Robe da chiodi

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Quel concentrato lombardo nel cuore della National Gallery

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I piedi dell'Angelo annunciante di Moretto. Ben piantati per terra


Una delle fortune del fatto che la mostra di Leonardo abbia un percorso accidentato con l’ultima sala sistemata dalla parte opposta della National Gallery, è che, anche un visitatore di fretta come’ero io, sia “costretto” a passare l’infilata delle sale del Rinascimento italiano. Sale straordinarie, tra le più belle per respiro, coerenza e livello delle opere che esistano al mondo. Quando le si passa in sequenza, alla fine si approda alla grande sala dei lombardi: e lì ogni volta per me è come un colpo al cuore. Primo, perché si ha la sensazione fisica di essere rientrati in casa. Secondo, perché ti accorgi che non c’è nessuna flessione rispetto ai nomi enormi delle sale che precedevano. Voglio presumere che Romanino, Moretto, Savoldo, Moroni e Lotto per quanto grandi valgano Tiziano? Evidentemente no, anche perché i Tiziano delle sale che precedevano sono cose da brividi. Ma quando entri nella sala dei lombardi scopri la tenuta di una visione omogenea, di una lingua comune, di un farsi coro pur nella diversità delle voci (anzi proprio per quello), che davvero conquista cuore e cervello. C’è il rimando dei grandi ritratti dei lombardi malinconici (il Martinengo di Moretto; l’aspirante Lucrezia di Lotto); o dei polittici che resistono ad oltranza senza apparire arcaici: Moretto vs Romanino, uno contro l’altro su pareti opposte. Il primo è intriso di umidità e di umori furiosi (il sant’Alessandro era il manifesto della grande mostra di Brescia che aveva fatto innamorare Pasolini), il secondo acceso di un incredibile cielo azzurro che attraversa tutte gli elementi del polittico e che sembra una vera sfida ai cieli perfetti e senza tempo del Rinascimento con la “R” maiuscola. Un cielo che è il nostro cielo, non un cielo “intellettualmente” lontano ma vicino, sotto il quale ci si sente a casa. E che dire della sfilata dei precursori della buona borghesia lombarda di Moroni? Gente all’opera come il suo sarto; gente dentro la storia, anzi dentro l’ora di una normale giornata. È una grandezza che sale dal basso e non stacca mai i piedi da terra.
Non sarà un caso che i grandi pianificatori della National si siano accorti di questa grandezza d’assieme e abbiano dato ai Lombardi la Central hall… Ecco tutti i quadri che vi sono esposti

L'incredibile Sant'Alessandro di Romanino. Capite perché avesse colpito Pasolini

Written by gfrangi

Dicembre 25th, 2011 at 11:40 am

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Leonardo a Londra, ma Milano è sparita

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Una giornata londinese, di gran carriera, con visita a Leonardo, Richter e Kiefer.
Prima tappa, Leonardo. La mostra è sotto le aspettative. Provo a elencare una serie di motivi di perplessità. La principale: il titolo evidenzia che è stato messo al centro il lungo e decisivo periodo di Milano. In realtà i riferimenti di contesto, che sarebbero di grande importanza per capire e per approfondire Leonardo, scompaiono: il percorso si cristalizza attorno ad alcune opere totem, frutto di prestiti eccezionali, e ci gira attorno senza proporre addentellati che sarebbero secondo me necessari per capire meglio le opere stesse. Oserei dire che c’è una sorta di feticizzazione dei capolavori che vengono estratti da contestualizzazioni troppo stringenti.
Il caso più clamoroso mi sembra quello delle due Vergini delle rocce, che per la prima volta nella storia si trovano nello stesso ambiente e che non vengono indagate per la loro novità più straordinaria che mi sembra sia la concezione del paesaggio. Leonardo a Milano libera questa nuova visione della natura che cresce nell’osservazione precisa e costante del corso dell’Adda piuttosto che delle prealpi.
Una seconda perplessità è logistica: la mostra è sistemata al piano meno 2 dela Sainsbury Wing: sono sei sale di cui una sola grande, stipate di gente all’inverosimile (bastano a naso 250 persone per fare il full). C’è poi una settima sala al piano più due nel lato opposto della National, dove sono stati raccolti tutti i disegni preparatori per il Cenacolo. Lì ovviamente metà delle persone non ci arriva e così la visibilità è garantita. Tra l’altro è la sala più sorprendente, che inizia con quel micro taccuino su cui Leonardo aveva annotato la celebre descrizione del suo Cenacolo e poi presenta in sequenza una serie di disegni stupefacenti, il san Bartolomeo in particolare. C’è anche un primo abbozzo dell’Ultima Cena, con un san Giovanni che si è abbandonato sul tavolo, con le braccia sotto la testa, come in un cedimento al dolore (immagine in alto).
Al catalogo ho dato per ora solo una breve scorsa. Ma quando mi sono fermato sulla pagina che racconta in modo ultrasommario il dibattito che aveva infiammato la Milano di quegli anni attorno al tema dell’Immacolata Concezione, ho avuto conferma delle mie sensazioni. La questione è chiave per capire il mistero della Vergine delle Rocce, e Ballarin nel suo libro che aleggia un po’ come un fantasma messo in castigo, gli dedica decine di pagine con una ricostruzione che diventa anche un magnifico spaccato della Milano di quegli anni. Ma a Londra oltre che Ballarin hanno fatto sparire anche Milano.

