Robe da chiodi

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Fontana 1949, il Crocefisso cosmico

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Milano, 1949: nella Milano che riemergeva velocemente dalle macerie della guerra Lucio Fontana si ripresentava nella sua città d’adozione (era nato infatti a Rosario in Argentina, dove aveva trascorso anche gli anni della Guerra) con una mostra destinata a fare epoca: alla Galleria del Naviglio, da poco inaugurata in via Manzoni da Carlo Cardazzo, presentava il suo “Ambiente spaziale”, una serie di elementi fosforescenti e fluttuanti appesi al soffitto della galleria, tenuta al buio con pareti nere. Era l’avvento di una stagione nuova, nella quale l’opera d’arte usciva dai suoi confini, e si metteva in relazione vitale con lo spazio in cui si collocava.

In quell’anno Fontana sperimentava anche le prime tele con i buchi, anticipo di quella che sarebbe stata la soluzione che l’avrebbe reso celebre, cioè i suo “Tagli”: il quadro, conservato nella sua condizione quasi verginale, si apriva al possibile irrompere di un fattore imprevisto. “Attesa” non a caso è il titolo assegnato tante volte da Fontana ai suoi “Tagli”: «Sono riuscito con questa formula a dare a chi guarda il quadro un’impressione di calma spaziale, di rigore cosmico, di serenità nell’infinito».

Fu una novità folgorante quella messa in campo da Fontana, tant’è che quello stesso anno l’artista venne chiamato a esser parte di una mostra che ha fatto epoca: “Twenty-Century Italian Art” al Moma di New York, mostra curata dal mitico Alfred Barr, fondatore del museo.

Fontana non era artista ideologico o schematico, quindi insieme a quella sua produzione d’avanguardia continuava a restare fedele alla scultura, in particolare usando l’amatissima ceramica. È il Fontana etichettato come “barocco”, che è al centro di una mostra di notevole qualità in una galleria milanese (Galleria Matteo Lampertico): insieme a Fontana sono esposte anche opere di altri scultori inclini al “barocco” del nostro 900, Leoncillo e di Fausto Melotti.  

Tra le opere in mostra una spicca su tutte le altre: è un Cristo crocefisso in ceramica, proveniente da una collezione privata romana, realizzato proprio in quel 1949. Ovviamente quella data che si sovrappone all’esordio del Fontana “spazialista” può lasciare spiazzati. Eppure davanti a questo piccolo capolavoro si capisce come la mente che esplora o evoca “l’oltre” davanti alla tela sia del tutto coerente con la mente che invece plasma un “corpo pieno” come questo Crocefisso, facendolo però quasi esplodere nello spazio che lo accoglie. Il corpo di Gesù, riconoscibile nell’incarnato bianco, compie la torsione dell’attimo finale, coinvolgendo nel suo spasimo, non solo la croce, che si piega proprio a quella torsione, ma anche tutto il mondo attorno («Si fece buio su tutta la terra», testimoniano i tre vangeli sinottici). La Croce scuote lo spazio, lo abbraccia e ne è abbracciato, come a documentare, con un’evidenza palpabile, che il dolore di Cristo è dolore per il mondo e per il cosmo. Per questo è impressionante vedere come un’iconografia antica che si è consolidata nei secoli in tanti capolavori, sappia rinnovarsi generando un’immagine, o meglio un “corpo scultoreo”, che accoglie il fremito inquieto e anche le forme della modernità: in fondo questo Crocefisso è un approdo dello spazialismo di Fontana. Personalmente, lo considero l’immagine-dono di questa Quaresima appena iniziata.

Pubblicato su Il Sussidiario, 22 febbraio 2021

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Febbraio 23rd, 2021 at 10:15 am

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Peppino e Luigi Agrati, collezionisti e complici

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Recensione alla mostra della Collezione Peppino e Luigi Agrati, alle Gallerie d’Italia, pubblicata su Alias del 17 giugno, con il titolo “Un sogno in alta Brianza”

Veduggio con Colzano è un paese dell’alta Brianza, di poco più di 4mila abitanti. Tra i suoi segni particolari, il fatto che qui abitò per due anni, tra 1884 e 1885, Giovanni Segantini. Vi dipinse un quadro famoso, “A messa prima”, dominato dalla scenografica scalinata che sale alla parrocchiale di San Martino. Veduggio è anche quintessenza di Brianza: in pochi chilometri quadrati si concentrano due multinazionali tascabili, specializzate in sistemi di fissaggio. Quello che non ci si aspetta è che nella villa dei proprietari di una delle due aziende, a partire dagli anni 60 si sia concentrata una delle più straordinarie raccolte di arte contemporanea esistenti in Italia. Merito di Peppino e Luigi Agrati, titolari dell’omonima azienda, e collezionisti di indubbia intelligenza, passione e cultura. Una selezione della loro raccolta è esposta in questi mesi alle Gallerie d’Italia di Milano (“Arte come rivelazione”, a cura di Massimo Barbero, sino al 19 agosto): è un’anteprima di quello che potrà diventare il museo che a Milano manca, visto che è stata annunciata la donazione della collezione ad Intesa Sanpaolo, la banca proprietaria delle stesse Gallerie.
Intelligenza, passione e cultura: è indubbio che ciò che ha mosso prima Peppino (morto nel 1990) e poi anche Luigi Agrati sia qualcosa che va ben oltre la febbre collezionistica. Come ha scritto Massimo Barbero nell’introduzione al catalogo, i due fratelli «hanno condiviso un’intuizione sensibile, capace di cogliere le profondità delle immagini che stavano “costruendo” il loro tempo». Le loro acquisizioni maturavano sempre in un rapporto stretto con gli artisti o con le gallerie che più pionieristicamente li proponevano. Erano legami di amicizia ma a volte anche di vera complicità, come nel caso di Christo, difeso e sostenuto in occasione della celebre incursione milanese del 1970, quando impacchettò il monumento a Vittorio Emanuele in Piazza Duomo: Peppino non solo comperò opere e progetti per la sua raccolta, ma si rese subito disponibile a finanziare “Valley Curtain”, un’installazione costituita da un’enorme cortina di tessuto (ben 381 metri di larghezza per un’altezza anche di 111 metri) che venne issata per occludere visivamente il paesaggio nella valle di Rifle, in Colorado. Ed è indicativo scoprire nelle lettere tutta l’apprensione con cui da Veduggio Peppino Agrati aveva seguito le complicate e incerte fasi di realizzazione del progetto.
A proposito di complicità, la mostra giustamente si apre dando il dovuto spazio al rapporto dei fratelli Agrati con Fausto Melotti. Un padiglione bianco, quasi una nuvola, occupa il grande salone centrale per accogliere una scelta delle leggerissime sculture in ottone. Tra queste c’è anche “Un folle amore” (1971), l’opera che nel 2002 diede il titolo alla prima monografia dedicata alla raccolta Agrati e curata da Germano Celant. Quasi tutte le opere erano state acquisite direttamente dall’artista, compresi i due “Carri” (1966 e 1969) che possono essere letti come metafora di una posizione esistenziale condivisa. Il carro è immagine di transizione e di cambiamento di prospettive, condizione che accomunava lo scultore Melotti e l’imprenditore Peppino Agrati. «La mente, piena di fermenti e di tante e così diverse sollecitazioni, doveva trovarsi inconsciamente preda di una ricca e fatale incertezza», aveva scritto Melotti su Domus nel 1963: stato d’animo al quale il collezionista non doveva sentirsi estraneo. È un’inquietudine che alla fine libera la scultura da ogni prosopopea: il “Carro” datato 1966 si impenna infatti leggero nel vuoto, con una capacità di evocare nuovi viaggi, nuovi sogni, ai quali tutti siamo convocati.

