Robe da chiodi

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Quando la pittura fa camminare. Tiepolo e Hockney

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Il Tiepolo “ricomposto”

Sentite che coincidenza. Il settimanale Panorama mi chiede un articolo su una mostra curiosa che si apre a Udine a metà novembre: verrà ricomposto un celebre quadro di Tiepolo, dipinto per un palazzo veneziano e poi tagliato per renderlo appetibile al collezionismo inglese, probabilmente già a metà 700. Risultato, la tela di quattro metri oggi è divisa tra Edimburgo (Il ritrovamento di Mosè) e Torino, Museo Agnelli (il fantastico Alabardiere con grande paesaggio di montagne innevate viste dalla laguna). Per trovare qualche spunto, apro il bellissimo libro di Alpers e Baxandall su Tiepolo e trovo questa lettura: il taglio del quadro non va semplicisticamente spiegato con ragioni di misure e di mercato, ma con la difficoltà a recepire la novità di Tiepolo. Che non costruiva più quadri attorno a un centro, ma mentalmente si era assestato su un modello compositivo nuovo, che sottrae a chi guarda un punto di osservazione prestabilito e lo induce quindi a muoversi per sperimentare vari punti di vista. Non a caso, scrivevano Alpers e Baxandall, i grandi capolavori di Tiepolo sono in ambienti di transito. È lì che lui si trova a proprio agio: la Galleria del Palazzo Arcivescovile, l’anticamera di Palazzo Clerici e soprattutto l’immenso soffitto di cielo che si svela salendo lo scalone del Palazzo di Würzburg. È la modernità di Tiepolo quindi che non è stata compresa e ha “legittimato” il taglio della tela ora ricomposta in un’unica cornice a Udine.
Il giorno dopo prendo in mano il nuovo stupendo libro intervista a David Hockney (A bigger message, Einaudi) e a pagina 181 trovo la stessa identica osservazione sul Tiepolo di Würzburg, il capolavoro che si dischiude man mano che ci si muove («E i personaggi non sembrano mai fuori posto. Funzionano da ogni angolazione», dice Hockney). Evidentemente il problema del Tiepolo tagliato non era di essere troppo grande ma di essere già troppo nella modernità.

Written by gfrangi

Novembre 5th, 2012 at 7:02 pm

Ancora su Würzburg. Tiepolo, la spedizione a cielo aperto

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Mi scrive Paola: «Rimane un mistero di come un giorno Tiepolo (che sempre mi appariva leggero e occupato in lievi fluttuamenti) senza perdere nulla della sua leggerezza abbia organizzato coi suoi figli quella spedizione da tutte le terre abitate al cielo aperto». Dunque: Tiepolo parte con i due figli e un aiutante per Würzburg nell’inverno del 1750, con un contratto principesco in mano che riguarda una sala della Residenza, non ancora la volta dello scalone. La Sala del Principe è già corredata con gli stucchi fantasmagorici di Antonio Bossi e c’è un programma iconografico molto preciso da seguire, che vuole rappresentare la legittimità del potere del vescovo principe della Franconia. Nell’estate 1751 Tiepolo dipinge il soffitto e una delle due scene sulle pareti (ma non si devono dimenticare i meravigliosi monocromi verdi sull’oro, e quelle figure su fondo bianco, messe sopra i cornicioni che sembrano precipitare nella sala). Nell’estate 1752 Tiepolo conclude l’opera, ma nel frattempo si è guadagnato la commissione impossibile, i 600 metri quadri della volta sopra lo scalone. A giugno mettono l’immensa impalcatura. Tiepolo attacca dal centro. Poi arriva l’inverno. Si riprende nella primavera del 1753. Le idee devono essere chiarissime, perché ad agosto il lavoro è praticamente concluso. Ad ottobre Tiepolo chiude il cantiere e il 13 novembre riparte per Venezia. Provate a pensare a quella partenza per sempre, lasciandosi alle spalle quell’immenso pezzo di felicità fatta pittura. Quel chiudere la spedizione a cielo aperto e ritornare nelle terre abitate. Quel prendere e andare senza nessuna nostalgia, per attendere con puntualità professionale ad altri impegni. Ci sarebbe stato da accasarsi sotto quel cielo, e invece…  Invece, la vita, Venezia, i figli, il lavoro. Chissà.

Una nota: gli stucchi di Bossi, frutto di un rococò ipereccitato e impazzito, sembrano presagire quel che sarebbe stato dipinto nella Stanza del Principe: qerché sembrano accendersi di una febbre che li scuote convergendo verso il centro del soffitto. Straordinario il corto circuito tra la tensione che li fa sembrare come lucertole dorate e la calma suprema con cui Tiepolo occupa il centro della scena… Ma forse c’è stato un pensieor posteriore. Gli stucchi erano bianchi, come quelli della magnifica stanza che precede la Sala del Principe. Era stato Tiepolo a farli dorare, moltiplicandone l’eccitazione.

