Robe da chiodi

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Francesco Mochi, due cavalli nel cono d’ombra dell’Italia periferica

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Se ne stanno in una piazza che invece di essere intitolata a loro è intitolata ai loro cavalli. Non gli è stato dato neppure il centro di quella piazza, in quanto hanno dovuto lasciare libero campo al prospetto del palazzo Comunale, più noto come “il Gotico”. Sono in tutto e per tutto periferici i due monumenti equestri ad Alessandro e Ranuccio Farnese, capolavoro che Francesco Mochi realizzò tra 1613 e 1629 per Piacenza, una città marginale rispetto ai grandi flussi dell’arte, seconda anche a Parma nel Ducato di cui faceva parte, governato dai Farnese.

Francesco Mochi, Alessandro Farnese

Quando la commissione dei cavalli, come lui stesso disse, «gli cadde nelle mani», Mochi era impegnato a Roma alla statua di Santa Marta per la cappella Barberini a Sant’Andrea della Valle: la scelta di lasciar in sospeso il lavoro per uno dei cardinali più potenti di Roma (che nel 1623 diventa papa con il nome Urbano VIII) e di intraprendere una rotta clamorosamente contromano, svela la radicale “eccentricità” di questo grande scultore. Da Reni a Guercino fino a Lanfranco, in tanti lasciavano l’Emilia alla volta di Roma, destinazione irrinunciabile per un artista, come dimostrava l’esperienza di Carracci; Mochi invece non ha esitazioni nell’imboccare il percorso opposto. Un percorso che lo avrebbe tenuto lontano dalla capitale dell’arte per ben 17 anni. Perché aveva accettato il rischio di finire nel cono d’ombra della provincia? Per quanto l’impresa fosse di grande impegno e importanza, infatti era destinata a restare “nascosta”, come dimostra il fatto che persino nelle prime biografie del Mochi c’è confusione sul numero reale dei monumenti realizzati.

Francesco Mochi, Ranuccio Farnese

È questa la domanda attorno alla quale ruota il libro che Tomaso Montanari ha dedicato ai due meravigliosi monumenti equestri piacentini (“Capolavori fuori centro”, Skira, con il contributo della Fondazione di Piacenza e Vigevano, pag. 200, s.i.p.). La committenza «gli cadde nelle mani» per tramite di Mario Farnese, esponente di un altro ramo della famiglia e suo convintissimo sponsor. Convinto al punto da esporlo a lavorare con il bronzo, materiale sul quale, lui “marmoraro” finissimo, non aveva nessuna esperienza. Per di più, Montanari ipotizza che sia stato proprio Farnese ad alzare ulteriormente l’asticella, proponendo di passare dalla prima ipotesi di monumenti posti su colonne (pensati come risposta a quello realizzato da Leone Leoni a Guastalla per l’odiatissimo Ferrante Gonzaga), alla soluzione ben più impegnativa e ambiziosa dei monumenti equestri.  

La vicenda del cantiere ci consegna l’immagine di uno “statuario” battagliero, irriducibile, che si muoveva come se avesse sempre qualcosa da dimostrare al mondo: «cresciuto nella tradizione giambolognesca delle statue equestri fiorentine», aveva accettato senza timori il nuovo e ben più impegnativo progetto. Nel corso del cantiere Mochi si era via via liberato degli aiuti, volendo controllare tutte le fasi della lavorazione. In particolare aveva messo i committenti davanti ad un aut aut: dovevano scegliere tra lui e il fonditore che gli era stato affiancato, Marcello Manochi. In una lettera del 1618 al suo protettore Mario Farnese racconta di aver dovuto «ingoiare bocconi amarissimi». E poi spiegava: «avendomi imposto il signor governatore che dovessi risolvermi di pigliar’io solo tutta l’opera o lasciarla, ho risoluto di pigliar’io tutta l’impresa». Anche quando gli era stato offerto l’aiuto di Giuliano Alberghetti, «mitico fonditore del granduca di Toscana a cui si doveva la nascita del Cosimo di Giambologna», Mochi aveva posto il veto. Tra i rischi che si era preso c’era dunque anche quello di assumere il doppio ruolo di scultore e fonditore. Di controcanto, i tanti detrattori lo accusavano di pratiche eterodosse, come quella di lisciare le cere con olio di sasso. In realtà Mochi ragionava da scultore abituato a lavorare con il marmo e cercava l’assoluto controllo dell’effetto finale del bronzo, che voleva lucido e finitissimo, senza che interventi dopo la fusione ne increspassero la superficie.

