Robe da chiodi

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Beuys, rivoluzione è resurrezione

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C’è un’immagine tra le migliaia che documentano la vita e le azioni di Joseph Beuys, più indimenticabile di ogni altra. È quella scattata a Napoli, nella galleria di Lucio Amelio, il 17 aprile 1981. Vediamo l’artista, appartato e rannicchiato sotto uno dei tavoli da lavoro che aveva raccolto nelle zone colpite dal terremoto dell’Irpinia. Con matite di diversi colori stava tracciando su un rotolo di carta per elettrocardiogrammi lungo ben 34 metri, il “diagramma terremoto”: come un sismografo umano, voleva visualizzare la possibile trasformazione positiva di quella componente catastrofica che aveva travolto il Mezzogiorno italiano.

Nella sua azione era implicita l’accusa alle inadempienze di una politica che aveva reso così vulnerabile quel pezzo d’Italia da lui tanto amato, ma da artista sentiva di dover andare oltre: cogliere il potenziale esplosivo del terremoto per attivare un salto di coscienza collettiva. L’energia sprigionata dalla terra non andava demonizzata ma trasformata in energia creativa che mettesse in movimento le persone. 

Joseph Beuys, Terremoto in palazzo, 1981

C’è tutto Beuys in quell’azione. L’opera è un objet trouvé che risente di tutta la fragilità e la precarietà di quella realtà ferita (uno dei tavoli era in bilico, appoggiato su barattoli di vetro). Il titolo “Terremoto in palazzo” richiamava la categoria pasoliniana del potere, ma con l’ansia di reimpossessarsene. «Quel palazzo che dovremo prima conquistare e poi abitare in modo degno», avrebbe detto nell’ultima intervista rilasciata a Michele Buonomo. L’uomo sotto il tavolo è poi anche l’anti star, l’artista sceso dal piedistallo che dialoga, cerca ascolto e trova ascolto. 

Fa perciò un po’ sorridere l’idea che, nel 1961, al suo primo incarico all’Accademia di Düsseldorf a Joseph Beuys fosse stata assegnata la cattedra di “Scultura monumentale”. È tra quelle aule che aveva avuto tra i primi allievi Gerhard Richter, transfuga dalla Germania Est: la situazione è ben ricostruita nel film “Opera senza autore” di von Donnersmarck. «Le cose iniziano ad andare male quando qualcuno va a comprare un telaio e una tela», era uno dei leit motiv del Beuys insegnante. Un avvertimento decisivo per quell’allievo che per ricominciare a dipingere dovette passare attraverso un vero azzeramento delle proprie certezze e competenze.

Joseph Beuys davanti al cimitero di Gibellina, 1981

In realtà né “scultura”, né “monumentale” sono fuori luogo rispetto a Beuys. Semmai si dilata e muta radicalmente l’accezione di quei due termini. Per quanto riguarda “scultura” tutta l’opera dell’artista si configura come “soziale Plastik”, secondo la sua stessa definizione. «L’evoluzione va dall’arte moderna – cioè dall’arte tradizionale perché io considero tradizionale anche l’arte moderna – all’arte antropologica, e in quel contesto si realizza l’arte sociale: la società come opera d’arte», aveva detto Beuys nel bellissimo dialogo con Michael Ende raccolto in “Arte e politica una discussione” (Guanda, 1994). Scultura è quindi un lavoro di «configurazione del corpo sociale come grande opera d’arte». L’artista Joseph Beuys lavora a liberare l’energia artistica che è di ogni persona; la sua “scultura” prende la forma del cambiamento delle persone spinte a sperimentare un livello più alto di libertà. 

«When Attitude Becomes Form» era il titolo della rivoluzionaria mostra bernese curata da Harqld Szeemann nel 1969. In Beuys, evidentemente tra i protagonisti dell’esposizione, quell’accezione di attitudine travalicava l’orizzonte personale e si concepiva come tensione verso un cambio di status collettivo. L’arte rompeva la “cornice”, travalicava nel corpo sociale: in questo senso l’accezione “monumentale” trova una giustificazione. È “monumentale” l’obiettivo che Beuys assegna alla arte rinnovata. Aveva dichiarato le sue “ambizioni” già nel 1972, quando, sempre a Napoli e sempre da Lucio Amelio, aveva presentato la grande foto-autoritratto “La rivoluzione siamo noi”, scattata a Villa Orlandi ad Anacapri. È un Beuys spavaldo che ci viene incontro con stivaloni, cappello di feltro in testa, un giubbotto chiaro e il suo classico borsello a tracolla. La rivoluzione non è più un progetto, un obiettivo ma un processo messo in atto e che sta irrompendo nel presente. Rivoluzione è infatti sinonimo di resurrezione, una definizione a cui Beuys, nato da famiglia cattolica, ricorre spesso: «È il principio della resurrezione: trasformare la vecchia figura che muore ed è irrigidita in una figura viva, pulsante, che stimola la vita, l’anima, lo spirito».

