Robe da chiodi

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Tintoretto + America= Vedova

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Vedova a New York nel 1967

Questa recensione è stata scritta per Alias e pubblicata domenica 23 febbraio.

Nella foto lo si vede sbucare dalle scale del metro di New York, con la sua sagoma allampanata e lo sguardo già conquistato dal vortice urbano che che si scatena tutt’intorno a lui. La foto è del 1967 ed è interessante perché attesta con immediatezza una sorta di consanguineità: Emilio Vedova, veneziano ad oltranza, “fratello” di Tintoretto e di Giandomenico Tiepolo, intercettava in quella città esagitata e in tumulto qualcosa di familiare. Un luogo vitale, eccitato, ma che come la sua Venezia sembrava sempre sul punto di poter precipitare in un cumulo di rovine.
Quanto New York e l’America fossero entrati nei pensieri e nella pittura di Emilio Vedova lo rivela oggi una mostra organizzata a Verona dalla Galleria dello Scudo, in collaborazione con la Fondazione Emilio e Annabianca Vedova: si tratta di una trentina di opere mai viste prima d’ora, realizzate tra 1976 e 1977, e intitolate “De America”. Dalla mostra nascerà un libro di prossima pubblicazione curato da Germano Celant, direttore artistico della Fondazione e da Laura Lorenzoni, in cui verranno ricostruiti tutti i rapporti tra l’artista e gli Stati Uniti (edito da Skira).
È noto come Venezia fosse stata individuata dallo stesso governo Usa come la vetrina perfetta per portare in Europa le grandi novità dell’arte americana. Peggy Guggenheim aveva fatto da apripista; poi le Biennali, a partire dal 1948 con la presentazione di Pollock, erano diventate dei veri avamposti di una stategia studiata puntigliosamente (ben ricostruita da Francesco Tedeschi nel suo La scuola di New York, ed. Vita e Pensiero). Che un trentenne come Vedova si facesse profondamente segnare da quella contaminazione, che oltrettutto si consumava proprio nella sua Venezia, era un po’ nell’ordine delle cose. Vedova sentiva certamente molto più suo quel vento libertario arrivato d’oltreceano che non il realismo ad oltranza che dominava la pittura “politica” nell’Italia di quegli anni. Così nel 1951 lo troviamo già a New York ad esporre da Catherine Viviano; nel 1956 viene insignito del Salomon R. Guggenheim Foundation Award. Lo stesso anno una sua opera entra nelle raccolte del Moma. Nel 1960 arriva il Leone d’oro alla Biennale, da una giuria non a caso presieduta dal britannico Herbert Read. In mezzo ci sono le presenze alle Biennali di San Paolo e l’ingresso nelle collezioni del più americano di tutti i grandi collezionisti europei, Giuseppe Panza di Biumo. Vedova alla fine degli anni 60 tiene anche delle memorabili “lectures” sull’“artista oggi” all’Università di Berkeley. Nel 1967 invece riceve la commessa per il Padiglione Italiano dell’Expo: in quest’occasione presenta una grande istallazione luminosa Spazio/Plurimo/Luce, realizzata attraverso proiezioni con vetrini realizzati a mano dagli artigiani di Murano.
Quello tra Vedova e l’America è dunque un feeling intensissimo durato 25 anni, che nel ciclo del 1976/77 trova una sintesi dal sapore straordinariamente piranesiano. Non è un caso che l’artista abbia scelto di usare solo il bianco e nero, anche se si sa come le varianti dei neri, dei bianchi e dei grigi nella pittura di Vedova siano infinite. Complessivamente il ciclo si compone di tre grandi tele (in mostra ce ne sono due), di 13 carte delle stesse dimensioni, tutte esposte, e di un gruppo di lavori più piccoli ma assolutamente compiuti. Che l’aurea nella quale Vedova si muove sia quella larga dell’espressionismo astratto americano, ci sono pochi dubbi. Ma Germano Celant nel suo testo avverte di una profonda e anche decisiva differenza: «Vedova si ritaglia un territorio importante, quello del sogno errante che procede per balzi e per tagli, per fenditure e per cerniere con cui escludere definitivamente la rigidità e la monoliticità di un Kline, le istanze riduttive di Stella e, poi, di LeWitt. Rispetto agli espressionisti astratti che dimostrano una tendenza a controllare e definire, Vedova lascia che i segni prendano l’iniziativa e dominino la scena».
Il Vedova americano si porta dentro lo stigma di quel catastrofismo che da Tintoretto in poi ha segnato tanta grande pittura veneziana: per questo nelle sue tele ritroviamo un elemento che è estraneo o addirittura ignoto alla nuova arte americana. È il segno delle ombre, che s’infrattano in ogni centimetro di tela, innestando una dimensione di vorticosa precarietà, dando profondità anche storica al dramma dell’evento pittorico. Nel rutilante dispiegarsi di immaginarie geometrie urbane, nella scatenata danza operata con ogni strumento sulla tela, Vedova non censura mai la sofferenza per uno spettacolo che in realtà prevede nel suo spartito tante ferite, illusioni, fallimenti. È lo spettacolo americano, riconosciuto come fattore decisivo di modernità, ammirato per quella sua portata libertaria, ma visto con l’occhio profondo, scafato di chi ha frequentato il buio di Tintoretto o la spericolatezza cupa di Piranesi.
Vedova si lascia conquistare da quest’America, ma non ne resta soggiogato. Anzi, ritenendo che il proprio mestiere di pittore contempli anche un dovere morale, con questo ciclo sembra voler ricambiare il tanto ricevuto, restituendo un qualcosa che sembra un orizzonte, un luogo in cui meditare sul proprio destino, uno sguardo in profondità che liberi per un istante da quello stentoreo obbligo di essere sempre affermativi. «Certo l’America a me è rimasta dentro; come europei ne sentiamo la responsabilità, comprendiamo tante distorsioni e tanti inaridimenti umani, avvenuti per sopravvivere», annota non a caso Vedova. Che poi aggiunge: «Provoca immensa pietà quest’uomo, sradicato, perseguitato, che deve pure credere a qualche cosa per trovare la forza di restare, radicarsi, costruire…».
Davanti a queste tele e carte che costituiscono il De America comprendiamo allora meglio quale fu, verosimilmente, lo sguardo gettato da quell’allampanato veneziano che vediamo sbucare dalle scale del metro newyorkese. Uno sguardo conquistato, intriso di meraviglia, anche grato per tutta quell’energia che vedeva vorticare attorno a sé e che sapeva di poter far sua. Ma in quello sguardo c’era da subito, come lui stesso confessa, anche un sentimento istintivo di pietà. Per questo nel Vedova del De America, sentiamo vibrare passioni, ma anche avvertimenti che danno alla sua pittura un fremito profetico.