PS: Dovessi portarmi via un’opera mi prenderei il cartone con la Madonna e Sant’Anna (sotto, un particolare). Non avevo mai fatto caso che la Madonna fosse in braccio a sua madre tenendo poi a sua volta in grembo il Bambino. Ma è l’affondo dei neri in quel cartone che dà veramente la vertigine. Guardandoli da vicino ci si perde dentro. Sono magnetici esattamente come il paesaggio della Vergine delle Rocce parigina.

Written by gfrangi

Dicembre 16th, 2011 at 8:05 pm

Ipocrisie leonardesche

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Il Giornale dell’arte presenta una ragionata anteprima della mostra londinese sugli anni milanesi di Leonardo (“la più importante dopo quella del 39 a Milano”). C’è l’elenco delle opere esposte, con prestiti davvero straordinari, in primis la Vergine delle Rocce parigina. Dalla presentazione si deduce che per non voler intendere e volere gli organizzatori della mostra hanno fatto finta che il libro di Alessandro Ballarin non sia ancora uscito. Lo si deduce dalle date della prima Vergine delle rocce, assegnata al 1486, quando Ballarin ha portato prove molto ragionate che la riferiscono ai primi mesi milanesi. Soprattutto si continua con l’anacronismo della Dama con l’ermellino che stilisticamente non ha senso portata così avanti (primi anni 90). Questa datazione è dettata oltre che da una lettura parziale dei documenti, da una sorta di non detta (e un po’ ridicola) pruderie: si dà per escluso che Ludovico potesse essersi fatto un’amante tredicenne. Invece le cose erano andate così e anche in questo caso Ballarin porta prove difficilmente smentibili. Ovviamente se ne può discutere, ma fa triste impressione questo andare avanti come nulla fosse. Del resto anche l’informazione ci mette la sua: perché il Giornale dell’arte, non ha detto ai suoi lettori dell’uscita di un libro di tanta importanza e che oltretutto rimedia almeno in parte all’umiliazione di vedersi scippati di una mostra come questa, che avrebbe dovuto essere tutta italiana, anzi tutta milanese? Forse perché Ballarin rompe qualche uova di troppo nel paniere degli esperti leonardeschi?

Mi consolo con questi due brani che mi son segnato dalla recensione di Gadda alla mostra del 39.
“Avvicinare Leonardo! Ci troviamo, davanti a lui, come alla sorgente stessa del pensiero. Qui la nativa acuità della mente si dà liberissima dentro la selva di tutte le cose apparite, dentro la spera di tutti i “phaenòmena”: a percepire, a interpretare, a computare, a ritrarre: a profittare per “li òmini”: del profitto di ragione e verità”.
“Fantasioso […] può dirsi il suo peregrinante ingegno, in quanto percorre bene spesso ogni possa dell’arte (nel senso di tecnica) e del secolo suo: […] appare anche confermata una misura di ragione, un rigore dell’osservazione: una conoscenza faticata e vissuta, e infine assai propria, di molte cose della natura. Non arbitrio o giuoco; ma un lento cammino della indagine, verso lontane, forse, ma già intravvedute verità”.

Written by gfrangi

Settembre 10th, 2011 at 8:38 am

I santi nel legno dei cieli

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Ma una mostra che vorrei davvero vedere c’è: The Sacred Made Real, scultura e pittura spagnola tra 1600 e 1700 alla National Gallery di Londra. Sono i precursori straordinari di ogni iperrealismo. Ne parla l’ultimo numero del Giornale dell’Arte (bello il titolo: “I santi nel legno dei cieli”), dove il curatore Xavier Bray intervistato spiega che la scultura aveva una potenza emotiva molto maggiore alla pittura e che lo stesso Velazquez aveva appreso la tecnica della scultura dipinta: «La scultura era la forma d’arte preferita per rendere più immediata e diretta la religione, risvegliava tutti i sensi».

Non è difficile crederlo se si guardano queste due opere stupefacenti esposte alla National Gallery. La prima è il San Giovanni di Dio di Alonso Cano, l’altro è la testa del San Francesco in meditazione di Pedro de Mena, proveniente da Toledo.

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Written by giuseppefrangi

Ottobre 11th, 2009 at 10:46 pm