Robe da chiodi

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Hopper. L’idea nascente, a posteriori

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Era il 9 luglio 1924. A New York nella chiesa Ugonotta sulla Sedicesima Strada, Edward Hopper si sposava con Josephine Verstille Nivison. Lui 42 anni, lei uno di meno, si erano conosciuti molto tempo prima alla New York Art School, dove tutt’e due erano stati allievi di Robert Henri. Si erano rivisti nel dicembre 1922 in occasione di una collettiva alla Belmaison Gallery e in poco tempo avevano stretto i legami tra le loro vite con il matrimonio.

Erano di carattere opposto: lui riservato e di pochissime parole, lei espansiva e sempre pronta a dire la sua su ogni cosa: «Bella, vivace, piccola, rapida nel pensiero e nell’azione, attentissima a tutto quello che accade attorno a lei», l’ha descritta Brian O’Doherty, critico del “New York Times”. «Una delle donne più straordinarie che un artista abbia mai sposato. Riserva a se stessa il privilegio di attaccare il marito, come quello di difenderlo con la medesima energia». Date queste premesse si capisce come Josephine, detta “Jo”, fin da quel 1924 abbia voluto prendere il timone della produzione di Edward iniziando a compilare degli “Artist’s Ledger Books”, libri mastri sui quali riportare sistematicamente tutti i lavori del marito. È un lavoro continuato fino al 1966, anno che precede la morte di Edward. In tutto si tratta di tre “Artist’s Ledger Books” (più un quarto e un quinto con poche annotazioni); Jo, prima di morire, con decisione riconoscente, li aveva donati a Lloyd Goodrich, terzo direttore del Whitney Museum che tanto si era adoperato a sostenere il lavoro di Hopper. Goodrich ha poi lasciato in eredità al museo Libri mastro, riunificandoli così al grande lascito di Jo.

Nel 2012 Brian O’ Doherty aveva curato un’antologia di questi straordinari inventari che oggi arriva anche in Italia grazie a Jaca Book (“Edward Hopper. Dipinti & disegni dai Libri master”, 146 pagine, 50 euro): libro indispensabile per la conoscenza di Hopper, pubblicato in formato che rispecchia quello dei Ledger Books, macchiato purtroppo da una traduzione costellata di errori macroscopici: “Second Story Sunlight”, titolo di uno dei capolavori di Hopper, il famoso “secondo piano al sole”, è diventato “Seconda storia Sunlight”…)

L’autorialità di questi “Artist’s Ledger” è messa in chiaro fin dal frontespizio del primo quaderno: “Edward Hopper. His Work”, in terza persona perché, come viene precisato all’interno, la compilazione è opera di “Jo N. Hopper”. Pagina per pagina si familiarizza con la sua scrittura sinuosa: ogni scheda segue un ordine preciso, con date, titolo, misure in pollici, luogo in cui l’opera è stata dipinta, dove è stata esposta e quando è stata venduta. Segue una descrizione sintetica dell’opera, nella quale prevale quello sguardo “argento vivo” di Jo: osservazioni molto letterali sull’opera si accompagnano a notazioni personali, a volta anche ad ipotesi alternative di titoli (“Office in Small City”, 1953, per lei avrebbe dovuto titolarsi “The Man in Concrete Wall”, riferendosi a quel senso di oppressione dato dalla grande edificio a scatola di cemento). Hopper la lasciava fare e in gran parte dei casi completava l’inventario con notazioni molto più laconiche, com’era nel suo carattere, in cui indicava semplici dettagli tecnici: tela usata, preparazione, tipo di colori. 

L’idea di redigere questi libri mastri era frutto dell’insegnamento di Robert Henri, che aveva tenuto un inventario della propria opera (ben 13 quaderni). Anche con il passare degli anni Jo aveva sempre mostrato grande stima per il loro vecchio professore. Henri, insegnante appassionato e visionario, iniziò a inventariarele sue opere quando era ormai artista maturo. Jo fu invece più avveduta, avviando subito la compilazione: infatti nel 1924 Hopper, per quanto vicino alla mezz’età, era ancora agli inizi della sua carriera.  La prima opera di successo, “House by the Railroad” è datata 1925: venne selezionata per la mostra “Paintings by 19 Living Americans” al MoMA, che poi comperò l’opera nel 1930. Rispetto a libri mastri di Henri però c’è un’altra differenza fondamentale. Il vecchio professore accompagnava le voci di inventario con dei piccoli schizzi solo in funzione di promemoria.

