Robe da chiodi

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Abbuffata di mostre alla torinese

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Una giornata torinese con Angela, Teo, Ale e Carolina. Non ci siamo fatti mancare niente…

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Castello di Rivoli. Sempre così bello e così vuoto… un vero delitto non riuscire a farlo decollare. Siamo lì per Sophie Calle, per le recensioni lette e per una bella e dettagliatissima mail ricevuta da Giulietta Riva dopo la visita alla mostra. Che è bellissima, disposta con molto amore e molto pudore, con piena consapevolezza della delicatezza del tema e del rischio di cedere a un voyeurismo. Souci è la parola chiave, l’ultima detta dalla mamma di Sophie prima di morire, che è una parola tenera e imprendibile. Souci è preoccupazione, inquietudine (ma la madre la pronuncia con un “non” davanti: non dovete preoccuparvi per me); ed è anche prendersi cura, avere a cuore. Ricamata sulle gentili tende divisorie tra le stanze, rievocata ovunque e in tutte le forme, è un po’ la risposta all’immagine sempre ritornante della/delle tombe. Souci è quell’alito alito di tenerezza che sopravvive alla morte della madre e che è così reale, da prendere questa forma di percorso/mostra. E diventando addirittura fatto pubblico, non più privato. Bellissima mostra, non perdetela. Dimostra quanto gli artisti di oggi sappiano spesso inoltrarsi nelle fibre più intime e segrete della vita. Non solo della loro.
(A margine: la mostra si apre con i video già noti girati da Sophie Calle a Istanbul, filmando cinque persone semplici che per la prima volta vedono il mare, pur abitandovi a pochi chilometri. Mi viene in mente quella pagina stupenda di don Giussani in cui immaginava lo sguardo di un uomo che avesse la ventura di nascere con la coscienza già di un adulto. Il video è quella “cosa” lì, quella commozione lì).

Al Castello c’è pure Manifesta Intenzione, una rassegna dedicata al “disegno in tutte le sue forme”. Non mi soffermo, ma la sala finale con i meravigliosi video di Kentridge alle prese con i disegni da sola vale la visita. Si capisce che per disegnare si deve essere un po’ maliardi.

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Gam. La sorpresa della giornata è la mostra su Lichtenstein. “Opera prima” (titolo della mostra) significa che è un’indagine sulla genesi delle sue opere, e quindi ancora una volta sul disegno e sul pensiero che vi sottostà. Sorpresa, perché di Lichtenstein sembra di aver visto anche troppo. È tutto sempre così dichiarato, sempre estrinseco, anche programmaticamente piatto, che non si capisce cosa ci sia da scoprire. Invece c’è da scoprire la genesi di immagini che diventano semplici grazie ad un processo molto determinato e lucido di semplificazione. Lo spazio dentro nel quale opera prima di essere tela è una specie di cella, riquadrata dentro i fogli di carta, in cui, come lui diceva, “gli oggetti sono segni da organizzare, collegare e ricostruire in una visione unificata”. E, ovviamente, assolutamente bidimensionale. Oserei sostenere che il cantiere delle immagini in Lichtenstein è più affascinante delle immagini finali. È affascinante il percorso di strutturazione delle immagini, che è un percorso per fare “quadrare” l’opera, accettando tutta le complessità e le implicazioni connesse, ma senza mai “complicare” l’immagine. L’apparenza volutamente effimera dell’esito, in realtà nasconde un lavoro di messa a fuoco compositiva, che probabilmente ne spiega l’energia iconica.
Sono tanti i cantieri interessanti di cui siamo resi partecipi. Il più bello, per me è quello per Shipboard girl (immagine qui sopra), una sua celebre opera del 1965. Il “separation drawing for red”, cioè l’emersione grafica delle sole parti che nell’opera finale dovevano andare in rosso, da una parte documenta il rigore del percorso di Lichtenstein, dall’altra lascia pensare che il non detto, che il rosso solo evocato, che il sorriso lasciato a mezza bocca, sia alla fine qualcosa di più compiuto (nel senso di più sinteticamente semplice) che non l’immagine finale.

Alla Gam anche Cecily Brown. È una delle esponenti più in vista di una nuova figurazione. C’è in lei un mix di carnalità che si scioglie in lirismo selvaggio. Certamente interessante, vitale, anche coraggiosamente oltranzista. Non so quanto alla fine un po’ avvitata su se stessa (è un po’ il destino di tutti i “baconiani”). Ci voglio pensare su…

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Infine Shit and Die, la mostra curata da Cattelan in occasione di Altissima e allestita a Palazzo Cavour. Francamente deludente, vecchia per quell’eclettismo cercato a tutti i costi, alla fine abbastanza confusa anche nei suoi tentativi di richiamare componenti dell’antropologia torinese. Insopportabile a tratti in quei rigurgiti di un nichilismo che ha fatto il suo tempo. Molto più magico, bello, inquietante e anche tenero, il Cattelan visto la mattina nelle raccolte di Rivoli con il bambino (lui stesso?) con le mani inchiodate al banco con due matite.

Written by gfrangi

Gennaio 5th, 2015 at 4:47 pm

Troppa prosopea per Paladino

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Fa un po’ sorridere questa prosopopea che sta accompagnado la mostra di Mimmo Paladino a Palazzo Reale a Milano. Sembra di trovarsi di fronte a un evento epocale: oggi il Corriere proponeva addirittura una doppia pagina con una grande foto della Montagna di sale su cui campeggiava una frase francamente un po’ esagitata di Arthur C. Danto: «… non c’è niente che regga il confronto con l’imponente Montagna di sale disseminata di cavalli arcaici; il mondo dell’arte dell’ultimo quarto di secolo non ha nulla di paragonabile…» (diamine, ma dove ha vissuto negli ultimi 25 anni Danto?). Tutta questa retorica toglie ogni stimolo a una mostra che francamente non ne forniva molti in partenza. Paladino in questi anni lo abbiamo visto dappertutto. Non è certamente un artista presuntuoso ma è un artista che gode di troppo consenso. Che non si mette mai di traverso. Ho visto l’aereo sponsorizzato Piaggio in Galleria, con la fusoliera dipinta dall’artista. Mi è sembrato un concentrato di banalità: Cacciatore di stelle (lo suggerisco per la cover di una prossima riedizione del Piccolo principe…). La Montagna di sale è fuori luogo, schiacciata nella Piazzetta reale. Sembra ingombrante e goffa nel rapporto con lo spazio, mentre è nata per essere aerea e lievitante.

In queste settimane a Milano girava un altro artista di qualche anno più giovane di Paladino. Imparagonabile l’energia, la varietà di soluzioni e la forza di novità che William Kentridge ha sprigionato e comunicato. Un artista mobilitato e mobilitante. Ha scritto di lui Carolyn Christov-Bakargiev: «Il senso di distanza dai centri di potere culturale e il desiderio simultaneo di impegnarsi nel mondo gli hanno garantito un privilegio e un fardello: la capacità di muoversi all’interno della complessità, di essere sincero, compassionevole, arguto e intelligente, evitando al tempo stesso gli approcci cinici e ironici che ai nostri giorni caratterizzano la maggior parte dell’arte intelligente e criticamente consapevole dell’Occidente».

Paladino, al confronto, sembra davvero un bel pittore del secolo scorso.

Written by gfrangi

Aprile 5th, 2011 at 9:55 pm