Il 28 gennaio 1618 il “cavallo grande” del monumento a Ranuccio usciva dalla fornace in fusione unica e già due giorni dopo l’eco del successo era arrivata a Parma da dove il Duca inviò le sue congratulazioni. Basta analizzare questo primo cavallo per individuare le ragioni che avevano convinto Mochi a tirarsi fuori dalla mischia romana: come sottolinea Montanari, siamo di fronte ad un animale «forte, nervoso, irrequieto, quasi spiritato». Si sta avviando al trotto e si proietta “in falso”, cioè lanciando la zampa anteriore nel vuoto, fuori dal perimetro del piedistallo. È una sensazione che viene rafforzata dalla figura di Ranuccio, conclusa nel dicembre 1620. Ranuccio monta senza sella e sembra percosso da un vento violento che agita il mantello e tutte le decorazioni, producendo un effetto che Montanari paragona ad «un fuoco d’artificio di piccoli proiettili di bronzo». È un bronzo “adrenalinico”, quello di Mochi, riflesso di un temperamento ardito, sperimentatore, che solo nel contesto appartato di una città di provincia come Piacenza poteva mettere in atto la sua grammatica figurativa così radicalmente eccentrica.

Con i cavalli Farnese ritroviamo il Mochi geniale dell’Annunciazione di Orvieto (1603/08), dove il momento di trapasso dalla tradizione manierista a una forma più aperta e dina- mica che presente il barocco era rappresentata al meglio da quella Madonna che si alza di scatto, come presa da una scossa, e che ruota su se stessa facendo perno sulla sedia. Roma al contrario lo avrebbe costretto a un’omologazione stilistica, traiettoria alla quale non era per nulla predisposto, come dimostra il triste declino degli ultimi anni nella capitale, quando rifiuta di adattarsi al canone berniniano: i biografi lo avevano dato addirittura per morto prima del tempo, nel 1646, anziché come realmente accadde, nel 1654. Un destino simile a quello di Lorenzo Lotto, altro grande eccentrico dell’arte italiana, finito nell’ombra del convento di Loreto dove si era fatto oblato: Mochi è un po’ il Lotto della scultura. Grande e sfortunato, al punto che dopo 17 anni di dedizione alla causa dei due monumenti, dovette subire un’ultima umiliazione da parte della duchessa madre Margherita Aldobrandini, vedova di Ranuccio, che pretendeva di sottoporre a perizia i monumenti prima di pagare l’artista. Lo scultore per questo si era rivolto al cardinal Odoardo, fratello del Duca, con una lettera piena di amarezza. 

Francesco Mochi, formella con la “Presa di Anversa”

Nonostante abbia dovuto subire questa prepotenza finale, il caso di Mochi resta emblematico di quella ricchezza della geografia artistica italiana rappresentata dalla vitalità delle periferie. È una situazione che anziché essere minore si rivela spesso, lungo i secoli, come alternativa alle elaborazioni messe a punto nei “centri”, a partire in questo caso da Roma. In alcune circostanze, più che alternativa sembra piuttosto insubordinata al centro. Come ha scritto Carlo Dionisotti, è «un’Italia municipale, non regionale, che è esistita per secoli indomita, troppo vigorosa e aspra per essere selvaticamente paga di sé». Il caso di Mochi rientra certamente in questa casistica: artista controcorrente, irregolare, ha il gusto delle clamorose trasgressioni formali, come accade ad esempio per la coda del cavallo di Alessandro Farnese, trasformata in una strabordante, esagitata tempesta di bronzo. Come aveva scritto Evelina Borea introducendo il fascicolo dedicato a Mochi nei preziosi Maestri della Scultura della Fabbri, siamo di fronte a dettagli di «una veemenza fuori dei limiti del verosimile». Nella separatezza della piccola Piacenza Mochi aveva, con ogni evidenza, trovato un suo spazio di vitale libertà: quella che gli aveva permesso ad esempio di spalancare nella formella dedicata alla “Presa di Anversa”, alla base del monumento dello stesso Alessandro, una veduta marina che sembra inabissarsi nel bronzo. Il bassorilievo sull’altro fronte, con la rappresentazione della “Presa di Parigi” da parte dello stesso Farnese, aveva conquistato l’occhio di Stendhal, che lo inserisce con precisione in un passaggio della Certosa di Parma. 

