Robe da chiodi

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Tintoretto + America= Vedova

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Vedova a New York nel 1967

Questa recensione è stata scritta per Alias e pubblicata domenica 23 febbraio.

Nella foto lo si vede sbucare dalle scale del metro di New York, con la sua sagoma allampanata e lo sguardo già conquistato dal vortice urbano che che si scatena tutt’intorno a lui. La foto è del 1967 ed è interessante perché attesta con immediatezza una sorta di consanguineità: Emilio Vedova, veneziano ad oltranza, “fratello” di Tintoretto e di Giandomenico Tiepolo, intercettava in quella città esagitata e in tumulto qualcosa di familiare. Un luogo vitale, eccitato, ma che come la sua Venezia sembrava sempre sul punto di poter precipitare in un cumulo di rovine.
Quanto New York e l’America fossero entrati nei pensieri e nella pittura di Emilio Vedova lo rivela oggi una mostra organizzata a Verona dalla Galleria dello Scudo, in collaborazione con la Fondazione Emilio e Annabianca Vedova: si tratta di una trentina di opere mai viste prima d’ora, realizzate tra 1976 e 1977, e intitolate “De America”. Dalla mostra nascerà un libro di prossima pubblicazione curato da Germano Celant, direttore artistico della Fondazione e da Laura Lorenzoni, in cui verranno ricostruiti tutti i rapporti tra l’artista e gli Stati Uniti (edito da Skira).
È noto come Venezia fosse stata individuata dallo stesso governo Usa come la vetrina perfetta per portare in Europa le grandi novità dell’arte americana. Peggy Guggenheim aveva fatto da apripista; poi le Biennali, a partire dal 1948 con la presentazione di Pollock, erano diventate dei veri avamposti di una stategia studiata puntigliosamente (ben ricostruita da Francesco Tedeschi nel suo La scuola di New York, ed. Vita e Pensiero). Che un trentenne come Vedova si facesse profondamente segnare da quella contaminazione, che oltrettutto si consumava proprio nella sua Venezia, era un po’ nell’ordine delle cose. Vedova sentiva certamente molto più suo quel vento libertario arrivato d’oltreceano che non il realismo ad oltranza che dominava la pittura “politica” nell’Italia di quegli anni. Così nel 1951 lo troviamo già a New York ad esporre da Catherine Viviano; nel 1956 viene insignito del Salomon R. Guggenheim Foundation Award. Lo stesso anno una sua opera entra nelle raccolte del Moma. Nel 1960 arriva il Leone d’oro alla Biennale, da una giuria non a caso presieduta dal britannico Herbert Read. In mezzo ci sono le presenze alle Biennali di San Paolo e l’ingresso nelle collezioni del più americano di tutti i grandi collezionisti europei, Giuseppe Panza di Biumo. Vedova alla fine degli anni 60 tiene anche delle memorabili “lectures” sull’“artista oggi” all’Università di Berkeley. Nel 1967 invece riceve la commessa per il Padiglione Italiano dell’Expo: in quest’occasione presenta una grande istallazione luminosa Spazio/Plurimo/Luce, realizzata attraverso proiezioni con vetrini realizzati a mano dagli artigiani di Murano.
Quello tra Vedova e l’America è dunque un feeling intensissimo durato 25 anni, che nel ciclo del 1976/77 trova una sintesi dal sapore straordinariamente piranesiano. Non è un caso che l’artista abbia scelto di usare solo il bianco e nero, anche se si sa come le varianti dei neri, dei bianchi e dei grigi nella pittura di Vedova siano infinite. Complessivamente il ciclo si compone di tre grandi tele (in mostra ce ne sono due), di 13 carte delle stesse dimensioni, tutte esposte, e di un gruppo di lavori più piccoli ma assolutamente compiuti. Che l’aurea nella quale Vedova si muove sia quella larga dell’espressionismo astratto americano, ci sono pochi dubbi. Ma Germano Celant nel suo testo avverte di una profonda e anche decisiva differenza: «Vedova si ritaglia un territorio importante, quello del sogno errante che procede per balzi e per tagli, per fenditure e per cerniere con cui escludere definitivamente la rigidità e la monoliticità di un Kline, le istanze riduttive di Stella e, poi, di LeWitt. Rispetto agli espressionisti astratti che dimostrano una tendenza a controllare e definire, Vedova lascia che i segni prendano l’iniziativa e dominino la scena».
Il Vedova americano si porta dentro lo stigma di quel catastrofismo che da Tintoretto in poi ha segnato tanta grande pittura veneziana: per questo nelle sue tele ritroviamo un elemento che è estraneo o addirittura ignoto alla nuova arte americana. È il segno delle ombre, che s’infrattano in ogni centimetro di tela, innestando una dimensione di vorticosa precarietà, dando profondità anche storica al dramma dell’evento pittorico. Nel rutilante dispiegarsi di immaginarie geometrie urbane, nella scatenata danza operata con ogni strumento sulla tela, Vedova non censura mai la sofferenza per uno spettacolo che in realtà prevede nel suo spartito tante ferite, illusioni, fallimenti. È lo spettacolo americano, riconosciuto come fattore decisivo di modernità, ammirato per quella sua portata libertaria, ma visto con l’occhio profondo, scafato di chi ha frequentato il buio di Tintoretto o la spericolatezza cupa di Piranesi.
Vedova si lascia conquistare da quest’America, ma non ne resta soggiogato. Anzi, ritenendo che il proprio mestiere di pittore contempli anche un dovere morale, con questo ciclo sembra voler ricambiare il tanto ricevuto, restituendo un qualcosa che sembra un orizzonte, un luogo in cui meditare sul proprio destino, uno sguardo in profondità che liberi per un istante da quello stentoreo obbligo di essere sempre affermativi. «Certo l’America a me è rimasta dentro; come europei ne sentiamo la responsabilità, comprendiamo tante distorsioni e tanti inaridimenti umani, avvenuti per sopravvivere», annota non a caso Vedova. Che poi aggiunge: «Provoca immensa pietà quest’uomo, sradicato, perseguitato, che deve pure credere a qualche cosa per trovare la forza di restare, radicarsi, costruire…».
Davanti a queste tele e carte che costituiscono il De America comprendiamo allora meglio quale fu, verosimilmente, lo sguardo gettato da quell’allampanato veneziano che vediamo sbucare dalle scale del metro newyorkese. Uno sguardo conquistato, intriso di meraviglia, anche grato per tutta quell’energia che vedeva vorticare attorno a sé e che sapeva di poter far sua. Ma in quello sguardo c’era da subito, come lui stesso confessa, anche un sentimento istintivo di pietà. Per questo nel Vedova del De America, sentiamo vibrare passioni, ma anche avvertimenti che danno alla sua pittura un fremito profetico.

