dire trovare scorciatoie che accostino opere antiche con opere moderne… Ricorderò sempre come nell’introduzione al Caravaggio 1951 fosse questa la tensione sottesa al lavoro di Roberto Longhi. Tant’è che la sua lettura di Caravaggio insisteva poprio su questa capacità di riportare tutto al suo “oggi” (sottolineato con i corsivi nel testo…). Poi era stato quasi automatico, data la grandezza del personaggio, che l’oggi di Caravaggio si riversasse a piene mani sull’“oggi” di chi si metteva in coda a vedere quella mostra.

Written by gfrangi

Ottobre 22nd, 2012 at 9:25 am

Correte a vedere Bramantino

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Il rospo-Lucifero nella pala (già trittico) dell'Ambrosiana

Domani ultima visita guidata con Giovanni Agosti alla mostra di Bramantino. Da non perdere.
È una mostra che è destinata a lasciare un segno per almeno tre motivi che mi sono molto chiari.
La prima: ha fatto riemergere un grande artista lombardo (il più grande scrive Agosti in catalogo) con un’operazione che non è solo di recupero storico culturale, ma posizionandolo in modo interessante rispetto all’oggi. Lo sperimentalismo di Bramantino, quella sua vena eclettica son fattori che lo rendono molto leggibile da uno sguardo cinetmporaneo. Il grande manifesto con il rospo a gambe all’aria (che sta per Lucifero) dell’(ex) trittico dell’Ambrosiana (immagine qui sopra) è un un po’ l’emblema di quel che volevo dire. Un po’ bizzarro, un po’ inquietante, figlio di una struttura mentale che oggi avrebbe amato frequentare i terreni della fantasy. (E Bramantino è contemporaneo anche per quelle sue ossessioni architettoniche che ne fanno creatore di topos ideali per Aldo Rossi).
Secondo: è una mostra che ha portato a riscoprire due lughi straordinari del Castello, la Sala del Tesoro dove l’Argo Bramantiniano vegliava sulle montagne di oro di Ludovico il Moro e la sala della Balla, liberata dall’assedio delle vetrine e con gli arazzi sistemati in una prospettiva spettacolare (lasciando piena visibilità alle stramberie della fantasia bramantiniana).
Terzo: la mostra ci lascia in mano uno dei migliori e più chiari cataloghi che abbia mai visto. Agile (anche nel prezzo), chiarissimo, completo senza mai essere pedante; con una qualità di immagini rara, anche per la scelta orami purtroppo desuete di fare una campagna fotografica nuova per le opere esposte: lo stesso occhio (quello di xcxcxc) le guarda tutte, garantendo un’omogeneità a cui non siamo più abituati. Un catalogo che davvero è un caso scuola, per la qualità, ma in particolare per l’attenzione al “pubblico” con cui è stato pensato: basti guardare le schede che sono in due corpi differenti, corpo grande per la parte che affronta l’opera nel suo insieme e corpo più piccolo per tutta la vicenda critica, ad usum degli specialisti.

Written by gfrangi

Ottobre 5th, 2012 at 3:06 pm

Milano, perché do ragione a Stefano Boeri

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Non so com’è destinata a finire la vicenda di Stefano Boeri, l’assessore alla Cultura di Milano entrato in conflitto con il sindaco e con l’apparato del partito di cui è stato capolista alle ultime comunali. So per certo che quella di Boeri è stata sino ad ora la vera novità di questa giunta, una novità che si è confermata appieno con la conferenza stampa di giovedì scorso, quella che ha scatenato le nuove polemiche contro di lui.

Boeri ha colto la cosa di cui Milano in questo momento ha più urgente bisogno, quella di sprovincializzarsi. Non è un vezzo né una questione da vetrina, ma è una scommessa su cui si fonda ogni vero rilancio di una città che negli ultimi anni, tranne qualche eccezione, si è ripiegata nel suo tran tran, smarrenso la propria capacità di città-traino. Spingere Milano verso una frontiera più ambiziosa, significa aprirle prospettive, liberare energie oggi imbrigliate, costringerla ad aprire cantieri nuovi (non solo quelli edilizi), creare lavori e lavoro, ringiovanire la città. Non è un’idea astratta, ma è un’idea che Boeri ha potuto ben sperimentare nelle sue recenti direzioni di grandi riviste di architettura, dove ha capito le potenzialità di una città a cui tutto il mondo ancora guarda come uno dei laboratori più interessanti e decisivi per pensieri nuovi sull’abitare e sulla città.

