Robe da chiodi

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Da San Matteo a Lazzaro, Caravaggio sempre a 16/9

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In una puntata romana settimana scorsa vedo in sequenza la Chiamata di Matteo a San Luigi dei Francesi e la Resurrezione di Lazzaro appena restaurata e presentata a Palazzo Braschi. Ci stanno dieci anni tra l’uno e l’altro, una condizione psicologica e mentale completamente diversa per Caravaggio, ma non mi ero reso conto degli elementi di continuità tra questi due capolavori. Notate lo sviluppo tutto orizzontale della narrazione: sono quadri pensati a 16/9 verrebbe da dire (più cinematografici che mai), se ci si limitasse a ritagliare lo spazio dove stanno i protagonisti. Poi in realtà lo spazio si prolunga anche in altezza al punto che i formati finiscono con l’essere in tutt’e due i casi diversamente verticali: sul Lazzaro in particolare incombe quell’immenso spazio di sacco sulla cui funzione aveva scritto cose bellissime un osservatore insospettato come Luigi Moretti.
L’orizzontalità è intuizione formidabile perché riporta a terra la narrazione svuotandola di ogni enfasi e di ogni retorica: c’è uno sviluppo e non un epicentro. C’è un’insistenza sull’azione nel suo farsi più che sul suo esito. Matteo indica se stesso un po’ stranito, ma non ha ancora mollato la presa dei denari sul banco. Lazzaro è per metà nella rigidità della morte e per metà nel torpore della vita che ritorna. L’orizzontalità è dettata in modo decisivo dalla braccio teso di Cristo che Caravaggio sembra dipingere quasi in fotocopia nelle due tele, solo rovesciandone la direzione: verso sinistra nel Matteo, verso destra nel Lazzaro.
L’intuizione costruttiva di Caravaggio è così giusta e così grande, da funzionare alla perfezione per due quadri psicologicamente tanto lontani l’uno dall’altro. Nel Matteo c’è la sicurezza di chi sa di dare scacco matto a tutta la pittura che si era fatta sino ad allora. Nel Lazzaro si respira invece l’affanno di un ultimo ciak quasi fuori tempo massimo. Un’orizzontalità calma lascia il posto ad un’orizzontalità concitata. Ma il film, verrebbe da dire, è sempre lo stesso.

Due note sulla Resurrezione di Lazzaro. Illuminata in modo davvero indegno: chissà se gli organizzatori se ne sono accorti, visto che il quaderno con i commenti dei visitatori insistono solo su quel punto?
Secondo, resta quel vago enigma se sia Marta o sia Maria, la sorella che si china sul volto del fratello per intercettarne il primo fiato della sua seconda vita (per me uno dei particolari più belli di tutta la storia dell’arte). Dovessimo attenerci alle tipologie umane indicate dal Vangelo, diremmo senz’altro che si tratta di Maria. Ma le risultanze iconografiche portano a rovesciare i ruoli: Maria sarebbe quella indietro in piedi, a capelli sciolti e senza velo. Noto però che Alessandro Zaccuri nell’introduzione del catalogo viene dalla mia. Ma ho verificato su tutti i testi in mio possesso e non trovato altri storici dell’arte accettare questo scambio. Mi ha divertito riscontrare che Francesca Cappelletti nel volume uscito un paio di anni fa per Electa, la scambi niente di meno che per la madre di Lazzaro… (pag. 246). Cose che succedono quando si fanno i libri un po’ troppo in fretta