L’articolo è stato pubblicato su Alias, il 14 marzo 2021

Written by gfrangi

Marzo 26th, 2021 at 5:35 pm

Cattivi pensieri su Colosseo e Pollaiolo

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Sull’idea lanciata da Daniele Manacorda di ricostruire l’arena, demolita a fine 800, nel Colosseo si sono lette tante cose, con i consueti opposti schieramenti tra chi apre all’ipotesi e chi invece vi intravvede subito illecite retropensiero di sfruttamento. Stavolta però gli schieramenti sono stati meno meno schematici. Su Il manifesto è apparso un articolo di Valentina Purcheddu che si sfila dalla posizione tenuta da Settis e Montanari, e spiega le ragioni di progettare quell’intervento per il Colosseo. Scrive l’archeologa: «Rivestire il “Grande Ignudo” è ciò che Manacorda si augura per il Colosseo ma soprattutto per i suoi visitatori, che potrebbero in questo modo beneficiare di una corretta comprensione dell’edificio per spettacoli, esplorandone quegli spazi originaria¬mente nascosti, in cui si muovevano uomini e belve, godendo altresì di una prospettiva a cielo aperto dall’arena verso le gradinate e viceversa». Mi sembra un ragionamento convincente, le darei ragione. Poi è arrivato Pallotta, presidente della Roma, a ventilare l’idea di fare anche partite di calcio nel Colosseo (per fortuna ha sbagliato le misure: un campo non ci sta). E mi è tornato il dubbio che a pensar male, come fa Montanari, si farà pure peccato ma quasi sempre si indovina….

Apre la mostra delle donne dei Pollaiolo al Poldi Pezzoli. Picolla ma ricchissima di pezzi straordinari. Una curiosità: la tavoletta con Apollo e Dafne proveniente da Washington è stata attribuita dai curatori a Piero e non al più celebre Antonio del Pollaiolo, come si vede sul sito della National. Se fosse stato di proprietà dell’Ambrosiana, avrebbero già ritirato l’opera…

Written by gfrangi

Novembre 6th, 2014 at 8:04 pm

I quadri, anche a costo della fame

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Non è nuova ma è bello rileggerla. La ripropone oggi Tomaso Montanari, in un articolo sul Corriere del Mezzogiorno. L’aveva usata anche il Fai per una campagna soci nel 2009.

Epigrafe nel portico della Pieve del borgo bergamasco di Dossena, a 40 km dalla sua terra di Caravaggio dove si legge: «In tempi di dura carestia, al popolo di Dossena qui adunato a suono di campana, venne offerto frumento in cambio dei suoi qaudri. Ma la forte gente di questa terra a una voce il baratto rifiutò. Ed i suoi quadri prescelse e la sua fame».256px-Dossena_epigrafe-1

Written by gfrangi

Settembre 3rd, 2014 at 8:43 am

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A proposito di patrimonio, da Palazzo Reale a Prato

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Torno alla vecchia consuetudine degli appunti domenicali, contando di essere puntuale…

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A PROPOSITO DI PALAZZO REALE
Non ho visto le mostre in corso appena aperte. Posso solo dire che non mi piace l’enfasi sul fatto che a Milano sia arrivato il N.27 del Whitney museum di NY: ricordo che lo stesso quadro aveva fatto la trasvolata oceanica nel 2002, sempre per arrivare a Palazzo Reale… Ma non è di questo che mi interessa parlare. Nei giorni scorsi a Casa Testori abbiamo proiettato un documentario ritrovato, realizzato su testo di Testori in occasione della mostra sulla Ca’ Granda a Palazzo Reale. Ora, a parte l’emozione di rivedere quell’allestimento stupendo, la cosa che mi ha colpito è la facciata di Palazzo Reale. L’immagine presa dal filmato purtroppo è quel che è, ma rende bene l’idea: un allestimento semplice ma elegantissimo (la grafica era curata da Bob Noorda) che occupava tutta la comunicazione dell’ingresso. Guardate cos’è oggi (e non solo oggi) la facciata di Palazzo Reale: una macedonia di francobolli per annunciare mostre che non hanno quasi mai nessun nesso l’una con l’altra. Io credo che l’importanza di una sede espositiva la si colga proprio da questi particolari: allora Palazzo reale aveva ancora una sua immagine e una sua funzione. Sapeva scegliere “la mostra” senza condannarsi all’ammucchiata di mostre. Sapremo ritornare lì?