Joseph Beuys, Olivestone, 1984, dettaglio

In questo processo di rigenerazione sociale, la natura fa da maestra e indica la strada: «Dico che l’albero è anche un segnale della trasformazione della società. È un segno che dimostra che la società deve essere elevata a un nuovo, terzo livello, anche secondo i punti di vista organici, senza alcuni ideologia, e soprattutto al di là di capitalismo e comunismo». La forza di Beuys è quella di ricondurre tutta questa prospettiva epocale a pratiche di estrema concretezza ed esemplarità, che lo proteggono dal rischio di deviare nell’utopia. Il caso più emblematico e celebre è quello delle «7.000 querce», l’opera con la quale si era presentato alla settima edizione di Documenta nel 1982. Aveva invaso la piazza davanti al Fridericianum, epicentro della grande manifestazione di Kassel, con 7.000 lastre di basalto, adottabili da chiunque volesse: con i soldi ricavati furono piantate negli anni altrettante querce nei dintorni della città tedesca, ciascuna segnalata dalla presenza di una delle lastre. Era parte del grande progetto “Difesa della natura” che ha occupato l’artista nell’ultimo periodo della sua vita. Anche in questo caso l’Italia è stato lo scenario privilegiato, grazie al rapporto con Buby Durini e Lucrezia De Domizio Durini. Proprio a Bolognano, nel cuore dell’Abruzzo, nella tenuta dei baroni Durini, Beuys aveva trovato le grandi vasche di decantazione dell’olio che trasformerà in una delle sue installazioni più celebri, realizzata due anni prima della morte, nel 1984. Cinque vasche antiche di tre secoli, tutte scavate a mano nella pietra, che Beuys aveva sigillato con una lastra di arenaria, tenuta sempre bagnata con l’olio. Se le vasche inevitabilmente richiamano l’immagine dei sepolcri, la pietra unta diffonde un profumo e dei cromatismi cangianti che restituiscono l’esperienza di un ciclo di vita che continua. È un’opera rituale, dove quelle pietre sempre vive, riscattano la squadratura brutalmente risolutiva delle vasche. Nella sala del Kunstmuseum di Zurigo, dove “Olivestone” è conservata per donazione di Lucrezia Durini, l’opera è accompagnata da una piccola tavola quattrocentesca con una Deposizione nel sepolcro: un’associazione che romanda a quel binomio caro a Beuys, “rivoluzione/resurrezione”. 

Articolo pubblicato su Il Manifesto, 11 maggio 2021

Written by gfrangi

Maggio 15th, 2021 at 9:18 am

Pasquale Trisorio e l’uomo con il cappello di Feltro

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Beuys a Villa Orlando ad Anacapri con la famiglia Trisorio

