Robe da chiodi

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Perché Hermann Nitsch sa ancora sorprenderci

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Questa recensione della mostra di Hermann Nitsch è uscita su Alias di domenica 18 giugno.

Ne sono passati di anni da quel lontano 1963. Davvero un’altra epoca. Erano gli anni di Fluxus, di Beuys insegnante all’accademia di Düsseldorf; la body art era agli albori. A quell’epoca Hermann Nitsch aveva 25 anni ed era uno dei giovani agitatori dell’azionismo viennese: anche lui coinvolto in quelle correnti inquiete che agitavano e sparigliavano il contesto artistico. Tutti alla ricerca dell’opera d’arte totale. In particolare in quel 1963 Nitsch aveva sperimentato nel castello di Prinzendorf, Austria del nord, l’Orgien Mysterien Theater, un’azione creativa in cui riprodusse «nello spazio sacro di sei giorni», la creazione del mondo. Quella che Nitsch proponeva era una sorta di estasi materialistica, un rituale vitalistico senza copioni capace di coinvolgere emotivamente e sensitivamente gli spettatori: una vera esaltazione ed eccitazione delle capacità sensoriali.

Vista oggi quella è una stagione ormai completamente storicizzata, i cui protagonisti sono tutti usciti di scena, spesso bruciati da biografie intense e troppo brevi. Per Nitsch invece è avvenuto qualcosa di inatteso: quell’esperienza lontana sembra essere entrata in una sorta di eterno presente. Ha continuato negli anni a rinnovare il rito selvaggio (in realtà più controllato di quanto non si sospetti) delle sue azioni. Nel 1987 ne aveva prodotta una rimasta celebre al palazzo della Secessione di Vienna, in cui aveva letteralmente riverniciato di rosso l’edificio e, idealmente, anche quel movimento artistico. Nel 2010 ha realizzato la sua “130 Aktion” a Napoli, i cui “relitti” (così Nitsch chiama gli oggetti usati e le opere nate dalle azioni) oggi costituiscono il cuore di una mostra sorprendente al Ciac di Foligno (sino al 9 luglio, a cura di Italo Tomassoni e Giuseppe Morra, catalogo Viaindustriae publishing). La sorpresa è dovuta sostanzialmente alla freschezza che Nitsch dimostra, a dispetto di un rituale tante volte ripetuto e che trova le sue ragioni fondanti in quella stagione ormai così lontana.

A Foligno la mostra ci parla dei colori, componente cruciale della grammatica poetica dell’artista, a iniziare dal rosso, che è quasi il suo identificativo. Il colore del sangue che tanto spazio ha avuto sempre nelle sue azioni rituali: l’immenso “relitto” del 1986, vero big bang cosmico, proveniente dalla fondazione Morra, ne è una intensa e affascinante testimonianza. Per Nitsch i colori sono «soli luminosi, donatori di vita», sono punti in cui il reale si presenta visivamente al massimo dell’eccitazione. Questo non significa che ai colori ci si debba approcciare con un abbandono di tipo dionisiaco. Nitsch, sulla scorta di Josef Albers, ne studia con sistematicità i rapporti, dentro griglie geometriche molto precise realizzando i suoi ordinatissimi Esercizi cromatici, o Tavole di colori. In genere li espone insieme a un gong, proprio per avvertire che la forza cromatica ha anche una sua strabordanza sensoriale, al punto di produrre anche una propria “sonorità”. A Foligno le tavole invece sono esposte a formare un grande quadrato che occupa una parete, “bucandola” quasi si trattasse della vetrata di una cattedrale (del resto anche nelle cattedrali i colori avevano il compito di accendere lo spirito dei fedeli).

Il colore, anche ordinatamente allineato, anche tenuto sotto controllo, per Nitsch è sempre sorgente infinita di energia e sensazioni. Così a far da controcanto alla Tavole, troviamo esposta, tra i “relitti” della “130Aktion”, una tavola bianca su cui sono distribuiti piccoli mucchi di frutta, dai colori forti e compatti, dominati dal rosso delle ciliegie e dal giallo dei limoni. È un’installazione che diffonde nell’ambiente una corrente poetica molto intensa, capace di restituirci, in modo sorprendente, la precisa dimensione del colore come consistenza, cioé “polpa”, e anche come sapore. Secchi di alluminio colmati di fiori fanno quasi da coro, esaltando con un tocco lirico queste sensazioni. Il colore è pienezza sensoriale, è l’emergere della vita in tutta la sua violenta prorompenza. Su altri tavoli sono distribuiti invece alambicchi di vetro dalle forme quasi musicali e dalla trasparente bellezza: ma anche in questo caso la lettura non è univoca perché la loro presenza evoca riti magici e proibiti.