Written by gfrangi

Febbraio 25th, 2014 at 8:33 am

12 ore a Venezia: Tiziano, Capogrossi e Scarpa

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Carlo Scarpa, 1940

Giovedì 1 novembre, giornata veneziana con truppa di ragazzi al seguito. È il giorno dell’acqua alta a 1,40. Il Canal Grande è qualcosa d’inimmaginabile, vasto, semi deserto, perché solo pochi vaporetti possono solcarlo. A destra e sinistra che parta un canale o una calle, non cambia niente. È solo acqua. La prima tappa è l’Accademia, per vedere La Fuga in Egitto di Tiziano. Il passaggio dal traghetto alla porta del museo è complicato, ma ce la si fa con i piedi a mollo (e moglie sulle spalle…)
Su quel Tiziano giovanile avevo già messo giù qualche pensiero, in occasione della mostra di Londra. È un quadro che dà gioia a vederlo. Ma a Venezia l’occhio arranca per un allestimento angusto, mal congegnato: a me è capitato (ma credo ai più) di entrare nel recinto della mostra, accolta all’interno di quella che era la Chiesa della Carità, da dietro. Cioè di prendere Tiziano di spalle. Già il titolo faceva leva sulla solita enfasi fuori luogo: Il Tiziano mai visto, cosa per altro non vera, dato che era stato in mostra a Londra per due mesi. A Londra il titolo era: Titian’s first masterpiece. A fresh look at nature. Volete mettere? Quel “fresh look” coglieva davvero la quintessenza del quadro.

Come per magia nell’arco di un’ora l’acqua si era riadagiata nel suo alveo. Strada libera dunque per andare alla Guggenheim a vedere Capogrossi. Un piccolo choc ci accoglie: nell’ala sul giardino è stata smontata la Collezione Mattioli per far posto alla neo arrivata Collezione Hannelore B. e Rudolph B. Schulhof. Morandi e Boccioni spodestati, per far largo a tanta America, non particolarmente interessante. Sul terrazzo che dà sul Canal Grande hanno piazzato il grande Calder rosso della collezione Schulhof: ma non sta bene e visto dal traghetto è troppo basso e tagliato dalla balaustra. Neanche gli americani sono perfetti. In compenso quella di Capogrossi è mostra forte e compatta. Una rivelazione per me i quadri dei primi anni, di un realismo magico a un crocevia tra Scipione, Carrà e De Chirico. Poi entra in gioco quel segno totemico che lo accompagna per tutta la vita, e sorprende la sua forza nel riuscire a non togliere mai forza a quel segno reiterato in mille soluzioni. C’è un che di contemporaneo e arcaico nello stesso tempo…

Dulcis in fundo, Isola di San Giorgio, i vetri di Carlo Scarpa. Una sfilata di meraviglie da stropicciarsi gli occhi. Ho capito che la sua grandezza sta nel calare sempre la sua fantasia dentro la ricerca di nuove soluzioni tecniche. La fantasia si misura in una danza continua con la materia e le sue possibilità (quelli con il color lattime, un bianco impalpabile, sfuggente). Non sta mai sui risultati raggiunti, aggiungendo tocchi che gli sarebbero riusciti certamente facili facili. Ogni volta invece chiede al vetro qualcosa di nuovo e qualcosa di più, in un oltranzismo mai ansioso. Sono oggetti senza prosopopea, che non vogliono essere niente di più di quel che sono. Non hanno bisogno neanche di dar sfoggio dell’incredibile perizia tecnica che ha richiesto il farli essere. Sono bellezze armate di certezze e di semplicità, bellezze forgiate in un fuoco tranquillo. A volte guardavo le date, e notavo quanto sia difficile tante volte trovare in loro segni del gusto o dello stile del tempo: con nonchalance ne prescindono. Solo Matisse sapeva fare altrettanto…
Usciti dalla mostra ci aspettava un tramonto leggendario, “rosso Scarpa”, nel cielo sopra la Salute. Con questo negli occhi si torna a casa…

Written by gfrangi

Novembre 8th, 2012 at 11:15 pm