Articolo scritto per Alias, pubblicato l’8 marzo 2020

Lo scatto è del 13 novembre 1972: Josef Beuys, cappello di feltro in testa, giubbotto chiaro e il suo classico borsello a tracolla, cammina con un passo pieno di convinzioni verso l’obiettivo e quindi verso di noi. È un’immagine che accoppiata al suo famoso titolo, “La rivoluzione siamo noi”, avrebbe segnato un’epoca. Intorno a Beuys si scorge uno scenario un po’ delabré, da architettura mediterranea decaduta: è quello di Villa Orlandi ad Anacapri, una bellissima costruzione di fine Settecento in abbandono che due anni prima Pasquale Trisorio aveva accettato di risistemare e far rivivere. Trisorio ai tempi faceva parte della squadra di Modern Art Agency, fondata da Lucio Amelio nel 1965: una realtà che aveva aperto la scena artistica napoletana a personaggi come Robert Rauschenberg, Keith Haring, Cy Twombly. Trisorio raccontava di aver sentito “suonare i campanelli” quando la fondazione proprietaria della villa nel 1970 aveva lanciato la chiamata per trovarle una destinazione: ne avrebbe fatto la “cosa che non c’era”, un luogo di incontro e di ritrovo per tanti artisti, con possibilità anche di stare per lunghi periodi a lavorare, usando gli spazi della Villa come studio. Sono rimasti dei bellissimi album dei visitatori a documentare lo straordinario flusso di ospitalità fino all’anno in cui la Villa venne lasciata, nel 1989. Tra i primi c’è proprio Beuys che nel 1971 firma con quattro polaroid della sua famiglia (oltre a lui, la moglie, le figlie Wenzel e Yessyka). La selezione degli album occupa quasi la metà del volume monumentale che la moglie Lucia e la figlia Laura hanno voluto per restituire una documentazione soprattutto visiva della parabola di questo protagonista di quella grande stagione artistica napoletana (“Studio Trisorio. Una storia d’arte”, Electa, pag 566, 80 euro). Una stagione segnata anche da un amaro destino: da Marcello Rumma, a Lucio Amelio fino a Trisorio sono tutti morti prematuramente (Trisorio morì a 60 anni a Lione nel 1992). 

Tutto in una foto: da sinistra, Amelio, Kounellis, Trisorio, Celant e Beuys

Il passaggio chiave per Amelio e Trisorio matura alla metà degli anni 70. Per un anno erano stati in società nella Modern Art Agency, ma le loro erano personalità troppo forti per convivere a lungo. Così nel 1974 Trisorio apriva il suo spazio a Riviera di Chiaia, con una mostra di Dan Flavin in collaborazione con la Galleria Sonnabend. «Le luci sono bellissime», disse il meccanico che occupava il cortile. «Ma i quadri quando li appenderete?».  Era in questa Napoli vitale e trasversale che Trisorio e Amelio si muovevano; una Napoli in cui fiorivano tante realtà come lo Studio Morra, il Centro di Dina Caróla, la Galleria Lia Rumma. Amelio nel 1975 apriva la sua galleria con un’installazione destinata a segnare la storia: “Tragedia civile” di Jannis Kounellis, pensata all’indomani della strage di Piazza della Loggia. Lo stesso Kounellis compare in una foto del 1972 a Villa Orlandi: attorno al tavolo, dove avevano finito di pranzare, si riconoscono Beuys, Germano Celant, Lucio Amelio e Pasquale Trisorio (lo scatto era di Gianfranco Gorgoni). «Tutto in una foto», scrive Michele Bonuomo «Quel giorno di inizio estate l’uomo con il cappello di feltro ha fatto incrociare i destini dei quattro, e lanciando da Villa Orlandi la parola d’ordine “La rivoluzione siamo noi” segna in qualche modo la vicenda futura di ciascuno di loro. Anche Pasquale raccoglie l’esortazione e da quel momento tutto cambia in lui». L’invito di Beuys, espresso in quel passo risoluto sul viale di Villa Orlandi, era quello di fare di Napoli il teatro antropologicamente perfetto per la sua idea di opera d’arte come corpo sociale. Non c’era nulla di ideologico o di antagonistico in quello slogan di Beuys; piuttosto c’era una spinta vitalistica destinata a trasmettere energia alla scena artistica napoletana. Energia e insieme libertà: emblematico al proposito è l’episodio raccontato nel volume, relativo ancora a Kounellis. L’artista greco era uno dei più fedeli a Villa Orlandi, dove passava lunghi periodi a lavorare. Un giorno se ne allontanò dicendo che sarebbe tornato dopo due giorni. In realtà sparì, lasciando vestiti, carte, materiali per dipingere, lavori iniziati. Durante l’inverno un gruppo di scugnizzi di Anacapri entrarono nella Villa e si divertirono a dipingere sulle tele dell’artista. Trisorio raccontava di aver conservato una tela grigia di Kounellis con sopra una chiesetta bianca e una luna dipinta da quei bambini.