Con Lucio Fontana, per ragioni cronologiche, la frequentazione non poté essere così intensa e assidua. Questo non ha impedito a Peppino Agrati di mettere insieme un nucleo di opere di grande importanza, dominato dall’eccezionale “Concetto spaziale” del 1958, che era stato esposto alla Biennale di quello stesso anno. È un’opera di dimensioni inusuali (250 x 200 cm); un’opera anche per questo dal sapore epocale, con quella grande sagoma flessa, scoria di un’elementarità primordiale, che la attraversa; un rosso diffuso copre tutta la superficie della tela, solcato soltanto da ordinate costellazioni di buchi. Nella scheda del catalogo della raccolta di prossima uscita (“L’arte moderna in Intesa Sanpaolo. La collezione Luigi e Peppino Agrati”, Electa) il curatore Francesco Tedeschi giustamente richiama la coincidenza della presenza di Mark Rothko a quella stessa Biennale del 1958. Sono due approcci completamente diversi alla superficie colorata, ma certamente la potenza evocativa e cosmica di questo capolavoro di Fontana può essere vista come una risposta europea alla vastità e profondità dei campi cromatici dell’artista lettone-americano.


I fratelli Agrati non si sottrassero dal monitorare ciò che accadeva dall’altra parte dell’Oceano, operando con il metodo noto: rapporto stretto e quasi complicità con gli artisti, qualità straordinaria delle opere scelte. È quel che accade ad esempio nel caso di Robert Rauschenberg, presente in mostra con una serie di opere di livello assoluto. Su tutte spicca “Blue exit” del 1961, un quadro assegnabile alla serie dei “combine painting”. La freccia gialla accanto all’inserto di un pulsante blu suggerisce un’uscita dal perimetro della tela, quando invece proprio dentro la tela si consuma un evento pittorico di rara bellezza e libertà. È pittura che esplode attorno a una linea tesa che traccia un orizzonte ed evoca spazi sconfinati. La freccia assume quindi una funzione strategica perché orientandoci fuori dal perimetro del quadro, lascia che quell’evento pittorico possa accadere come assoluta casualità. Si trova invece più intenzionalità e calcolo compositivo in un’opera di Rauschenberg acquistata da Lucio Amelio nel 1987: è “Trasmettitore Argento Glut (Neapolitaner)”, un esemplare dei “gluts”, assemblaggio di metalli e targhe automobilistiche di Napoli e Roma che a dispetto di quei materiali da discarica, si presenta formalmente senza sbavature.
È stato privilegiatissimo anche il rapporto tra gli Agrati e Dan Flavin, artista scoperto nel 1969 in occasione della sua prima personale italiana alla Galleria Sperone. “Untitled (to Peppino Agrati)” (1968) è un neon giallo dedicato al collezionista e prodotto in esemplare unico. Se si impone con tanta autorità nello spazio espositivo, oltre che per le dimensioni, è per quell’ordine geometrico ottenuto grazie alla progressione modulare della dimensione delle lampade, come sottolinea Francesca Pola nella scheda del catalogo della raccolta.
Il dialogo tra le due sponde dell’Oceano si fa ravvicinato nella sala dove un pittoricissimo monocromo a fasce bianche di Robert Ryman (“Winsor 20”, 1966) si confronta con un fastoso “Achrome” di Piero Manzoni realizzato in lana di vetro e con un dittico di Castellani del 1967. Qui la squadratura prospettica costruita attraverso introflessioni ed estroflessione suggerisce un’ipotesi dell’arte «come esperienza del trasparente e del mentale». Nella stessa sala la griglia della grande mappa del cielo stellato di Luciano Fabro, rimanda con grande finezza alla griglia raggelata dell’“Alluminium square” di Carl Andre, disposta sul pavimento.
C’è infine tanta distaccata ammirazione nell’omaggio curioso che Giulio Paolini fa a un’icona dell’arte americana come Jasper Johns. Si tratta di un ritratto fotografico stampato su una teletta emulsionata, appesa con un filo ad un’altra tela sottostante. Pennellate diagonali di acrilico azzurro passano da una superficie all’altra. Paolini ha poi disseminato il volto sorridente di Johns di stelle ritagliate da una riproduzione della sua celebre bandiera Usa. C’è dell’ironia, certamente. Ma c’è anche un riflesso di quel “folle amore, che è l’arte così come è stata vissuta dai fratelli Agrati.

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Giugno 18th, 2018 at 10:06 am

La tela, una geometria attiva

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Per il catalogo della mostra Arte e architettura curata da Massimo Ferrari e Claudia Tinazzi alla Casa del Mantegna di Mantova (sino al 12 giugno) ho scritto questa riflessione. il catalogo è impaginato e stampato, benissimo, da Corraini.