Boeri aveva una sola strada possibile davanti: procedere senza indugio verso scelte che immediatamente dessero il segnale della svolta. Va in questa direzione il coinvolgimento di Ulrich Obrist, oggi numero uno del sistema dell’arte contemporanea, nel ripensamento dei luoghi espositivi della città, ridotti a disordinato ricettacolo del primo che arriva (e che paga); basta dare un’occhiata agli stendardi che pendono sulla facciata di Palazzo Reale per avere la fotografia esatta della situazione.

Poi è arrivato l’annuncio di Francesco Bonami come curatore per il luogo giustamente assegnato all’arte contemporanea, il Pac, capolavoro di Gardella. E il coinvolgimento di Giovanni Agosti, uno dei maggiori storici d’arte oggi in attività, che pur insegnando a Milanno le mostre importanti ha dovuto quasi sempre farsele tra Parigi e il Ticino.

Sacrosanta inoltre l’opposizione di Boeri alla costruzione del nuovo Museo di Arte Contemporanea a Citylife: un inutile mausoleo già in affanno prima ancora di sorgere, che graverebbe con costi di gestione assurdi sulle già esauste casse pubbliche. E giusta anche l’intuizione di destinare all’arte contemporanea un progetto già in fase avanzata e molto più legato alla storia urbanistica di Milano, come la ristrutturazione dell’ex Ansaldo: pensare quegli spazi enormi solo per ospitare il museo delle culture non europee (una quai Brainly dei poveri…) è un’idea che tutt’al più acqiueta le coscienze politicamente corrette. Sarebbe molto più intelligente e dinamico progettare un luogo per l’arte contemporanea dove ci sia spazio e visibilità per tutte le culture che in questi decenni sono confluite a Milano. La multietnicità infatti è un’esperienza viva e non da museificare.

Boeri ha poi parlato della necessità di avere un festival internazionale del teatro: un’idea tanto giusta che a sentirla sembra quasi ovvia. Com’è possibile che Milano sul teatro, con la storia e le istituzioni che ha, non abbia un’iniziativa di quel respiro?

Milano ha davvero bisogno come l’aria (di quella pessima che si respira in questi giorni e su cui la giunta si è purtroppo impantanata) di un cambio di marcia di questo tipo. Che accenda nuovi interessi e nuove passioni. Speriamo che Pisapia se ne renda conto.

Written by gfrangi

Novembre 27th, 2011 at 3:15 pm

Agosti: “Cosa ho imparato da Bellosi”

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È uscito su Alias il ritratto di Bellosi firmato da Giovanni Agosti. Ne esce un profilo che dà tutto lo spessore, anche drammatico del personaggio, a dimostrazione che la calma finale della scrittura critica è sempre esito di un cammino a volte anche doloroso, di fratture intellettuali ed esistenziali. In un certo senso mi viene ancor di più da ammirare questa calma finale che cogliamo sulle sue pagine, come frutto anche di una grazia speciale. Quasi un premio. Scrive Agosti: «A quella prosa calma e come sedata, a quella riduzione dei problemi al nocciolo essenziale, lasciando perdere ogni forma di complicazione, ogni elemento di disturbo, a costo di risultare uno zuccone, Luciano non arrivava per dono divino, ma superando a fatica i propri tormenti, il proprio inguaribile senso di colpa, facendo i conti con l’insorgenza quotidiana dei fantasmi».
Una prima frattura “felice” Agosti la richiama nella scelta della tesi: Bellosi scartò quella proposta da Longhi su Alessandro Allori, per scegliere invece altra epoca (in senso storico, ma anche psicologico, direi): «…il crepuscolo del manierismo fiorentino, quando la città è ritornata provincia per restarci definitivamente, nonostante la corte medicea, cioè il tempo di Alessandro Allori, non era nelle corde di Luciano: e aveva trovato la forza di rifiutare la proposta di Longhi per dedicarsi invece a una tesi, discussa nel 1963, su Lorenzo Monaco… per cominciare così un periplo che l’avrebbe portato in un arco di tempo assai breve a diventare il maggiore interprete della fine del Gotico in Toscana».
Capisco che discende da Bellosi anche questa intuizione su un nuovo modo di fare mostre. Una novità di conceezione che fa capolino con la mostra Pittura di luce a Casa Buonarroti, nel 1990. «L’esposizione – una delle ultime battute del mecenatismo Olivetti – permette di riproporre la lunga fedeltà di Luciano a un aspetto (un aspetto soltanto, sia chiaro) del modo di procedere di Longhi ma stavolta si incrocia con altre sensibilità, di altre generazioni, e quello che rischiava di essere retrospettivo diventa, malgré soi, un avamposto di metodo. Luciano capisce, e ci prova gusto, di essere molto bravo a sapere fare le mostre: a scegliere le opere, a farle dialogare, a cercare attraverso la chiarezza degli accostamenti il senso della storia».