C’è una cifra che caratterizza la proposta espositiva di Trisorio: un trasversalismo che gli permise di puntare subito i suoi interessi sulla fotografia. Nel 1976 affidò a Mirella Miraglia la curatela della mostra che portò alla scoperta delle fotografie di Paolo Michetti: una vera rivelazione, con quello scatto di D’Annunzio sulla spiaggia di Francavilla o la sequenza della Mattanza dei tonni ad Acireale. Il rapporto più intenso è stato naturalmente quello con Mimmo Jodice, napoletano doc, altro abituale frequentatore di Villa Orlandi: nel 1978 la Galleria presentò la mostra “Identificazione”, dove le immagini di Jodice erano affiancate a quelle di coloro che lui riteneva i suoi maestri. Nel cartoncino d’invito infatti c’era non una sua immagine ma la celebre e sofferta foto del padre scattata da Richard Avedon.

Aprire alla fotografia comportò anche un’attenzione precoce alla videoarte: è del novembre 1982 la rassegna “Differenza Video”s che in quattro giorni vide alternarsi tutti i maggiori artisti, da Bruce Nauman, a Bill Viola, Nam June Paik, Joan Jonas… Forse è sull’onda di quell’esperienza che Laura, una delle tre figlie di Pasquale, una volta morto il padre decise di avviare l’avventura di Festival Artecinema, una rassegna di documentari d’arte contemporanea, che dal 1996 ogni anno a ottobre invade tanti teatro e cinema di Napoli, a iniziare del San Carlo, con un successo costante di pubblico. 

Quanto a Pasquale lo vediamo vivere nella sequenza lunghissima di foto, sempre felice di condividere nuove avventure con gli artisti che si alternavano nella sua Galleria. Si respira sempre un tono di simpatia e di complicità anche laddove le prove erano po’ estreme. Nel 1975 Vincent D’Arista gli propose un progetto che prevedeva la distruzione della Galleria durante la mostra di Shusaku Arakawa. Dopo un po’ di resistenze Trisorio diede il via libera senza sapere quale fosse l’intenzione finale di D’Arista: la distruzione della Galleria prevedeva inevitabilmente l’eliminazione del gallerista. Trisorio venne legato con uno spago e costretto a stare sdraiato. “Don’t Step on Me” era il titolo della performance. “Non calpestarmi”. Nel 1999 Maurizio Cattelan avrebbe ripetuto il rito legando e appendendo Massimo De Carlo al muro della sua Galleria milanese. Trisorio da lassù avrà sorriso…

Written by gfrangi

Marzo 12th, 2020 at 2:26 pm

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Napoli palestra del contemporaneo

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Ci voleva un libro fuori dall’ordinario per narrare gli straordinari percorsi dell’arte contemporanea a Napoli negli ultimi 50 anni. Ad esempio un Atlante che fosse capace di restituire in modo visibile, nome per nome, luogo per luogo, data per data, la ricchezza imprevedibile di questo percorso. È nato così questo Atlante dell’Arte Contemporanea a Napoli e Campania 1966-2016, curato da Vincenzo Trione, risultato del lavoro svolto dal Dipartimento di ricerca del museo Madre (Electa, bello il progetto grafico dello studio LeftLoft). Un libro irripetibile, perché se lo schema dell’Atlante potrebbe (e forse dovrebbe) essere tentato per qualche altra città italiana, il risultato sarebbe difficilmente paragonabile. L’Arte Contemporanea a Napoli nell’ultimo cinquantennio è un fenomeno che ha innervato la vita della città, scaturendo dall’intelligenza di straordinari personalità come Lucio Amelio, che nel 1965 in un appartamento al Parco Margherita iniziava la sua avventura di gallerista (sino ad allora era stato impiegato presso un’azienda tedesca di prodotti chimici per l’edilizia). Un fenomeno che ha poi trovato terreno fertile nella ricezione di un pubblico non semplicemente di settore e persino, in certe stagioni, nelle istituzioni. Il traino era arrivato in particolare dallo slancio di un gruppo di galleristi, capaci, come scrive Trione nel testo introduttivo, di offrire «una ricca trama di informazioni sulle tendenze della neoavanguardia. Un’effervescenza corsara che coinvolgerà personalità di notevole rilievo internazionale».