Qual è la prima cosa con cui un pittore fa i conti nel momento in cui si mette davanti alla superficie che attende di essere dipinta? Leon Battista Alberti in quel breve, celebre inciso nel trattato Della pittura, dimostra di aver idee chiare. Così chiare da sembrare quasi un’ingiunzione. Scrive l’Alberti: «La prima cosa nel dipingere una superficie, io vi disegno un quadrangolo di angoli retti grande quanto a me piace, il quale mi serve per un’aperta finestra dalla quale si abbia a vedere l’istoria». Quindi la prima cosa (o la cosa che viene prima?) è quello spazio concreto – tela, tavola, porzione di muro – che l’artista si trova davanti. Uno spazio con coordinate che esistono prima di ogni pensiero, e che si innestano sui pensieri fondativi dell’immagine. Le linee che delimitano lo spazio non semplici componenti tecniche, ma sono fattori che entrano nel gioco. Sono una geometria attiva, con cui l’artista si trova a che fare in ogni passo della composizione. Attiva, in quanto nell’apparente sottrarsi da ogni altra funzione che non sia quella di contenitori neutri dell’immagine, in realtà trasmettono energia. Mandano impulsi continui, rappresentano linee di forza, in particolare grazie all’asimmetria delle rispettive misure. Non è un caso che gli artisti fatichino sui formati quadrati: in quei casi le dimensioni si neutralizzano e si rischia la calma piatta sulla tela (il quadrato è invece il formato perfetto per i “monocromisti” che devono cercare l’annullamento di ogni dialettica dentro lo spazio pittorico: vedi il Quadrato nero di Malevich, 1915).

Tutto questo per sottolineare come il primo problema con cui un pittore si trova a che fare è un problema di ordine architettonico. Se ci si sottrae da questo primo terreno di battaglia il quadro rifluisce in un esercizio di stile, in performance espressiva; nel peggiore dei casi in illustrazione. Ne sa qualcosa uno come Edouard Manet, uno “nato pittore”, con la grazia del colore e della materia che gli fluiva meravigliosamente, senza bisogno di sforzi, dalle mani. Una grazia “tentatrice” che lui per primo sapeva di dover tenere sotto sorveglianza. In uno dei suoi capolavori, uno dei grandi quadri dell’800 europeo, Le Balcon (1868), Manet ingaggia una vera battaglia con le linee ortogonali della tela. Impagina il quadro, tracciando una geometria decisiva con gli incroci di linee verticali (le persiane verdi delle finestre) e orizzontali (la ringhiera del balcone), per arrivare a liberare la magica area centrale: quell’interno buio, che neanche il sole abbagliante di una piena estate riesce a perforare. È quel buco-tomba da cui il protagonista fuoriesce, come notò Georges Bataille, quasi novello Lazzaro.
Manet è il primo grande artista moderno che ha coscienza di come la pittura sia arrivata alla fine di una lunga stagione. E come quindi lui, artista, non potesse più contare sull’illusione che la tela avesse una terza dimensione. Secoli di pittura avevano costruito la loro fortuna e grandezza, su questo sfondamento spaziale che per primo Giotto aveva concretizzato in potente realtà visiva. Poi, l’energia intellettuale che aveva generato la necessità e la credibilità di quella soluzione si era svaporata, ed è era rimasta solo come effetto scenografico, a volte anche iperbolico e affascinante (la migliore pittura del 700 europeo la si può leggere in questa chiave).

Manet, che pur aveva tutte le qualità per tessere altre iperboli pittoriche, è invece il primo a costringersi dentro un nuovo rigore. Accetta l’arretramento nella bidimensionalità, per cui le linee di confine del quadro riprendono ad emettere input potenti. Non si sottrae al dato di fatto della piattezza della superficie su cui lavora. Semmai la trasforma in un sovrapporsi di visioni come per un rimbalzo di specchi, con geometrie sotto controllo ma immagini dagli equilibri e dai rapporti del tutto disorientanti.
Il capolavoro di Manet, come si è detto, ha come epicentro compositivo e “drammaturgico” una finestra. Rispetta perciò alla lettera l’indicazione di Leon Battista Alberti. Il quadro è dunque il corrispettivo di una componente architettonica, con in aggiunta un delicato problema cui tener testa: la provenienza della luce. È Matisse il primo a coglierlo con sistematicità, in tutta la sua portata, con un ribaltamento coerente che fa della tela/finestra la fonte luminosa. La luce non è più alle spalle, o dalla parte di chi dipinge, ma viene dall’altra parte, sta dalla parte della tela. È quello il luogo generativo, che illumina anche lo spazio in cui il pittore si è sistemato (che ci fosse curiosità di indagare attorno a quel mistero nella violazione poetica e sistematica che Lucio Fontana ne avrebbe fatto con i suoi tagli?)
Così quel piccolo oggetto architettonico, porzione di spazio piatto, sigillato nella sua ortogonalità (ortogonalità magari rinforzata anche dalla crociera posteriore), svela tutta la sua natura fantasmatica e potente. Che è stringente ma non deterministica. Anzi, innesca la libertà del pittore, e lo chiama a realizzare quello che Guillaume Apollinaire descrive con parole impagabili: «La finestra si apre come un’arancia incantevole frutto della luce».

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Maggio 30th, 2016 at 6:12 pm

Testori e Fontana, una libera affinità

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Sabato 21 a Varese al Castello di Masnago (ore 15) verrà presentato il catalogo della bella mostra Sacri Monti e altre storie, a cura di Claudia Tinazzi e Massimo Ferrari. Una sezione della mostra, alla Sala Verratti, mette a confronto in modo molto intelligente la Crocifissione di Testori del 1949 e un Crocefisso in ceramica di Fontana del 1947, tutt’e due con relativi disegni. Per capire quale sviluppo ha avuto l’idea di Sacro Monte. Per il catalogo ho scritto questo piccolo intervento.