Se il caos orgiastico proprio del suo O.M. Theater è ben restituito dalle carte, veri diagrammi diventati incomprensibili grovigli di segni, quello che domina è però un opposto senso di ordine. Nitsch ricompone nello spazio tutti i suoi “relitti” con la delicatezza di un innamorato. Studia i rapporti, traccia ovunque linee mettendo, ad esempio, in fila mucchietti di zollette di zucchero, per dire che comunque anche una linea non è mai neutra ma è un potenziale trasmettitore di sensazioni. Ha scritto Rudi Fuchs che l’arte di Nitsch è come «un cuore pulsante». La metafora è perfetta: le pulsazioni sono una uguale all’altra. Ma ogni pulsazione è una spinta in avanti alla vita.

Written by gfrangi

Giugno 19th, 2017 at 8:01 am

Arte contemporanea in Vaticano. A rischio di banalità…

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Oggi Il Corriere annuncia a tutta pagina, in apertura di cultura, la prossima mostra che si aprirà in Vaticano e che rappresenta un primo passo concreto dopo l’incontro tra il Papa e gli artisti avvenuto lo scorso anno. La regia è ovviamente del cardinal Ravasi, la sede espositiva l’aula Paolo VI; larga e “alta“ la lista degli artisti invitati, gran parte dei quali hanno già garantito l’invio dell’opera richiesta sul tema «Splendore della vita, bellezza della carità». Per giudicare bisogna vedere (per ora si vede solo l’opera che l’immancabile Paladino ha già preparato e che il Corriere pubblica… dèja vu). Mi fa riflettere però un passaggio dell’articolo di Vincenzo Trione: «Talvolta, pittori, scultori e fotografi – da Nitsch a Hirst, da Serrano a Cattelan – si sono limitati solo a proporre sterili esercizi blasfemi, tesi a profanare e airridiere il sacro». A parte che sui nomi avrei qualcosa da discutere (Nitsch non mi sembra per niente irridente, ad esempio), è la questione della blasemia che mi lascia davvero interdetto. Non vorrei che si etichettasse come tale ogni tentativo di uscire dalla banalità, dal generico spirtualismo, di stringere i nodi drammatici del vivere. Magari prendendosi dei rischi, magari stando borderline rispetto al buon gusto o all’accettabilità delle proprie opere. La cosa che più manca a quasi tutti i tentativi di approcciare l’arte religiosa oggi è la carne. È arte che si posiziona su una soglia nobile e condivisa e di indagine e riflessione spirituale, guardandosi dall’affondare nella questione che invece il cristianesimo ha portato dentro l’arte: il fattore della “fisicità di Dio”. Io penso che da questo punto di vista Bacon con il suo Trittico del 45 resti un paradigma vero. Un punto in cui l’irriducibilità della presenza di Cristo si palesa come scandalo. Nitsch, con tutti i limiti e le sue fissazioni, è su quella strada: e mi colpisce la sua insistenza certamente ossessiva. Anche Hirst a volte è riuscito a toccare quelle corde.
Recentemente, rileggendo il libro dei dialoghi tra Jean Guitton e Paolo VI mi sono trovato davanti a questo pensiero del grande Montini: «Questo mi ricorda una cosa: quando collaboravo (con Maurice Zundel) a una rivista, avevamo rovesciato la frase di san Giovanni: “e la carne” dicevamo con l’audacia dei giovani “si è fatta parola”. Et Caro Verbum facta est. Non tutti i teologi ci avevano capiti, e riconosco che loro critiche erano giuste, ma bisognava capire che noi volevamo solo dare una definizione dell’arte e in particolare dell’arte cristiana. La materia è divenuta parola, una parola di Dio». La questione credo sia proprio questa: che la carne si faccia (di nuovo) verbo (ricordo che Paolo VI aveva accettato un Bacon per i Musei Vaticani).

Written by gfrangi

Giugno 9th, 2011 at 8:56 am