È del 1968 la mostra “Arte povera più azioni povere”, curata da Germano Celant agli Arsenali di Amalfi, mostra nata dall’iniziativa di Marcello Rumma, affiancato dalla moglie Lia (che avrebbe aperto la sua galleria di lì a poco, nel 1971, con Joseph Kosuth all’esordio): da una parte uno spazio con le opere installate, dall’altra azioni e interventi nel tessuto della cittadina campana. È un po’ il prototipo di un modello che si rinnoverà in forme diverse nei decenni successivi: l’arte contemporanea travalica gli spazi prestabiliti e cerca contaminazioni continue con la vita della città. L’episodio più celebre è certamente quello di Terrae Motus, che vide protagonista ancora una volta Lucio Amelio. «Dall’esperienza fisica ed emotiva del terremoto alla decisione di fare Terrae Motus non intercorse tempo», aveva raccontato lo stesso Amelio in un dialogo con Edoardo Cicelyn, il primo direttore del Madre. «Praticamente subito, mentre ancora la terra tremava il progetto era già pronto». È proprio questa urgenza di un orizzonte che fosse partecipato e collettivo che fa dell’esperienza del contemporaneo a Napoli qualcosa di unico. Nello specifico l’idea era quella di provare a vedere nel terremoto non solo un evento catastrofico, ma anche, ottimisticamente, una spinta al rinnovamento. Questo era ciò che Amelio chiedeva agli artisti. Le adesioni furono tantissime, da ogni parte del mondo. Nel 1981 arrivò Joseph Beuys. L’anno successivo fu la volta di Andy Warhol con il suo celebre “Fate presto”.

In parallelo attecchisce anche una scuola di Napoli, con due artisti simbolo come Nino Longobardi (1953) ed Ernesto Tatafiore (1943). Il primo dal temperamento drammatico, l’altro all’opposto solare. Longobardi ad un mese dal sisma aveva esposto da Amelio, come un archeologo visionario, grandi tele dipinte durante le scosse telluriche. Seguono poi le star, come Mimmo Paladino, Francesco Clemente o Nicola De Maria, che pur nella loro dimensione internazionale conserveranno sempre quell’originario imprinting partenopeo (che consiste, come ha scritto Lea Vergine, nella consapevolezza che «nelle mani spesso tutto diventa polvere»).
Tuttavia il segno su questa lunga stagione di Napoli è soprattutto il segno lasciato da un gruppo di privati, appassionati, capaci di relazioni di grande qualità e aperti alla città. Oltre ad Amelio e ai coniugi Rumma, vanno citati Pasquale Trisorio, Dino Caròla, Alfonso Artiaco e Giuseppe Morra, che a partire dal 1974 ha stretto un sodalizio con il grande artista e performer austriaco Hermann Nitsch. Oggi a Napoli ha sede il Museo Nitsch, entità di peso internazionale, a cui Morra ha affiancato recentemente una Casa Museo con duemila opere della sua collezione.

Anche l’amministrazione pubblica a tratti ha accompagnato questo percorso, in particolare nella stagione bassoliniana con la serie delle grandi installazioni di Piazza del Plebiscito, iniziate nel 1995 con la Montagna di Sale di Paladino. Ma a Bassolino si deve anche la decisione coraggiosa di lanciare il Madre, un museo che pur tra tante difficoltà, è sempre stato capace di una grande vivacità di proposte. Ed è una grandiosa opera pubblica anche la “Metropolitana dell’arte”, il “museo obbligatorio” (Achille Bonito Oliva) che ha trasformato le stazioni in spettacolari installazioni: una sfida a pensarci bene inaudita, che ha dotato Napoli di un’infrastruttura unica al mondo per qualità estetica e per la ricchezza dei contributi artistici. Proprio in questi giorni è stata terminata un’uscita della stazione di Monte Sant’Angelo, progettata da Anish Kapoor: una grande struttura in acciaio corten a forma di bocca o, secondo alcuni, di vulva da cui sbucheranno le scale mobili.
Per tornare all’Atlante, va sottolineata la struttura del volume, che si compone di quattro sezioni dove in ordine alfabetico vengono presentati in modo completo gli artisti, le gallerie, le strutture museali e soprattutto le mostre che hanno segnato la storia di questi 50 anni. In chiusura un album fotografico scorre come un film, il cui copione ha come filo conduttore la continua, e per molti tratti appassionata, commistione tra l’arte e la vita della città.