Unknown

«Questo groviglio di materie, superbamente glassate, come solo sapevano fare gli anonimi terracottisti Sukhotai nel XIV secolo; superbamente e, aggiungiamo, angosciantemente glassate, quasi l’invetriatura fosse un caramello sanguinante, sacrificale e insieme stellare».
Giovanni Testori a proposito della Via Crucis, 1947 di Lucio Fontana,
in Il Corriere della Sera, 2 ottobre 1988

1949. Gli affreschi che Giovanni Testori ha dipinto sulle vele della chiesa di San Carlo, in Corso Vittorio Emanuele a Milano, vengono scialbati. 1952. Nel concorso per la quinta porta del Duomo Lucio Fontana si vede scartato a favore di Minguzzi. Due sconfitte in uno stretto arco temporale, e in ancor più stretto spazio topografico. Testori, cattolico ancestrale e Fontana, cattolico molto “aereo” si trovano uniti curiosamente da uno stesso destino: essere scartati. Non si può dire che li leghi altro che questa coincidenza, in quanto le rispettive convinzioni artistiche divergono. Tanto erano corporali e centripete quelle di Testori, quanto erano aeree e centrifughe quelle di Fontana. Uno è tutto fisico, l’altro programmaticamente spaziale. Non si conoscono. Frequentano due Milano artisticamente diverse. Testori con Guttuso e Morlotti all’ombra di Picasso. Fontana con Beniamino Joppolo e Roberto Crippa in terreni vergini. Se Testori è artista che diversifica in mille altre attività intellettuali, Fontana è artista in esclusiva. Se Testori ha una memoria densa di substrati e di riferimenti, Fontana, appena rientrato dalla sua Argentina, è un po’ un uomo del mondo nuovo, ripulito da soggezioni nei confronti di ogni passato. Eppure in quel loro ignorarsi, in quel loro essere così geneticamente diversi, ecco che oggi scopriamo una episodica ma non casuale sintonia. Sono quegli incroci non calcolati e neppure calcolabili, che però finiscono con il rivelare, dei rispettivi protagonisti, risvolti che non si erano immaginati. Come due pianeti le cui orbite per un attimo sono tangenti l’una all’altra, e in questo modo si gettano, reciprocamente, luci inedite.

2015. In Sala Veratti a Varese Testori e Fontana per la prima volta si trovano ad essere esposti insieme, in forza della proposta più che persuasiva avanzata dalla curatrice Claudia Tinazzi, sulla base della recensione di un Testori folgorato nel 1988 dalla Via Crucis Niccoli. Il pretesto è il comune occuparsi del tema della crocefissione alla fine degli Anni 40. Per tutti e due non è un impegno né occasionale né rituale. Ma per Testori la crocefissione diventa un’icona che concentra e prende carico di tutto il dolore della storia. Per Fontana invece è come uno strappo che spinge oltre la storia. Ancora una volta sembrerebbe che la coincidenza iconografica vada poi a incocciare e infrangersi contro il muro delle differenze. Del resto anche i fogli esposti nelle bacheche parlano di linguaggi quasi incompatibili tra loro.

Nello stupendo ciclo dei “disegni ritrovati” del 1949, il segno forte, quasi urlato di Testori – come se i fogli fossero stati non disegnati ma colpiti con un coltello – si distanzia dal segno leggero, volante che Fontana sembra aver solo soffiato sulla carta. Il quadro che Testori ricava da quei disegni è una tela sotto assedio, stipata drammaticamente di simboli e di richiami alla Passione. Non c’è centimetro di spazio libero perché la pressione espressiva occupa tutto, si prende tutto. Sull’altro lato della sala il Crocifisso di Fontana, invece s’inarca dentro quell’incendio di ceramica, come per proiettarsi nello spazio esterno, per dimostrare di non essere ostaggio di quella, pur bellissima, materia. Ancora una volta tra Fontana e Testori va in scena il gioco degli opposti.

Eppure i due insieme, in quella sala, ci stanno benissimo. In qualche modo, misteriosamente, dimostrano di legare. Non credo però che ci sia categoria critica che possa spiegare questo insospettato affratellamento. La ragione è altrove, ed è più profonda di tutto ciò che li aveva tenuti lontani. La chiamerei una libertà senza complessi e senza riverenze (neanche di carattere ecclesiale). Una libertà rispetto all’obbligo di caricare di messaggi un soggetto pur così pregnante di significati. Tutt’e due se la giocano su un piano squisitamente personale: la Crocifissione è un “a tu per tu”, non è pretesto per far prediche al mondo. Ma questa libertà, che è soprattutto una grande libertà intellettuale, ha anche una cifra stilistica, intima, che la contrassegna. È quella di un barocco che riemerge dal profondo, come opportunità, come impeto che rompe gli schemi e mischia le carte. Un barocco che Fontana e Testori sentivano sulla loro pelle e che bruciava sulle loro dita, come un’eccitazione, una vibrazione incessante di vita: quindi non eredità culturale ma al contrario energia che affranca da ogni ingabbiamento culturale.

Written by gfrangi

Novembre 17th, 2015 at 9:34 am

Fontana, la fine senza fine

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Ragionavo sul magnifico Fontana che ha fatto 22milioni di euro l’Italian sale di Londra. Ragionavo a partire da quel titolo “imprendibile”: “Concetto spaziale. La fine di Dio”. Facendo la tara all’ironia con cui Fontana “proteggeva” sempre le sue opere, c’è la sensazione di un’intuizione leggera e profonda in quel titolo, che non riguarda il contenuto ma il contenitore. Cioè la struttura dell’opera diventa il tema, con quella sua fisionomia cosmica e quelle forature da proiettili di stelle. Intanto la fine di Dio non è una fine temporale, ma la fine di un’idea di raffigurabilità di Dio. Lo aveva intuito Gillo Dorfles: «Quest’ovo… può ben costituire il simbolo di una divinità sempre presente, sempre fecondante, sempre fecondata; e anche il simbolo che si viene a sostituire all’iconologia d’una antica figuralità ormai usurata e consumata; al posto dell’icona sacra il Sacro ovo la “fine di Dio” significa l’inizio di una semanticità nuova, quella d’un simbolo eterno, sempre innovantesi nella diversità delle sue accezioni nella molteplicità delle sue interpretazioni».
Fontana poi con quelle sue frasi che un po’ chiariscono è un po confondono il suo interlocutore aveva detto: «Per me significano l’infinito, la cosa inconcepibile, la fine della figurazione, il principio del nulla». Parla di infinito nel momento in cui dedica un quadro ad una “fine”… E allora quella fine di Dio inizia ad essere concetto davvero sfuggente, imprendibile, com’è imprendibile l’idea di Dio. Diventa qualcosa che assomiglia all’idea di sconfinamento dal dicibile. Fontana ha sempre la grazia di essere semplice, folgorante nella tenuta concettuale dei suoi quadri. Di puntare verso orizzonti grandi senza mai sovraccarico di retorica.
L’oggetto, nella sua fisicità, racconta di una fine che non conosce fine. Evoca un infinito.