Hopper all’inizio procede allo stesso modo. Poi, a partire dal 1928, prese l’abitudine di riprodurre fedelmente i quadri finiti, disegnando ogni volta, all’interno di una cornice ben definita, prima a matita e poi con penna a inchiostro, il “d’après” della propria opera. Come scrive O’Doherty nel testo introduttivo, Hopper in questo modo «attraverso una riproduzione a posteriori, riconduce la sua opera allo stato di idea. Gli schizzi dei registri, nel loro carattere sommario e concettuale, riportano forse Hopper – e noi – all’idea originale per il dipinto – idea che si dissolve, secondo la sua stessa testimonianza».

Era stato infatti Hopper a parlare più volte, nei suoi scarni scritti o dichiarazioni pubbliche, di un rischio di “decadimento” dell’idea nel farsi stesso dell’opera. «Il soggetto arriva lentamente, prende forma: poi, purtroppo, sopraggiunge l’invenzione», aveva spiegato nel 1962, in una lunga intervista a Katherine Kuh. Il tentativo invece era quello di «fissare ogni volta sulla tela le reazioni più mie intime di fronte al soggetto, così come mi appare quando lo amo di più: quando cioè il mio interesse e il mio modo di vedere riescono a dare unità alle cose». E ancora: «Mi scontro sempre, quando lavoro, con la fastidiosa intrusione di elementi che non fanno parte della visione che mi interessa: l’opera stessa, nel suo procedere, finisce per cancellare e rimpiazzare la visione originaria. La lotta per evitare questo decadimento è il destino, penso, di tutti i pittori a cui non interessa inventare delle forme arbitrarie».

Hopper con questo sguardo a ritroso va dunque ogni volta a recuperare l’idea al suo stato più puro, in un certo senso la mette in salvo. Recupera così quel passaggio cruciale della sua formazione che corrisponde ai lunghi anni dedicati all’acquaforte, una tecnica grazie alla quale le immagini, come lui stesso aveva sottolineato, «arrivavano a cristallizzarsi». Sempre grazie alla disciplina esecutiva e mentale imposta dall’acquaforte era anche maturato quello che in un altro testo O’Doherty ha definito «il fatidico matrimonio tra il pittore e il suo soggetto». 

In questi schizzi “a posteriori” infatti ritroviamo spesso l’idea allo stato puro e nascente. Prendiamo il celebre “Morning Sun” (1952). Nel disegno il tratteggio a penna lascia libero il grande rettangolo del sole che batte sulla parete, reso con il bianco “nudo” della carta, in continuità con il cielo, oltre la finestra, lasciato ugualmente bianco. Si coglie così quella radicalità dell’intenzione che nel quadro si attenua, a vantaggio di una stesura pittorica così calibrata, densa e riflessiva. 

Per il resto gli “Artist’s Ledger Books” sono territorio sotto completo controllo di Jo, che affianca una disciplina descrittiva a vere scorribande. Schedando uno dei capolavori di Edward, “Cape Code Evening”, sottolinea il dettaglio del disegno sul vetro smerigliato della porta della casa, ma poi mette un asterisco vicino al titolo e annota una sua osservazione: «Doveva chiamarsi “Uccello notturno”. Il cane lo sente. Donna finlandese e arcigna. (Lei è uccello notturno). L’uccello è lì ma fuori vista». Per “Second Story Sunlight” (1960) la ragazza sulla balaustra viene liquidata così: «“Brava pupa, sveglia ma turbolenta. Un agnello travestito da lupo”. Citazione del pittore». 

Commovente invece la reticenza che accompagna la didascalia per l’ultima opera di Hopper, “Two Comedians” (1966), dove lei e lui si accomiatano dalla scena, in vesti di clown, con un senso di suprema leggerezza e ironia. Scrive Jo: «Terminata 10 nov. 1966 nello studio di S. Truro… figura bianca su fondo scuro, leggermente verde a d.». Hopper sarebbe morto a maggio del 1967. Lei lo avrebbe seguito 10 mesi dopo. 