Written by gfrangi

Luglio 2nd, 2012 at 9:14 pm

Il Lazzaro di Caravaggio, il più bel quadro del mondo

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scan-090211-0008Ultimamente mi sono sorpreso a ripetere un giudizio un po’ apodittico: la Resurrezione di Lazzaro, dipinta da Caravaggio a Messina nel 1609 è il più bel quadro del mondo. Provo ad andare oltre l’istintività del giudizio e a supportarlo con qualche ragione. Innanzitutto due dati, non inutili: Caravaggio dipinge questa grande tela per Giovan Battista De Lazzari, mercate genovese di stanza a Messina. Lo dipinge per la chiesa dei Crociferi (l’ordine di Camillo de’ Lellis). Nella commissione in realtà si parla di un soggetto diverso, con la Madonna e San Giovanni Battista, omaggio del committente al “suo” santo. Alla consegna Caravaggio si presenta con un soggetto del tutto diverso, evidentemente concordato in privato con il committente, ma verosimilmente frutto della sua libertà creativa. Anziché appigliarsi al nome si appiglia al cognome del mercante: di qui la scelta di raccontare la Resurrezione di Lazzaro. Il cardinal Paleotti, con un po’ di sprezzo, chiamò questa di Caravaggio il peccato di «novità». Scrive Ferdinando Bologna, che Caravaggio si concedeva «una personalizzazione di scelte in cui il peccato di “novità” è non meno flagrante che deliberato».

Il quadro viene accettato il 10 giugno 1609, «nonobstante» il cambio in corsa del soggetto. Alto 3,80 cm, metà occupata dalla scena, metà dal muro terroso che sembra di una grotta. I personaggi sono tutti allineati in orizzontale, in una ripresa fotografica e frontale. C’è la frenesia concitata e brutale di un fatto di cronaca, ma il clik blocca un istante di ordine compositivo assoluto. Un fiotto di luce di forza atomica entra da sinistra, prende di spalle un Gesù che resta in ombra e piomba sul corpo di Lazzaro, che si sveglia dal sonno della morte con il gesto, vitale e stupefatto, del dormiente che si stira: ma le linee del suo corpo (su cui ha scritto cose inarrivabili Roberto Longhi: «il corpo madido», «un tragico negativo della morte di Adone, quasi provasse a tinger di nero anch l’antica Grecia…») compongono un’architettura suprema – architettura di carne rediviva – su cui si regge tutto il quadro. Tra gli astanti in tre guardano curiosamente verso la parte esterna del quadro, distogliendo lo sguardo dall’epicentro del pur clamoroso fatto. Che cosa guardano? L’origine dela luce? In realtà si coglie dell’ansia sui loro volti. Come se non ci fosse tempo da perdere, come se ci fosse da fare in fretta. Tra i tre c’è lo stesso Caravaggio, il più platealmente distratto: autobiografia di un uomo braccato? L’occhio è sgranato e inquieto…

A destra invece tutti sono decisamente sul pezzo. In particolare Maria, sino a pochi attimi prima persin risentita con Cristo («Se tu fossi stato qui, Lazzaro non sarebbe morto») e ora proiettata, con un gesto mai visto prima, sul volto del fratello, per baciarlo ma anche per sentirne, sul proprio volto, il primo fiato. Particolare di abissale verità e tenerezza, là dove l’immaginazione di Caravaggio va talmente dentro quel fatto da coglierne dinamismi  assolutamente veri, mai prima raccontati. Un bacio trattenuto (le labbra sfiorano soltanto) che vale milioni di baci. Guardate poi la mano di Maria, accarezzata dalla luce, che quasi non osa accostarsi al volto del fratello: come avesse pudore e tremore a toccare un simile miracolo. Quasi non potesse contenere il sussulto per quel di cui è testimone. Più sobria, più osservatrice, come da “copione”, alle sue spalle c’è Marta.

Il tutto dipinto con la fretta che è propria della vita. Con la terra che brucia sotto i piedi. E con quel grande vuoto che incombe e cha ha la funzione di sgonfiare ogni enfasi, di far piombare il quadro dentro la essenzialità drammatica dei fatti. Ecco perché siamo davanti (secondo me) al più grande quadro del mondo.

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Written by giuseppefrangi

Febbraio 21st, 2009 at 5:05 pm