Written by gfrangi

Ottobre 23rd, 2015 at 9:01 am

Un giorno con Garutti, un altro con Pinelli…

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Sempre affascinante incontrare gli artisti in carne ed ossa. Nell’arco di pochi giorni mi è capitato di stare a tu per tu con Alberto Garutti e con Pino Pinelli. Due artisti attivi su Milano, divisi da 10 anni (Garutti è del 1948, Pinelli del 1938, siciliano di Catania).
Non ci sono molti elementi che li uniscono, ma quando li senti parlare capisci che vengono da una stessa “patria”, che si muovono tutt’e due dentro uno spazio che permette una libertà di approccio alle cose, alla realtà, in un modo che noi “umani” possiamo solo sperare non si esaurisca mai.
Mi spiego: l’artista intercetta sempre un fattore impercettibile e inimmaginato, che una volta conosciuto diventa fattore imprescindibile. Acchiappa qualcosa che è nell’aria, nelle cose ma che ad altezza d’occhio nessuno vede. Sono processi semplici, che non hanno nulla di prometeico, perché sono questione di sensibilità. Quella dell’artista è sostanzialmente una sensibilità più acuta, più prossima al cuore delle cose e della vita. Una sensibilità che si muove libera, che non segue linguaggi o codici prestabiliti, che non guarda al conto finale. A Matisse interessava solo documentare l’impatto delle cose sulla propria sensibilità, Yves Klein vendeva sensibilità ai suoi collezionisti, in sostanza qualcosa che era solo nell’aria… Ha scritto Bonami, a proposito di Garutti, che l’artista non è chiamato a fare monumenti, ma a creare momenti.
Pino Pinelli, parlando del colore muove le mani come se si trattasse di acchiapparlo nell’aria. Mi dice che il colore esiste e va preso, ed è la sintesi della propria sensibilità rispetto al mondo. Che non esiste calcolo per fare quello giusto, ma bisogna fiutarlo, “sentirlo”, poi metterlo nell’opera. Reimmagina il momento magico in cui Fontana acchiappò il suo rosa. Dice che per un artista non c’è mai nulla di acquisito e che pur vedendo le cose, pur sapendo in che direzione andare, quando si mette davanti ad un’opera è come dover cavalcare una tigre. Perché il sentimento mai prima esplorato, per essere espresso deve restare puro, intatto. Non ammette riduzioni. (qui una sua berve testimnonianza video)
Per Garutti il senso della lotta è molto simile. Quando ricevette la committenza per la statua della Madonna, ora in una chiesa di Faenza, alla proposta via telefono disse di no. Che cosa si può fare d’altro su quel soggetto che non sia già stato fatto? Tempo neanche 30 secondi e Garutti aveva ripreso il telefono dicendo che ci stava. Questo il suo ragionamento: se sei un artista non devi tirarti indietro. Devi aggiungere qualcosa al già fatto e già saputo. Perché il non fatto e il non saputo è un universo vasto e in continuo aggiornamento. Così è nata la Madonna in versione devozione tradizionale ma a 36 gradi, come quelli corporei. Se la tocchi con la mano, come da tradizione, senti qualcosa che ti dice che è cosa viva.
Non è il gesto formale quello che qualifica l’artista, ma quel processo impercettibile messo in atto dalla sensibilità e che porta a intercettare un’immagine, un’idea, un colore…
Poi c’è un altro fattor comune, ed è la devozione verso un maestro. Per Pinelli è Fontana. Quando ne parla, gli si illumina lo sguardo. Lo vede come l’artista libero, capace di immettere grazia in ogni idea, anche in quelle che stilisticamente sembravano in conflitto tra di loro. Per Garutti è Matisse, da cui va quasi in pellegrinaggio quando deve risolvere l’idea per il candeliere elettrico della Chiesa di Buonconvento. Da lui intuisce che la forma dei fili doveva essere quella dell’albero della vita e che le lampadine dovevano stare a nudo con incavi che disegnavano il motivo, come nella lampada di Vence.
Gli artisti sono un grande regalo di Dio agli uomini…

Written by gfrangi

Maggio 24th, 2015 at 9:09 pm

Caccia la tesoro di Klein e Fontana

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Questo “viaggio” nella mostra di Klein e Fontana al Museo del Novecento di Milano è stato pubblicato su Alias, domenica 9 novembre.

Mettiamola così: questa non è semplicemente una mostra, è una sorta di caccia al tesoro. E dato lo spirito ironico e sempre spiazzante dei due protagonisti, la cosa ci sta. L’esposizione che il Museo del Novecento di Milano ha dedicato al sodalizio tra Lucio Fontana e Yves Klein è dislocata nel percorso un po’ schizoide di questa struttura progettata da Italo Rota; un percorso che riaffiora ad ogni piano e che si conclude in una sorta di vera sala del tesoro, l’ultima, al piano terra, affacciata sui portici dell’Arengario. La mostra curata da Silvia Bignami e Giorgio Zanchetti è una mostra che si distingue nettamente nel panorama espositivo strabordante e vagamente bulimico di questa fine anno milanese, in quanto esito di un lavoro di ricerca che troviamo riassunto nel chiarissimo saggio di apertura di Zanchetti e negli altri contributi che rendono il catalogo uno strumento destinato a vivere oltre l’esposizione (Klein Fontana. Milano Parigi 1952-1962, sino al 15 marzo 2015; catalogo Electa).