COS’È IL PATRIMONIO
Ho trovato questa definizione molto bella nel libro appena uscito, scritto da Montanari, Settis, Alice Leone e Paolo Maddalena (Costituzione incompiuta. Arte, paesaggio, ambiente, Einaudi): «Il patrimonio non è la somma amministrativa dei musei, delle singole opere, dei monumenti, ma è la guaina continua che aderisce al paesaggio, cioè al territorio della “nazione” – come la pelle alla carne di un corpo vivo».

L’OFFICINA PRATESE
Deve essere davvero bella la mostra in corso a Prato sul primo rinascimento nella città della Cintola. È un affondo in quel 400 che cerca di trovare aria e nicchie in cui vivere dopo la terrificante accelerazione impressa da Masaccio. Ma il ragionamento che me ne veniva era questo. Prato è un lampante esempio di cosa significhi “Italia”. Nel 1140 arrivò qui la Cintola, unica reliquia di Maria. Un striscia tessuta in lana di capra e tinta di verde. Un manufatto prezioso. Sarebbe bello indagare il nesso tra la presenza di questa reliquia veneratissima e la fortuna di Prato come città del tessile, fortuna da cui deriva tutto quel che oggi si vede in mostra. È il circolo virtuoso fede-economia-produzione artistica il segreto dell’Italia. O meglio delle “Italie” (questo è il patrimonio, generato da un “corpo vivo”).

Written by gfrangi

Settembre 29th, 2013 at 10:53 am

Un libro che raccomando: il Barocco di Montanari

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Scorcio del Baldacchino del Bernini a San Pietro, 1631


«Il vero barocco di Roma è invece tutto in quella soluta felicità di una forma civile ed antica che, evocata dal canone classico, ora però si vede vibrare come attraverso un velo d’aria infiammata; come se il travertino scottasse gonfiando sotto lo scirocco romanesco». È facile riconoscere in queste righe la grande prosa di Roberto Longhi capace di aderire come un guanto all’oggetto di cui sta parlando (in questo caso è la Fontana dei Fiumi di Bernini in Piazza Navona). Ho trovato la citazione nel libro bello e utile di Tomaso Montanari sul Barocco, uscito nella Piccola storia dell’arte Einaudi. È un libro che consiglio perché capace di uno sguardo complessivo, sintetico e chiaro. Uno sguardo che giustamente non nasconde la propria meraviglia di fronte a quella stupefacente stagione della nostra storia culturale. In particolare il libro di Montanari risuona alla fine come un inno ragionato e insieme innamorato della Roma che va dagli affreschi della Galleria Farnese dei Carracci (1599/1600, in contemporanea Caravaggio era alla Cappella Contarelli…) sino alla volta del Gesù del Baciccio (1576/79). In mezzo, sotto la regia dei papi (è un libro giustamente molto “papalino”), ci sta l’eccezionale cavalcata di Bernini e di Borromini; e c’è la geniale e decisiva interferenza di Rubens. Montanari individua una data come momento di innesco di quel processo che portò ad una vera trasfigurazione di Roma: il 6 agosto 1623, quando il cardinale Maffeo Barberini venne eletto Papa, e diventa Urbano VIII. È lui ad avere una di quelle idee semplici che comportano però un salto di qualità nella storia di una città: si “inventa” il Bernini architetto e urbanista. In sostanza è lui a consegnare le chiavi del rinnovamento urbanistico di Roma a colui che sino ad allora era stato solo un grandissimo scultore. Ma più che di un rinnovamento urbanistico si trattò di un vero rinnovamento dell’immaginario della città, trasformata in uno scenario fantasmagorico, completamente immerso nelle dimensioni del mondo (quini nei sensi) ma insieme lievitante verso una dimensione superiore.
Montanari riconosce la genialità della strategia papalina innescata da Urbano VIII e perseguita con modalità diverse dai suoi successori. Ed è sinteticamente significativa la contrapposizione finale con quanto invece accadde con il “cambio della guardia” tra Roma e Parigi. Luigi XIV com’è noto pretese di avere il grande Bernini al proprio servizio. Un fatto che tutta l’Europa aveva seguito quasi aspettando qualcosa di epocale e inaudito. Invece il rapporto fallì clamorosamente. E la ragione la si capisce nel rapporto che uno scrittore inviò a Cosimo III di Toscana descrivendo la reggia che Luigi XIV si era fatto costruire, saltando Bernini. Versailles, scrive Lorenzo Magalotti, non lascerà particolari vestigia di sé. La cosa nuova è che «di dentro ogni cosa ride». In sostanza quello che a Roma era grande scena pubblica, era creazione aperta allo sguardo di tutti, a Parigi diventa scena di corte, chiusa, che taglia fuori dal mondo. Un cambio sostanziale, che ancora una volta ci fa capire quant’è stato grande il paese in cui viviamo. Non solo dal punto di vista artistico, ma anche da quello civile. Come appunto Longhi scriveva (da parte sua Francis Haskell individuò nella “grande cultura e tolleranza dei mecenati italiani” la causa originante di quella straordinaria stagione).