Written by gfrangi

Ottobre 25th, 2017 at 9:38 pm

Ai Weiwei, il simbolo di questi nostri anni

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Volenti o nolenti Ai Weiwei è l’artista simbolo di questi anni. Lo dimostra la mostra curata da Artutro Galansino è aperta in questi giorni a Palazzo Strozzi. Una mostra impeccabile, completa, che nella sua ossessione per una pulizia formale dal punto di vista allestiti o riesce anche ad emozionare (impressiona il silenzio con cui le persone visitano la mostra).
Perché Ai Weiwei può essere ritenuto artista simbolo? Provo a rispondere. Innanzitutto per quanto sia “personaggio”, lui si muove in una dimensione collettiva. Le sue opere sembrano sempre nate più da un noi, che ogni volta muta, che da un io. È un artista in perenne relazione con “altri”. È questa relazione è il fondamento di ogni sua creazione artistica. È artista sociale, sulla scia di Joseph Beuys: l’opera non è nell’oggetto ma nella coscienza che determina in chi la vede. In questo è anche un artista molto empatico, che sa tramettere conoscenze attraverso le emozioni. «È diventato una cosa simbolica essere artista», dice. «Seguendo Duchamp mi sono reso conto che essere un artista è più uno stile di vita è un atteggiamento che non la produzione di qualche oggetto».

Ai Weiwei poi è un artista che gioca allo scoperto. È in un certo senso perennemente collegato con il mondo. Racconta tutto di se stesso. È artista pubblico per antonomasia. Si sa sempre tutto di lui. E anche nelle opere molto warholianamente sono tutte in superficie. Hanno significati che è facile scoprire e anche memorizzare (prendete le opere realizzate dopo il terremoto di Sichuan che causò stragi di bambini per le scuole mal costruite).
Per questo Weiwei è una artista tutto esposto sul presente (la tradizione, dice, è un punto di partenza per compiere un gesto nuovo). Il titolo dell’installazione con i gommoni appesi sulla facciata di Palazzo Strozzi è emblematico: “Reframe”. Il passato ha bisogno di una nuova cornice, che parli all’oggi. Una cornice che rispetti le misure della tradizione ma che apra finestre sul presente.

Sono tutti fattori che rendono sempre molto “umane” le sue opere. Si avverte che il suo operare artistico è sempre mosso da una grande simpatia verso i propri simili. Ed è questa simpatia che lo induce ad essere sempre così “social”. La simpatia è qualcosa che va oltre la denuncia. Se ha appeso i gommoni da salvataggio sulle facciate di Palazzo Strozzi lo ha fatto non per «una provocazione ma per un invito ad un altro modo di sentire l’umanità». Questa è una dimensione che si “respira” in ogni sua opera, che diventa la sua ragion d’essere.

C’è teatralità, c’è scaltrezza, c’è una straordinaria abilità sartoriale nei suoi lavori. Ma alla fine quello che resta è soprattutto un segno umano, semplice, che è difficile dimenticare. Poi si possono fare tutte le obiezioni del mondo su di lui, ma è difficile negare che Ai Weiwei ci abbia considerati tutti ogni volta un po’ suoi “fratelli”.
Ps: Ai Weiwei è architetto. E lo si vede da come ha allestito questa mostra, che esalta come non è mai accaduto gli spazi meravigliosi di Palazzo Strozzi. Si può dire che si vedono due mostre in una: Ai Weiwei e gli interni del palazzo.