C’è una data d’inizio per quest’avventura che ha legato le biografie di due tra i più visionari artisti del dopoguerra. È il 2 gennaio 1957, quando nella Galleria Apollinaire di Guido Le Noci, in via Brera 4, viene inaugurata la mostra di un artista francese ventinovenne. Yves Klein per la prima volta presentava “Proposizioni monocrome. Epoca blu”, 11 monocromi non appesi ai muri, ma sospesi nello spazio grazie ad aste metalliche che li reggevano. Klein era reduce dalla folgorazione per gli affreschi di Giotto di Assisi. Scriveva questo in una cartolina alla sua gallerista parigina, Iris Clert: “Chère Iris il y a dans la Basilique de St François d’Assise des tableaux monochromes intégralement Bleus!”. A Padova, agli Scrovegni, invece aveva colto nella grande scena della controfacciata il dettaglio dei due angeli, che nella parte alta stanno arrotolando il cielo per lasciare libero campo alla visione del Paradiso. Klein a Milano è come se avesse esposto scampoli di quel cielo arrotolato. «Siamo dinanzi al BluSignore, padrone assoluto della più definitiva tra le frontiere liberate», scrisse allora Pierre Restany. Non lo capirono in molti, gran parte dei giornali lo sbeffeggiarono, solo Dino Buzzati colse nelle bizzarrie di quel ragazzotto francese spunti nient’affatto banali. Tra i pochi acquirenti ci fu Lucio Fontana (anche Giuseppe Panza di Biumo si affacciò in galleria: anni dopo ammise che il mancato acquisto di Klein era stato uno dei maggiori errori della sua storia collezionistica). In Mostra il Monochrome, ora di proprietà della Fondazione Fontana, è esposto insieme ad altri tre pezzi provenienti da quella mostra pionieristica.

«Klein ha intuito lo spazio», disse molti anni dopo Fontana, in un’intervista a Carla Lonzi, spiegando così il suo interesse immediato per l’artista francese. “Spazio” è la parola chiave di quello straordinario, libero sodalizio che sarebbe nato tra loro due. «Più in là della prospettiva, la scoperta del cosmo è una dimensione nuova», aveva sempre confidato Fontana a Carla Lonzi. «È l’infinito. Allora buco questa tela che è la base di tutte le arti e ho creato una dimensione infinita». Il riferimento è alla serie dei quadri con i buchi risalenti agli inizi degli anni 50: «Io buco, passa l’infinito di lì, passa la luce di lì, non c’è bisogno di dipingere… tutti hanno creduto che io volessi distruggere: ma non è vero io ho costruito, non ho distrutto».

Per Klein e Fontana lo spazio non è più una dimensione intrinseca all’opera, ma del tutto estrinseca. Quindi non si tratta di darne una rappresentazione nuova, ma di proiettare l’opera in una dimensione diversa. Ovviamente su tutt’e due gioca la fascinazione per le esplorazioni spaziali, che Fontana recepisce quasi con una certa deferenza verso la scienza, e Klein invece in termini più intuitivi. Fontana non teme di mettere la sua arte al traino di quel moltiplicarsi di orizzonti aperti dalle nuove esplorazioni; Klein invece rivendica una capacità antipatrice dell’artista rispetto alla tecnologia. Scrive: «Ce ne sera pas avec des rockets, des spoutniks ou des fusées que l’Homme realisera la conquête de l’espace… mais c’est en l’habitant en sensibilitè». I fatti gli daranno sorprendentemente ragione: il suo mappamondo con il globo tutto dipinto con l’IKB (International Klein Blue: il pigmento da lui brevettato) è datato 1957. Quindi anticipa di quatto anni la visione di Jurij Gagarin, cosmonauta della prima navicella spaziale, che una volta arrivato in orbita comunicò alla base quella frase passata alla storia: «La terra è blu… Che meraviglia, è incredibile».
Klein e Fontana si concepiscono come due cosmonauti dell’arte. Si muovono con la leggerezza di chi si è liberato della forza di gravità che invece continua a schiacciare gran parte dell’arte, compresa quella che si considera più avanzata (come testimoniano i giudizi drastici di Fontana su Pollock: «Pollock è un macaco tale che l’abbiamo inventato noi europei.. Voleva uscire dal quadro, però l’ha imbrattato», dice sempre nell’intervista a Carla Lonzi). Klein gioca addirittura a librarsi nell’aria nella celebre e ironica performance “Saut dans le vide” del 1960, che usò come immagine di copertina di un numero unico del quotidiano La Dimanche: la foto (un fotomontaggio in realtà) di Yves che si butta a volo d’angelo da una finestra diventa l’emblema della nuova dimensione in cui l’artista è chiamato a muoversi. Fontana, come detto, è proiettato verso quello stesso orizzonte, ma ci arriva al traino di ciò che la scienza e le nuove scoperte gli offrono: in mostra è esposto l’Atlante di Pio Emanuelli, pubblicato nel 1934, frutto delle ricerche di Zanchetti sulle fonti iconografiche di Fontana: tra quelle pagine, oltre alle fotografie delle nebulose a spirale che ispirarono le Attese, c’è ad esempio la foto del meteorite Uegit, custodito al Museo di Mineralogia di Roma e giustamente esposto in mostra, a cui Fontana guardò per la serie di sculture Nature esposte per la prima volta a Parigi nel 1961. Anche la scelta del celebre titolo seriale di tante sue opere, “Concetto spaziale” è derivato dal linguaggio della divulgazione scientifica di quegli anni.