Written by gfrangi

Settembre 4th, 2010 at 7:25 pm

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Il cielo senza fine di Tiepolo

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Un 20 agosto a Würzburg, Bassa Franconia, sguardi all’insù sotto l’immensa volta (30 metri per 19) dipinta da Tiepolo nel 1752. È molto di più di quanto uno si aspetti. Ecco qualche riflessione, provando a razionalizzare.

Innanzitutto, è un soffitto che non ha un confine: certo, c’è il cornicione, ma Tiepolo lo ha usato come piano d’appoggio per le raffigurazioni dei quattro continenti. Quindi è come un balcone continuo, popolato da immagini travolgenti e dietro cui si profilano paesaggi lontani. L’escamotage enfatizza l’immensità. Al centro c’è un enorme cielo che sembra salire sino all’infinito, cosicché quello che potrebbe sembrare un grande vuoto centrale, diventa uno straordinario pieno. È uno dei più bei cieli che abbia mai visti dipinti, denso, con nuvole potenti, tanto da trasformarsi in terrazze per gli dei in rosa che le popolano; un cielo con striature di una bellezza che commuove. Un cielo di una bellezza senza ritegno, immaginato come una spirale di paradiso, in cui il dato di natura è riproposto ma non con occhio di uomo… Vorrei dire, questo è il cielo visto con l’occhio di Dio.

Poi colpisce il coraggio di affrontare un’avventura di queste dimensioni, di governarla, lasciando galoppare la golosità quasi ingorda della propria pittura, ma senza mai perderla di controllo. Non è un caso che sul lato forte della balconata compaiano tutti i protagonisti dell’impresa (l’architetto Neumann, il folle stuccatore Antonio Bossi; e lui, Tiepolo, con i due figli), nella consapevolezza di aver fatto qualcosa che non ha bisogno di aspettare un giudizio. È grandezza che parla da sé.

È una di quelle mete che una volta nella vita bisognerebbe mettere in agenda. La sorpresa del cielo senza fine che si spalanca man mano che si  esce dal vestibolo basso e si sale per lo scalone non è restuibile con nessuna foto…


Written by gfrangi

Agosto 22nd, 2010 at 10:06 pm

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Vastità americane

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Vista in agosto la mostra di James Turrell a Villa Panza a Varese. Tutta costruita per spiegare l’immenso progetto del Roden Crater, presso Flagstaff in Arizona. Dal punto di vista della sensibilità è distante anni luce, perché di uno spiritualismo senza più corpo. Ma alcune ammissioni è giusto farle.

Punto primo. Fa impressione riscontrare come l’arte americana abbia ereditato la vocazione a pensare in grande. In America esplodono le dimensioni, non solo per esibizionismo, ma per un bisogno di “andare oltre“ connaturato all’opera. Ha cominciato Pollock, gli altri sono andati dietro. L’arte non è più un giochino, esorbita, esce dalle misure. Nessuno nel 900 in Europa ha spinto in questa direzione. Eppure nella storia europea l’andare oltre la misura è stata una spinta sempre presente: pensa all’enormità della Sistina, ai metri di tela nera sopra gli ultimi Caravaggio, alla forza centrifuga della scultura di Bernini. Ma anche alle galoppate di Tiepolo… O agli esorbitanti crocifissi di Cimabue. Ora questa eredità sembra tutta americana. Turrell prende un cratere nel desero e ci costruisce nei decenni la sua opera (nella foto Akpha space. Lo skyspace).

Punto secondo. L’arte americana si misura sistematicamente con l’assoluto. Non è di tutti, ma accade con una frequenza che fa impressione. E’ un assoluto disincarnato, senza volto: ma questa è caratteristica americana o è non è invece perché l’uomo ha perso la grammatica dell’assoluto? Non sa più dargi nome e faccia (come del resto aveva detto Péguy)? L’arte americana ci dice che oggi il sacro è aniconico (Dan Flavin alla Chiesa Rossa di Milano). Che chi lo vuole rappresentare cade sistematicamente nell’illustrazione patetica. Le Corbu a La Tourette mette solo uncrocifisso minimo sull’immensa parete bianche. Il resto è solo luce. C’est tout. E Matisse è più evocativo nei papier decoupèe che nella Via Crucis di Saint Paul de Vence.

A proposito. A Londra viene ricomposto il ciclo Seagram di Rothko. Immensità, più assoluto (anche se nero). Ma Rothko in più ha anche il senso (a volte colossale) della struttura. Ha ancora un corpo. Per questo è il più grande.

Written by giuseppefrangi

Settembre 16th, 2008 at 10:21 pm