Pubblicato su “Alias” il 27 dicembre 2020

Written by gfrangi

Dicembre 28th, 2020 at 6:00 pm

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Un pomeriggio con Matisse

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Vence_Pag59

C’è voglia di capire e di scoprire. Il workshop dedicato all’ultimo Matisse proposto sabato 22 a Casa Testori è funzionato per un doppio motivo: perché il contenuto degli interventi è stato alto e non scontato; in secondo luogo, perché la sala era piena, e questa non è affatto una cosa scontata, in un sabato pomeriggio di primavera e con anche una quota prevista per partecipare.
Quindi innazitutto un grazie a tutti quelli che hanno reso possibile da una parte e dall’altra del tavolo la realizzaione di questo workshop.
Sintetizzo per chi non c’era alcuni dei temi emersi. Ha inziato il pomeriggio Davide Dall’Ombra, facendo riscoprire quel contatto tra Matisse e il giovane Testori. Era il 1943 e l’allora ventenne Testori curò un libro sui disegni di Matisse. Un libro anticipatore perché era il secondo uscito in Italia dedicato al maestro francese, e poi perché metteva subtio a tema la centralità del disegno nel percorso di Matisse. Da segnarsi anche i titoli di alcuni interventi di T. sul Corriere e sul Sabato, negli anni 80: “Il re della luce”; “Matisse una croce in Paradiso”.
Sono titoli che hanno dato lo spunto a Marco Meneguzzo per supportare il suo ragionamento affascinante in cui ha cercato di cogliere quella sottile eterogeneità di Matisse rispetto alle grandi famiglie dell’arte del 900. Un punto chiave, perché questa etereogenità è la componente che permette a Matisse di essere così straordinariamente libero rispetto ai passaggi obbligati della storia dell’arte novecentesca. Composizione e decorazione sono due categorie in cui questa libertà si gioca, senza nessuno timore di veder ridimensionato l’esito finale. Matisse, ha spiegato Meneguzzo, è un artista imprendibile se osservato con categorie scolastiche; è uno assolutamente moderno, ma non “collocabile” in nessuna famiglia della modernità. Inevitabile l’aggancio con quei titoli testoriani: è uno che ha avuto la grazia di vedere la pace dopo il dramma, come dimostrano i suoi crocifissi.
Terzo passaggio del pomeriggio, una conversazione con Basilio Rodella sulla campagna fotografica realizzata per il libro sulla cappella di Vence appena pubblicato da Jaca Book. Una campagna che esalta lo spazio come un tutt’uno, realizzata senza il ricorso a luci aritificiali, per cui la luce, voluta da Matisse, quella filtrata dalle straordinarie vetrate che cambia in ogni istante, torna a riempire di sè lo spazio, a far vibrare le piastrelle bianche dei tre grandi riquadri disegnati da Matisse. «Voglio rendere evidente agli altri l’intenerimento del mio cuore», aveva scritto Matisse alla neo suora Jacques-Marie nel 1945. Non c’è didascalia migliore per il “fiore” di Vence (“fleur” lo definiva Matisse, sapendo che in francese anche “fleurt” ha lo stesso suono). Il grande pittore innamorato, forse di una ragazza diventata suora, della natura, del mondo, di Dio… (la foto sopra fa parte del libro: è la stupenda porta del confessionale, in legno intagliato a giorno)
Ha chiuso il pomeriggio la bellissima e sorprendente carrellata di Marco Casentini che ha dimostrato quanto Matisse abbia contaminato l’arte contemporanea. Siamo tutti figli della Finestra a Cailloure (1918) o della grande Danza dipinta per la Barnes collection di Filadelfia, ha dimostrato Casentino, mostrando anche alla fine anche suoi ultimi lavori. Linee continue, colori piatti, figure interrotte, forme concrete e astratte insieme: nessuno come Matisse ha aperto (o reso liberi) tanti orizzonti.
Ma il viaggio continua: prossimo appuntamento il 12 aprile per vedere insieme la mostra di Ferrara.

Written by gfrangi

Marzo 24th, 2014 at 1:13 pm