Si diceva che la mostra è una sorta di caccia al tesoro. In effetti man mano che si avanza nel percorso ci si rende conto di quale sia questo tesoro: è la scoperta delle convergenze inattese, delle affinità tra Klein e Fontana. Non c’è mai nulla di programmatico nei loro intenti, per questo il coincidere dei loro sguardi ogni volta sorprende nella sua apparente casualità. Scopriamo ad esempio che nella celebre installazione per la Triennale del 1951 Fontana aveva “già” voluto che il soffitto fosse dipinto di blu (ne parla Marina Pugliese nel saggio in catalogo). Mentre ci sono carte di Klein che sembrano realizzate con i frammenti cosmici fuoriusciti dai Concetti spaziali di Fontana. Sull’asse Parigi Milano, i due poi condividono anche la stessa galleria in Rue des Beaux arts, gestita da Iris Clert, personaggio entusiasta, di grande audacia intellettuale, ma insieme abilissima mercante («Iris est un génie, elle a vendu mes ballons pour des ‘mijons’», disse un Fontana completamente conquistato, riferendosi al tutto venduto delle sue sculture Nature).
Si arriva così alla sala finale, in un crescendo emozionante. Qui la Vittoria di Samotracia immersa nel blu di Klein è esposta a fianco del modellino della Tomba Cinelli di Fontana, il cui angelo è una sorta di infiammata reinterpretazione della Samotracia. Le Antropometrie, realizzate facendo appoggiare direttamente i corpi delle modelle coperti di blu sulle tele (“sono loro i miei pennelli”, disse Klein) con la loro corporeità dialogano con le tessere dei monocromi. C’è il reliquiario con i pigmenti, donato segretamente da Klein a Cascia, in segno della sua devozione a Santa Rita, a cui fa eco il preziosismo del Ritratto di Iris Clert di Fontana, un fondo oro intagliato e bucato. Ed è proprio in quest’ultima sala che si percepisce con chiarezza il più sorprendente punto di convergenza tra i due: è quel movimento a pendolo tra immateriale e corporeità, tra astrazione e figurazione (categore vecchie, ma rendono l’idea), tra ambizione verso un assoluto e capacità ironica nel trasferirlo in oggetto, tra sconfessione dello statuto tradizionale dell’opera d’arte e vocazione a render sempre preziosi i propri manufatti. Il Fontana dei tagli e dei buchi si prolunga nel Fontana barocco; il Klein immateriale dei monocromi si rovescia nelle impronte di corpi delle Antropometrie. Il loro sodalizio così documentato seppur così informale, ci parla dunque di una grande libertà, di un istintivo antintellettualismo, e anche di una vera, reciproca e divertita amicizia. Come attesta quella indimenticabile foto dei due che se la ridono, il 9 novembre 1961, in occasione dell’inaugurazione della mostra “Sculptures Nature: 1959” di Fontana alla galleria di Iris Clert. Sei mesi dopo Klein sarebbe morto, tradito dal suo cuore.

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Novembre 10th, 2014 at 6:53 pm

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Tanzio, Klein e la stazione Amendola

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Sono state settimane segnate da Tanzio da Varallo. Prima un pomeriggio a Casa Testori per presentare la mostra di Napoli, con Cristina Terzaghi. Con lei anche Davide Dall’Ombra ed Elena De Filippis, conservatrice al Sacro Monte, che raccontando delle cappelle tanziesche in modo molto preciso e filologico, ha rivelato dei nessi e delle scelte di coerenza iconografica bellissimi (l’esempio della porta da cui entra Barabba per il Giudizio di Pilato, che coincide con quella contigua della cappella di Morazzone: uno sgomitare che trasforma alla fine la pittura in scultura). Ma lo stupore è scattato nella sequenza dei particolari presi da vicino degli affreschi, dove si può leggere la scatenata energia di Tanzio nel cogliere sempre le figure in momenti di accensione fisica e insieme psicologica. C’è una elettricità vitale nei suoi affreschi che tracima anche nello stile e nel segno delle pennellate. Mi ero messo di lato e ho fotografato le immagini di scorcio: ma l’effetto non ne esce diminuito. Tanzio è uno che fora sempre il muro, che lo innerva di muscoli, che lo trapassa con la rapacità dei suoi sguardi.
Stessa meraviglia a Napoli, per la mostra essenziale ed esempale a Palazzo Zarvelos (la visiteremo con Cristina Terzaghi il 15 e 16 novembre prossimi): camminare per via Toledo e vedersi apparire aldilà della grande porta a vetri la pala di Domodossola, con il cielo livido e l’aria gelata delle montagne, è un’immagine indimenticabile.
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Bella anche la mostra un po’ “dinoccolata” che Giorgio Zanchetti ha organizzato al Museo del 900: la relazione tra Klein e Fontana è di quelle relazioni non preordinate, in cui affinità poetica e simpatia umana si combinano in una chimica libera e conquistatrice. Si resta conquistati da questi due che agiscono sfrontatamente, senza parole d’ordine e anche con un’inedita allegria. Il lavoro di Zanchetta è esemplare, perché mette in fila con molto ordine ma anche con una narrazione affascinante tutti i fatti e gli incroci su questo asse Milano-Parigi. Resta la fatica di un percorso, molto spezzettato perché il Museo obbliga a percorsi così. Ma è una fatica che costa poco e che vive di continui sussulti. E quando si finisce c’è rammarico perché il labirinto congegnato da quei due geni folli non ci porti ancora altrove.
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Oggi sono 50 anni dalla inaugurazione della MM milanese. Se ne ha poca consapevolezza perché il tempo ha maldestramente macinato quel progetto meraviglioso firmato da Franco Albini e da Bob Noorda. I corrimani rossi, il bullonato nero, il finto marmorizzato alle pareti, il pantone rosso con le indicazioni in Helvetica corretto: un capolavoro di misura e di equilibrio (la foto rende l’idea: è la stazione Duomo fotografata da Ugo Mulas). Per capirne qualcosa bisogna andare alla stazione Amendola, l’unica preservata e custodita secondo il progetto originario. Sembra di mettere piede in un salotto pensato però per tutti e non solo per alcuni. Niente nostalgia, ma in quell’idea di un’infrastruttura affidata all’intelligenza e anche alla capacità poetica di quei due c’era un ipotesi di sviluppo e di modernità in cui Milano poteva essere faro e che invece non è stata perseguita.