Written by gfrangi

Settembre 24th, 2016 at 7:02 am

Fare esperienza di Beuys, a Zurigo

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Una due giorni a Zurigo, per anniversario nozze. L’occasione per tornare nel Kunstmuseum nella nuova sistemazione, per vedere le vetrate di Sigmar Polke al GrossMünster e per mettersi sulle tracce di Morandi al Reinhard di Winterthur (uno delle sue sole mete fuori di Italia).
Al Kunstmuseum la folgorazione è in tre sale del contemporaneo. Prima quella di Cy Twombly con il ciclo del Viaggio di Goethe in Italia. Bellissimo e c’è tutto il felice frastuono che l’Italia può riversare in un’anima tedesca. Una tela, meravigliosa, nuda e bianchissima per un terzo, sotto ha una cascata di pittura color verde e terra. Sembra di vedere l’irruzione di un modo di vedere il mondo. Nella seconda sala enorme c’è il trionfo di Georg Baselitz, con 20 tavole allineate, dipinte e poi grattate con un lucida furia. Sembrano matrici di grandi xilografie che si siano ribellate alla loro funzione di supporto. Di fronte c’è un grande Kiefer: vi assicuro che il confronto lo spegne e lo sospinge lontano. Sembra figlio di un’altra epoca, riaffiorato solo ora. Tanto Baselitz fa breccia, tanto Kiefer affonda nel suo mondo immaginario. E molto letterario. (A destra due grandi Polke, magnifici, enigmatici, eleganti, sofisticati e pop allo stesso tempo).
La terza sala è indimenticabile ancora e più delle altre: è quella in cui sono state sistemate le Oliverstone di Beuys. Sono cinque vasche di pietra del 700 in cui veniva messo l’olio a decantare nelle tenute dell famigila di Lucrezia De Domizio Durini, a Bolognano, in Abruzzo. Beuys fece fare con la stessa pietra, l’arenaria di Lettomanoppello, delle lastre che fungono da tappi. Per cui le cinque vasche diventano come cinque sepolcri. E l’olio è questo tramite tra la morte e la vita: le lastre infatti sono periodicamente unte, con piccole pozze che si formano nelle irregolarità della pietra. La gente ci mette il dito e poi lo pulisce sul muro verso l’uscita, che racconta involontariamente il nostro passaggio. Ma nell’allestimento il colpo d’ala è il quadro quattrocentesco, tedesco, con la Sepoltura di Cristo. È un raccordo semplice e potente, che rende emotivamente indimenticabile quella sala. Aveva detto Beuys: «Io credo che si capisca bene che l’arte deve passare per il sensibile. Si tratta di qualcosa che è diverso dal risultato di un processo di conoscenza. E pertanto io penso che si ha a che fare con un processo di conoscenza quando si prende coscienza di questo». L’arte come punto di incrocio su esperienza sensibile, conoscenza e coscienza: questo avviene in quella sala. Qui vedete un breve filmato che vi porta nella sala VideoSalaBeuys

Written by gfrangi

Maggio 10th, 2014 at 1:26 pm

Warhol, il titolo è tutto

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Warhol, Fate presto, 1980

Andy Warhol è davvero un artista infinito. Ne ho avuto conferma un’altra volta vedendo la mostra in corso a Roma, alla Galleria d’Arte Moderna, sul suo rapporto con i giornali. L’hanno chiamata Headlines, ed è il “titolo” più giusto perché con la sua genialità elementare Warhol vede in questo elemento il punto chiave dell’informazione giornalistica: che al titolo affida l’immediatezza per affondare nella sensibilità dei lettori e attorno al titolo costruisce la propria struttura architettonica. In che senso Warhol è infinito? Perché è un artista che non si smette mai di scoprire e di conoscere. È un artista da cui continuano a scaturire cose nuove: non nel senso feticistico dell’inedito, bensì nella novità della prospettiva che spalanca. Il che è molto più interessante. La mostra di Roma è di grande impatto, imperniata sul quel grande trittico del Fate presto (titolo del Mattino di Napoli all’indomani del terremoto in Irpinia). Al centro del Trittico c’è la versione serigrafata bianco su bianco del prima pagina del Mattino, che rappresenta uno slittamento della cronaca verso quel luogo enigmatico che è il passaggio tra vita e la morte. Lo si guarda con il fiato sospeso, per la purezza, e per quella consistenza un po’ amniotica. Ma intanto nel percorso siamo passati per il primo celebre lavoro sul Daily Mirror: “129 dead in jet” del 1962: non ancora serigrafia, ma dipinto, quadro di dimensioni “urlate”, in cui i caratteri del titolo assai più che l’immagine diventano insieme messaggio e struttura. Assoluta elementarità che sprigiona un’energia comunicativa quasi primordiale. Come avrebbe spiegato in altra occasione Warhol, non era tanto il fatto che lo interessava, bensì l’artificio attraverso il quale il fatto diventa un’operazione di gestione della psicologia collettiva.
Di una bellezza e di un’intelligenza sorprendenti è la cartella realizzata all’indomani dell’assassino di John Kennedy: dispacci di agenzia riscritti e scanditi con il ritmo angoscioso delle notizia che scivolano verso un epilogo senza ritorno, alternate a straordinarie immagini virate in diverse monocromie. E Warhol spiega appunto di concepire questa sua operazione per liberare l’America dalla tristezza in cui era rimasta come schiacciata dalla morte di Kennedy. Poi appunto, il Trittico napoletano, che era stato preceduto mesi prima da un primo esaltante contatto con la città, su invito di un grande gallerista insieme a Beuys. Allora Warhol aveva affidato una piccola poesia, pubblicata proprio dal Mattino, un suo pensiero su Napoli: «Amo Napoli perché mi ricorda New York, specialmente per i tanti travestiti e per i rifiuti per strada. Come New York è una città che cade a pezzi, e nonostante tutto la gente è felice come quella di New York. Quello che preferisco di più a Napoli è visitare tutte le vecchie famiglie nei loro vecchi palazzi che sembrano stare in piedi tenuti insieme da una corda, dando quasi l’impressione di voler cadere in mare da un momento all’altro…».