Giovanni Agosti e Luciano Bellosi (secondo e terzo da sinistra seduti), a Bagolino, davanti agli affreschi dei De Cemno. L’immagine è tratta da un fotogramma di un breve, bellissimo filmato di Alessandro Uccelli.

Written by gfrangi

Maggio 11th, 2011 at 8:21 am

L’uovo di Gaudenzio

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Pareti di un cielo azzurro, striato di biancori,  molto domestico, uno sviluppo per piccole sale, arrampicate in quella che un tempo era la casa Parrocchiale e che Claudio Cavadini ha trasformato in un museo lindo e civilissimo. La Pinacoteca Züst di Rancate accoglie la mostra sul Rinascimento nel Ticino, curata da Giovanni Agosti, Marco Tanzi e Jacopo Stoppa. L’accezione di Ticino va ovviamente oltre il Cantone, ed è così che tra le opere esposte ne è arrivata una commovente e spiazzante che arriva da Morbegno. È una tempera di Gaudenzio Ferrari (la paternità è stata riconosciuta da Giovanni Romano), riemersa da un delicato restaturo, che ne ha salvato il disegno, la disposizione spaziale, cioè l’intuizione creativa “scattata” in Gaudenzio. Il soggetto è la Nascita di Maria. La prima cosa che colpisce è la disposizione circolare; il centro della tela è libero, e attorno ruotano i protagonisti, ciascuno intento ai suoi compiti. Quel vuoto in realtà è come un perno, attorno al quale si svolge una danza pacata: la danza della quotidianità. Colpisce come il niente a cui è ridotta la pittura di Gaudenzio esprima ostinatamente un senso di pienezza. È come un frammento di umanità compiuta, nel senso più profondo del termine. Umanità calma, che raccorda visibilmente ogni gesto ad un destino in cui è chiuso il senso di tutta la vita, non solo di quest’attimo. La costruzione circolare esprime questo ritorno rituale delle cose di ogni giorno; ma nello stesso tempo le iscrive in un ordine, le lega in un disegno unico (e Gaudenzio con il suo disegno sembra rimandare al disegno giusto del Padreterno).

Infine notate quale preziosismo nella banalità: Sant’Anna, nel letto dove ha partorito, sta riprendendo forze mangiando un uovo (se l’uovo è elemento che per forza deve avere qualche valenza simbolica, qui non c’è da arrampicarsi sugli specchi: Gaudenzio ci dice che la perfezione non è estranea alla quotidianità).