Written by gfrangi

Novembre 1st, 2014 at 12:09 pm

Il Fontana “espatriato”

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TorsoItalico

Articolo pubblicato sul Corriere della Sera, pagine milanesi, 26 agosto.
In questi giorni si è chiusa al Museo d’Arte moderna di Parigi una straordinaria mostra dedicata a Lucio Fontana. È una mostra che ha riscosso un grande successo di pubblico e che tra l’altro racconta a un pubblico internazionale una grande stagione di Milano. Ad esempio è stato ricostruito l’Ambiente spaziale, la storica installazione realizzata nel 1949 alla Galleria del Naviglio, installazione che aveva consacrato Milano come avamposto dell’innovazione artistica in quegli anni. Fontana era nato in Argentina da papà italiano e mamma sudamericana, ma la sua vita artistica ebbe come centro Milano e in particolare il mitico studio di corso Monforte, dove venne immortalato da tanti grandi fotografi e da Ugo Mulas in particolare.
Quella parigina è una mostra che sarebbe stato bello vedere a Milano, per la qualità altissima dei prestiti, per i tanti filmati rari o anche inediti, e per la documentazione precisa di tutta la parabola di Fontana. Tra i prestiti in particolare ce n’è uno che fa un po’ sussultare: è il monumentale “Torso italico”, un capolavoro in ceramica del 1938, che sino a pochi anni fa era visibile nell’atrio di un condominio milanese, in via Panizza 4, di proprietà degli eredi dell’architetto Giancarlo Palanti (un’opera importante a cui uno dei curatori della mostra parigina, tra i maggiori conoscitori dell’artista, Paolo Campiglio, ha dedicato un libro, di prossima uscita da Scalpendi editore). Lì l’aveva vista, solo nell’agosto di due anni fa, il giornalista del Corriere realizzando un bel servizio sulle opere di Fontana a Milano. Oggi quella scultura è in mostra a Parigi come proprietà di una grande galleria tedesca, che in questi anni ha raccolto tanti pezzi eccezionali, in particolare del Fontana ceramista.
Certo, desta rimpianto questa perdita, avvenuta quasi in contemporanea con il ritiro, da parte dei proprietari, delle due bellissime sculture che facevano il vanto del cinema Arlecchino. Sono tutte opere che documentano un momento davvero alto della cultura milanese, in cui artisti d’avanguardia erano coraggiosamente chiamati a interventi importanti nel tessuto della città, per quanto su commissione di privati. Fontana in particolare ha lasciato molti di questi segni, dalle decorazioni sul condominio di via Senato, alle balconate ceramiche in via Lanzone, dal soffitto della sede dei Carabinieri in via delle Fosse Ardeatine, sino al grande bassorilievo con Santa Margherita Alacoque e alla via Crucis in San Fedele. E l’elenco potrebbe continuare a lungo.
Milano ha certamente reso un giusto riconoscimento alla grandezza di Fontana dedicandogli la grande sala del Museo del 900 che si affaccia su Piazza Duomo e che suggestiona, con quel suo fantastico neon volante, chiunque dalla piazza alzi lo sguardo. Ma per raccontare la città ai tanti che verranno a scoprirla per l’Expo, rendere più visibile la presenza nevralgica di questo grande artista sarebbe strategia molto efficace. Per dimostrare come la forza di Milano sia stata quella di saper integrare pienamente nel proprio tessuto anche intelligenze innovative e audaci, come quella di Lucio Fontana.

Written by gfrangi

Agosto 26th, 2014 at 5:52 pm

Tre pensieri a proposito di Maria

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Ci sono giorni in cui sembra davvero di non riuscire a star dietro alle cose belle e interessanti che ti capitano davanti. Ti verrebbe voglia di approfondire, di ragionarci di più…
Riassumo tre spunti, che hanno un filo conduttore: Maria (visto che siamo nel suo mese).

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Questa “tavoletta graffita Madonna” di Lucio Fontana, del 1934 va all’asta settimana prossima a Milano da Sotheby’s. È una cosa piccola, senza pretese, molto delicata e semplice. Si scorge una devozione istintiva in questo sovrapporsi di azzurre aree velate. C’è anche una memoria formale della Madonna della Misericordia, nell’allargarsi della massa verso la base: come il senso grafico di un abbraccio. Difficile per un pittore moderno riprendere il tema iconografico più diffuso della storia. Sono davvero rari i casi degni di nota (Matisse, of course, Nolde, le simil Madonne di Andy Warhol…; mi piace ricordare la Madonna a 36gradi “corporei” di Alberto Garutti; poi Pignatelli, Piccoli. E anche una cosa magica di Sigmar Polke).
Ps: Mi sono dato una ragione di questa difficoltà. Maria obbliga alla semplicità, al non intellettualismo. Esige di essere almeno un po’ gente di popolo. Fontana questo lo ha nelle sue corde…

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A proposito di Madonna, alla Beyeler apre la mostra di Richter curata da Obrist. Ci sarà la replica dall’Annunciazione di Tiziano. Non avevo colto che le varianti su quel soggetto fossero ben cinque, e tutte indirizzata verso una precisa direzione, quella di enfatizzare il buco di luce centrale, assimilando il bagliore atmosferico con quello misterioso che scende dal cielo. Così la versione 4 (nella foto), presente a Basilea, perde le figure che restano solo come impronte cromatiche e lascia che sia proprio la luce a plasmare la pittura. Forse è la versione più bella, perché porta il Tiziano del 1540 là dove sarebbe arrivato (l’inarrivabile) Tiziano del 1565 di San Salvador.

Sempre a proposito di Maria. Leggendo il piccolo libro (stupendo, assolutamente da non farsi scappare; Emi, 11,90 euro) che raccoglie alcuni testi del Papa sui Gesuiti e su Sant’Ignazio, sono incappato in questa riflessione iconografica di Bergoglio. È Ignazio, dice, a introdurre il concetto “figurativo” di pietà, per cui le Madonne della Misericordia nel XVI vengono sostituite dalle Pietà. Le sue parole (di Bergoglio): «Nel convulso secolo XVI, la Pietà è la madre con il figlio straziato e morto in braccio, fiduciosa che in quello strazio c’è la resurrezione. Questa speranza, culmine della teologia ignaziana del peccato (e anche del peccato dei gesuiti) manca alla concezione luterana dell’angoscia, non potrà mai fare altro che mancarle, non è una promessa nel suo orizzonte. La Pietà è un’espressione della rivoluzione dell’affetto con cui Dio ha voluto salvare l’uomo».
Buona domenica.

Written by gfrangi

Maggio 18th, 2014 at 7:35 am