Robe da chiodi

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Picasso e l’astrazione, un’unione d’affari…

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Guitare et bouteille de Bass , 1913

È stata scelta saggia quella di ricorrere a una “&” commerciale per risolvere il titolo della mostra su “Picasso & l’abstraction” organizzata dai Musées royaux des Beaux-Arts di Bruxelles in collaborazione con il Musée National Picasso di Parigi. Quel logogramma suggerisce giustamente l’idea che tra i due soggetti più che una convergenza si sia stabilita un’”unione d’affari”, dove l’affare pende tutto dalla parte di Picasso. Il nome del grande malagueño e la categoria dell’astrazione rappresentano infatti un ossimoro, sia come principio che come esito. L’oggetto resta invariabilmente per Picasso un punto di partenza, ancorché a volte pensato prima che visto; e gli oggetti non si smarriscono mai dentro le composizioni che con più radicalità li scompongono. Come sottolinea il curatore della mostra Michel Draguet nel testo in catalogo, era stato Roger Fry a creare l’equivoco: nel 1910, in occasione di una mostra da lui stesso organizzata sulla pittura dopo Monet, aveva qualificato come “astratta” la ricerca portata avanti da Picasso in quei mesi cruciali. In realtà, come precisa Draguet, per astrazione Fry intendeva «una proliferazione di forme geometriche che invadono la composizione». Ci aveva messo del suo anche Guillaume Apollinaire, nel 1913, quando nei “Peintres Cubistes” aveva qualificato la novità di questi artisti nel saper restituire un «piacere degli occhi» indipendentemente dallo «spettacolo delle cose naturali». Più tardi però Apollinaire sarebbe corso ai ripari precisando che «io allora, secondo l’uso linguistico di quegli anni, usavo il termine “astratto” nel senso di “non verosimigliante”, assolutamente non nel senso di “non rappresentativo” come avviene oggi».

La mostra di Bruxelles risente inevitabilmente del perpetuarsi di questo fraintendimento, rischiando così di risultare generica e latitante rispetto al tema proposto, nonostante la qualità dei prestiti ottenuti. Tuttavia nel percorso c’è un momento, molto ben documentato, in cui le cose anche per Picasso sembrano essere sul ciglio di una drammatica perdita di “oggettualità”. È l’estate del 1910; l’artista si è già inoltrato da qualche mese nel cubismo analitico. Invitato dallo scrittore Ramón Pichot, si convince a passare qualche mese a Cadaquès dove viene raggiunto anche da André Derain e da sua moglie. Picasso lavora con molta intensità  fino al ritorno a Parigi a settembre: però alla fine ripoterà indietro solo dieci tele e le quattro acqueforti per illustrare il Saint Matorel, romanzo dell’amico Max Jacob. Per Daniel-Henry Kahnweiler, il grande gallerista che per primo aveva colto la portata di quanto stava maturando, si era trattato di uno scacco decisivo. In un celebre passaggio del suo “Der Weg zum Kubismus” pubblicato per la prima volta nel 1915, racconta di «settimane di lotta tormentosa». E poi: «Le opere che Picasso porta con sé sono incompiute, ma il grande passo è fatto. Egli penetra nella forma chiusa, creando un nuovo strumento per perseguire il nuovo scopo». Uno strumento, cioè un linguaggio nuovo, che è qualcosa di molto più radicale che non un semplice “stile”. Kahnweiler è ben consapevole che Picasso si è dato un limite che non vuole oltrepassare: «La perdita di leggibilità che vieterebbe il riconoscimento di un significato invece sempre presente ai suoi occhi» (Michel Draguet). Lo stesso gallerista ne sarebbe stato diretto testimone nei mesi successivi, nel corso delle estenuanti sedute, oltre 30, per il suo ritratto, oggi custodito all’Art Institute di Chicago: Picasso nel processo di rottura della «forma chiusa», si garantisce degli ancoraggi, come i tratti del volto, il nodo della cravatta, la catena dell’orologio da taschino, o le mani intrecciate. 

In mostra l’estate decisiva di Cadaquès è documentata dalla presenza delle quattro meravigliose acqueforti per il Saint Matorel con l’aggiunta di una delle matrici di rame e di un capolavoro come Le Guitariste, oggi conservato al Centre Pompidou: è un quadro in cui si avverte come Picasso si trovi proprio sul ciglio dell’evaporazione della forma e quindi l’opera risente del senso drammatico della prova a cui è sottoposta. La superficie pittorica infatti da vicino sembra essere deflagrata, da lontano invece si ricompone con una maestosità quasi abbacinante. «Questo nuovo linguaggio dona alla pittura un’inaudita libertà», scriveva sempre Kahnweiler a conclusione delle pagine dedicate all’estate di Cadaqués. È una pittura che continua a manifestarsi nei mesi successivi con una tempestosità di forme ansiose e spezzate, spianate su superfici quasi monocrome.