Written by gfrangi

Ottobre 10th, 2010 at 11:04 am

Diario ticinese, con macchina digitale

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Bella la formula con cui Alias di sabato scorso ha raccontato il cantiere di una mostra da non perdere. Rinascimento nelle valli ticinesi si aprirà a Rancate il prossimo 10 ottobre. La curano Giovanni Agosti, Jacopo Stoppa e Marco Tanzi. Proprio Agosti ha tenuto il diario di sei mesi di vagabondaggi sul territorio, tra chiese, case private e palazzi per setacciare le opere da portare in mostra. È un diario continuamente contaminato da osservazioni extra artistiche, da incontri, da notazioni collaterali. Ma così si capisce come quei manufatti, spesso nascosti e dimenticati, non siano incapsulati in un passato lontano e di interesse solo per gli specialisti. È come se si “creaturalizzassero” di nuovo, mantenendo la loro identità periferica. Gli sguardi sono a volte sorpresi, a volte severi («Como, San Fedele. l’affresco di Giovanni Andrea De Magistris, la sua prima opera datata, 1504, è già modesto»). Ma sempre soccorre una simpatia verso questo sistema di produzione artistica che non tralasciava neanche il lembo più dimenticato del nostro territorio (ad esempio: Cuzzago, frazione di Premosello Chiovenda, bassa Val d’Ossola, 326 abitanti: «Il Compianto sta in un ambiente laterale, protetto da una tenda rossa. Moquette rosa domestica per terra. Gentilezza di don Simone. La Madonna restaurata gratis da Gritti è svincolata dal contesto, quasi una creatura di Bernini. Sembra ridere e provare piacere. Per don Simone perché sa il destino di Gesù, per noi perché ha vissuto. Altre due statue, il san Giovanni e una Maria, sono restaurate: erano quelle esposte a Milano. Grandezza di Giovanni Angelo Del Maino»).

Dimenticavo: il diario non è solo a parole. È visivo. La macchina fotografica digitale, scrive Agosti, «ha mutato, dall’interno, lo sguardo e fatto funzionare diversamente i relais delle memorie: si tratta di uno stacco epocale di cui è necessario prendere consapevolezza». (La regola per le immagini è uguale a quella che vale per il diario scritto. Così ci scappa una foto di una tv accesa su un film di Paul Newman, immagine presa nella casa di un collezionista comasco, dal 1996 immobilizzato dalla sclerosi multipla).

Written by gfrangi

Agosto 12th, 2010 at 2:23 pm

Quegli sms da Casale. Ovvero storia dell'arte a briglie sciolte

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portaleIn coda al catalogo della bella mostra aperta in queste settimana a Casale (Il portale di Santa Maria di Piazza e la scultura del Rinascimento tra Piemonte e Lombardia, sino al 28 giugno 20009 presso il Museo Civico e Gipsoteca Bistolfi ex convento di Santa Croce, via Cavour 5; catalogo Officina libraria),  i curatori hanno avuto un’idea curiosa: hanno raccolto, come si trattasse di brevi sms, i pensieri e gli spunti emersi durante i mesi di lavoro collettivo su questo progetto. Alcuni hanno attinenza con opere e personaggi incontrati, altri invece sono “sms” estemporanei, a volte anche  velenosi, quasi sempre riferiti al mondo della critica d’arte. La trovata oltre che divertente è istruttiva perché lascia trapelare i processi mentali e le dialettiche che sottostanno al cantiere di una mostra costruita davvero con un’azione di squadra.

Qualche esempio: Giovanni Antonio Amedeo non stava simpatico al gruppo. Ecco l’sms di mt (Marco Tanzi): «A volte era un infame. Metteva in opera geniali monumenti non sempre suoi. E poi li firmava. Però, a riprenderlo da zero, si dovrebbe dire della sua vera grandezza». E quello di ga (Giovanni Agosti): «Da giovane era meglio. Come quasi tutti». Tra gli sms estemporanei, sentite questo di js (Jacopo Stoppa): «Campomorto: per entrare in chiesa chiedere alla signora Isolina. Cucina anche le rane, quelle piccole di fosso, non quelle cinesi: ci sono anche in Prima della rivoluzione».
Poi le frecciate a firma collettiva: «Cosa pensare quando un volume del Ministero dei Beni culturali sulla Certosa di Pavia, appena pubblicato, si apre con una citazione in esergo firmata “Alessandro Manzoni, Per le vie, 1881”; vedi alla voce Verga Giovanni» (per completezza, alla voce Verga scopriremo che il brano non è tratto da Per le vie. E comunque Per le vie è del 1883)… Buon divertimento.