Buono il catalogo Electa, completo e con una copertina felice. Solo due appunti volanti: il Trittico Fate presto presentato su tre pagine divise: quell’opera è un tutt’uno che non va “spaccato”. E la cartella su JFK che avrei impaginato così com’è stata esposta: rende molto di più il ritmo che Warhol aveva in testa.

Mostra vista in compagnia di Alessandro e Bea, intelligenti e complememtari nelle loro osservazioni. Con Bea ho capito meglio la funzione strategica del bianco e del nero nel Trittico, con Ale ho scoperto che quella prima pagina del Mattino aveva rappresentato un qualcosa di storico nel nostro giornalismo, con il direttore Roberto Ciuni che aveva sguinzagliato i giovani sulle zone del disastro, lasciando in panchina i vecchi inviati. Evidentemente Warhol ci aveva visto giusto anche in questo.

Written by gfrangi

Giugno 25th, 2012 at 1:18 pm

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Beuys in Vaticano (se ci fosse stato Ravasi)

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Gianfranco Ravasi, da pochi mesi “ministro” della cultura vaticana, è un uomo intelligente e non affetto da clericalismo. In un’intervista rilasciata alla Frankfurter Allgemeine Zeitung (e pubblicata questo mese dal Giornale dell’arte) affronta in modo finalmente coraggioso il tema del rapporto tra la chiesa e l’arte moderna. Bacchetta severamente il sin troppo sbandierato nuovo Lezionario in cui sono state inserite opere di Paladino e Chia («artisti validi ma persino i loro lavori sono parsi privi di ispirazione»). Dice Ravasi: «…Forse allora è la chiesa ad aver perso contatto con la creatività». «L’arte contemporanea deve essere presente nei nuovi spazi delle chiese. Ci vorranno anni per dar vita a un nuovo gusto, ma da qualche parte bisognerà pur cominciare». Come esempio di questa incapacità di comprendere quel che di nuovo si presenta sulla scena del mondo Ravasi cita la piccola Crocifissione di Joseph Beuys, del 1963. «La Chiesa avrebbe dovuta acquistarla negli anni 60, sarebbe stata un grande segnale».
beuys-crocifissioneLa Crocifissione (nella foto) si compone di due flaconi già usati per la conservazione del plasma, vuoti, posati su blocchetti di legno: rappresentano San Giovanni e Maria ai piedi della croce. Nel mezzo un altro pezzo di legno, verticale con una croce rossa in alto. Dissacrante? Non direi. Sofferente, piuttosto. Della sofferenza di un artista che cerca di rappresentare un’immagine sulla quale è incardinata la storia (non solo quella dell’arte), e si trova tra le mani solo questi poveri resti ancora pregnanti di un significato.
Grazie quindi a Ravasi per aver sollevato la grande questione. Ora guardiamoci da chi dice di avere soluzioni in tasca. Su una materia così bisogna procedere, senza enfasi, tentativamente. L’importante è procedere, e prendersi dei rischi. E tenere gli occhi (e anche le porte: quelle delle chiese) aperti.
Post scriptum: l’importante è invece lasciar fuori dalla porta la retorica della presunte, periodiche rinascite del sacro. E lasciar fuori dalla porta anche le “elemosine” di  quegli artisti che regalano qualche soggetto sacro per vanità. Meglio il balbettio anche ambiguo di un Beuys. Almeno lui si gioca con le sue domande e l’asprezza dolorosa del suo sguardo.

Written by giuseppefrangi

Novembre 9th, 2008 at 4:16 pm