Verre, journal et dé, 1914

Dopo questa prova così ardua, anche perché priva di quello sbocco lirico in cui trovava respiro il suo compagno d’avventura Georges Braque, Picasso riprende il passo spavaldo di chi sente di tenere in pugno ciò che ha davanti agli occhi. Nel 1912 arrivano i primi papier collés: la realtà entra in campo direttamente come “cosa”. Il bellissimo Violon et feuille de musique dell’autunno di quell’anno ingloba anche uno spartito. Entrano in campo le lettere, a partire dalla “B” delle bottiglie di Bass, con il gonfiore delle sue linee curve: in un assemblage dell’autunno 1913, quelle curve vengono a definire, intagliate nel legno, il profilo di una chitarra. Qualche mese dopo Vladimir Tatlin era stato in visita a Picasso: tornato in Russia avrebbe realizzato i suoi controrilievi polimaterici che tanto sembrano debitori di quest’opera. Picasso paradossalmente si offre quindi come innesco per un’esperienza che sconfina nei terreni dell’astrazione. Quanto a lui resta avvinghiato alla realtà delle cose: come in un altro piccolo assemblage di legno, avvolto in un color cenere, Verre, journal, dé, realizzato ad Avignone nell’estate 1914: il dado diventa un quasi un proiettile spaziale, tale è l’energia che vi imprime. Il percorso della mostra, inoltrandosi nei decenni successivi, toglie ogni dubbio rispetto a questa posizione di Picasso. In modo particolare si fanno luce due opere insolite e sorprendentemente sperimentali: una Chitarra del 1926, ritagliata nella tela e assemblata con spago e chiodi, oggetto che la metamorfosi rende ancor più plastico e reale. E poi una sculturina realizzata a Boisgeloup nel 1934, che sembra davvero il divertissement di un genio bambino: è l’impronta realizzata in gesso di un giornale accartocciato. Un genio bambino vorace di realtà…

Empreinte de papier froissé, 1934

Written by gfrangi

Gennaio 8th, 2023 at 7:05 pm

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Braque, il quadro è un’avventura

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È stata una sorpresa la lettura estiva di questo libro di dialoghi e pensieri sull’arte di Georges Braque (appena pubblicati da Morcelliana, che prosegue così una collana interessante iniziata con “Paris sans fin” di Giacometti). Straordinarie le pagine in cui rievoca l’intensità di quella breve stagione cubista con Picasso («In quegli anni ci siamo detti con Picasso cose che nessuno si dirà più»). Una breve stagione a quattro mano, alla «ricerca dello spazio tattile», «per toccare la cosa non solo vederla». Si avverte l’epopea di una reinvenzione dello spazio («un accanimento»)1º, obiettivo per il quale erano stati messi a tacere anche i colori («bisognava creare uno spazio prima di arredarlo»). Braque racconta dei momenti in cui con Picasso «facevamo fatica a distinguere le nostre tele», da cui l’idea di non firmarle. È il momento dell’idea, a cui spiega Braque, segue quello della rivelazione in cui le individualità tornano a distinguersi. «Quest’incontro con Picasso rappresentava una circostanza della nostra vita. Ho scritto, a proposito della poesia, che essa è sempre “circostanziale”. A maggior ragione lo è anche la vita».

Come nasce un quadro? Sentite: «Se dovessi cercare di vedere qual è il cammino dei miei quadri, direi che c’ dapprima un’impregnazione seguita da un’allucinazione – la parola non mi piace, ma coglie nel segno -, che diventa a sua volta un’ossessione, e per liberarsi dall’ossessione, bisogna fare il quadro, senza questo non si può vivere…».
Il quadro come spazio che si libera dall’idea che pur l’ha generato. «Il quadro è innanzitutto un’avventura. Parto all’avventura verso il mistero delle cose, il loro segreto… aspetto che si svelo, l’attesa a volte è lunga. Dimentico il mio mestiere, ma so che mi è fedele». Braque insiste molto sulla “prigionia” del talento («Cézanne ha ripulito la pittura dall’idea di maestria»: per questo è da lui che inizia l’avventura). Quando di ricorre al talento è perché fa difetto l’immaginazione, insiste a ripetizione Braque.
Alla fine del libro aleggia questa idea del quadro come qualcosa che per essere compiuto deve liberarsi anche del suo autore. «Bisogna che io lotti contemporaneamente contro l’idea che si è impiantata e il quadro che difende la propria esistenza, la propria indipendenza. Se diventa copia di un pensiero è finita».

Nelle parole di Braque si avverte la stessa leggerezza della sua mano in pittura. Una leggerezza non solo formale, ma sostanziale: come se alla fine volesse sottrarsi, fare un passo indietro per lasciar essere le cose. C’è molto spazio per il “mistero” nel modo d’essere di Braque (il quadro diventa tale quando non è più a portata di mano). «Non cerco mai di definire le cose, essendo portato verso una sorta di “infinizione”».
Esito di questo modo d’essere e di vedere due pensieri sorprendenti ed estemporanei: «Penso che l’opera d’arte finisca come una preghiera»; «L’arte è una ferita che diviene luce…». Chapeau.

Georges Braque, “Il muto fervore dello spazio”, Morcelliana, 16 euro

Written by gfrangi

Agosto 13th, 2017 at 7:38 am