Written by gfrangi

Settembre 16th, 2012 at 9:17 pm

Il walzer dei quasi Caravaggio

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«D’altro canto, in un’epoca di pensiero debole come quella che stiamo attraversando, la sfiducia nelle capacità umane è all’ordine del giorno in ogni campo, e non ci si può troppo stupire che la storia dell’arte, in quanto disciplina umanistica, non sia stata risparmiata». Così scrive Cristina Terzaghi, una delle più autorevoli conoscitrici di Caravaggio in un articolo recente, Caravaggio 2010, pubblicato su Studiolo (n. 8), la rivista dell’Académie de France di Roma. L’articolo è un utile riepilogo ragionato delle tante novità emerse in occasione della sarabanda di libri e mostre per il centenario.
Quel pensiero calza alla perfezione anche per l’ultima novità di cui si è tanto parlato in questi giorni dopo al pubblicazione molto gridata sull’ultimo domenicale del Sole. Il quadro, per i pochi che ancora non lo sapessero, è un Sant’Agostino di provenienza Giustiniani, e inventariato come Caravaggio nel 1638. A seguire i documenti sembra che davvero che tutto torni: spostamenti tracciabili, antica etichetta sul retro che riporta a un erede Giustiniani. Addirittura, nota l’autrice della scoperta Silvia Danesi Squarzina, il calamaio è dello stesso tipo di quello che appare nella Vocazione di Matteo. C’è solo un documento che non convince molto, ma a quanto pare non sembra così importante: il quadro. Così almeno hanno detto senza mezzi termini due studiosi su posizioni culturali opposte come Vittorio Sgarbi e Tomaso Montanari (rispettivamente sul Giornale e sul Fatto).

Sulla questione non ho voce in capitolo: ammetto di aver rinunciato a fare lo storico d’arte quando ho capito di non avere “occhio”: ho scelto altre strade di cui sono contento, tenendo la storia dell’arte come attività libera e molto liberante. Tuttavia anche il mio occhio balbettante, davanti a quel Sant’Agostino s’è bloccato. Specie quando è stata proposta l’idea che dovesse essere il pendant di un altro Caravaggio Giustiniani, il San Gerolamo oggi a Montserrat. D’istinto mi è apparso chiaro che quelle due immagini non potessero essere state pensate dallo stesso cervello: il San Gerolamo («quintessenzialmene caravaggesco», lo definisce Montanari) ha un’essenzialità e una drasticità che manca in modo assoluto nel Sant’Agostino, un po’ traballante e annacquato in una mess’in scena volonterosa ma affastellata. Due mondi che non hanno punti di contatto, aldilà di tutte le possibili affinità stilistiche. Questo dice il mio occhio “balbettante”.
Ma a parte questa osservazione istintiva ed estemporanea, resta il fatto che le opere sembrano non “parlare” più. Come scrive Cristina Terzaghi, «sembra serpeggiare una sorta di abdicazione della storia dell’arte alla “gaia” scienza».

Written by gfrangi

Giugno 15th, 2011 at 9:05 pm