Written by giuseppefrangi

Maggio 28th, 2009 at 2:22 pm

La critica d'arte e gli opposti isterismi

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rosci-romano-5Sabato, alla presentazione del Testori a Novara (quasi 200 persone ad ascoltare…) Giovanni Agosti e Giovanni Romano hanno fatto un bell’esercizio di lettura del libro, senza nessuna retorica ma con un appassionato coinvolgimento intellettuale. Agosti lo ha sezionato segnatura per segnatura. Romano invece lo ha sorvolato con discese in picchiata, a sorpresa, su alcuni particolari solo in apparenza trascurabili. Ha riconosciuto alcuni personaggi nelle retrovie delle foto della mostra novarese su Cerano (1964): a pagina 130, dietro Marco Rosci «travestito da James Dean» c’è la testa bianca «di un altro protagonista della storia rievocata da questo libro, la testa bianca di Gian Alberto Dell’Acqua». Nella foto a pagina 139, invece, racconta sempre Romano «l’ultima che si vede è la mia insegnante di storia dell’arte al liceo, la professoressa Mocagatta». A guardare le foto quella stagione culturale sembra rivivivere. «Sembra di esserci», dice Romano.

Poi, da annotare, c’è la sintetica visione di una critica non fondamentalista, cui appartiene Testori, nonostante qualcuno lo abbia voluto tirare dalla parte di uno dei due “isterismi” («meravigliosa definizione»). «All’interno della disciplina della storia dell’arte di quegli anni c’era o una fondamentale sociologia brutale della storia dell’arte o in modo assolutamente opposto la tendenza verso una formalizzazione estrema… Due difficili Scilla e Cariddi: l’estremismo ideologico o l’estremismo formalistico». Invece, la storia dell’arte chiedeva di poter essere un’altra cosa, quell’esercizio di competenza e di aderenza alla realtà che poi è diventata. E Testori? «Si teneva aperta una via di fuga linguistica, che gli permetteva uno straordinario avvicinamento alle cose. Era un modellatore della parola a ridosso delle cose, qualche volta perfino facendo prevalere la sua abilissima folgorazione linguistica sull’oggetto». Ma era una via di fuga che riguardava solo uno come lui. Ultima battuta da segnare sui nostri taccuini. Romano confessa che alle mostre gli interessa origliare le spiegazioni di guide, quelle peggiori («le guide-cane»). «Perché così capisco quello che devo togliere dalla testa dei miei allievi».

Nella foto Giovanni Romano con Marco Rosci.

Qui tutta la sequenza delle foto della giornata a cura di Pietro Della Lucia.

Written by giuseppefrangi

Aprile 23rd, 2009 at 10:54 pm

Novara meritava bene un Elogio

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testori-00-20p1

Non perdetevi questa mostra nello scenario stupendo della navata di San Gaudenzio a Novara. Un omaggio a Testori che testorianamente lievitato in quanclosa che è molto più che un omaggio. Si entra sotto la cupola a siringa dell’Antonelli, in quel transetto anche lui un po’ acuminato. Una parete nera con tenda al centro “copre“ lo spettacolo della navata barocca dove ai Tanzio, Gaudenzio e Morazzone (tutti qui di stanza), si sono aggiunte su delle quinte nere altri 14 quadri appena restaurati, con alcune assolute soprese (primo tra tutti il Matrimonio mistico di santa Caterina di Gaudenzio). Aggiungo solo un pensiero: è bellissima la coralità dell’insieme. Si sente che sono pittori in famiglia tra di loro, che parlano una stessa lingua, che stanno bene insieme. Nel senso che insieme diventano più belli, prendono più corpo, aumentano di peso specifico. La Lombardia è cultura plurale, e qui lo si tocca con mano. Uno rimanda all’altro e nessuno esce dimunito dalla presenza di qaudri oggettivamente più belli. Il 18 maggio appuntamento da non perdere con Giovanni Agosti e Giovanni Romano in mostra a presentare il libro – catalogo.

Testori nel 1962 aveva pubblicato un meraviglioso (meraviglioso anche come oggetto) libro Elogio dell’arte novarese. Dopo aver visto la mostra si constata che mai titolo fu più pertinente (e non è un discorso di qualità, ma di tenuta umana, di omogeneità cultural sentimentale)

Written by giuseppefrangi

Marzo 24th, 2009 at 11:55 pm