Written by gfrangi

Febbraio 25th, 2014 at 8:33 am

Lo sguardo ostile di Manet

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Manet, Boulogne, clair de lune, 1868

Manet, Boulogne, clair de lune, 1868

È impressionante l’energia che Manet libera nelle sale di palazzo Ducale. Una mostra scandita con grande chiarezza, allestita in modo sobrio, senza nessun inutile fronzolo.
Manet verrebbe da dire è al posto suo, assai più che non nell’abituale collocazione di gran parte di questi quadri al Musée d’Orsay (una collocazione che qui si capisce quanto gli sia geneticamente estranea). Non voglio dire affatto che Manet sia un pittore retrospettivo; al contrario, è di un oltranzismo che a volte mette quasi paura. Ma a Palazzo Ducale sta bene perché può rimarcare in modo inequivocabile, quasi draconiano, tutta la differenza con i suoi contemporanei, impressionisti in primis.
C’è un dato cromatico che timbra senza possibilità di smentita, l’identità pittorica di Manet: ed è il nero. La mostra di Venezia si svolge come una lunga carrellata di neri, usati nei modi a volte più arbitrari e a tratti anche violenti. Il nero di Manet non è un nero visionario, non ha mai doppi sensi, né echi simbolici; è sempre e solo una nota cromatica usata per una sorta di oltranzismo compositivo, per avvisare che il livello di lettura del quadro non è quello che presumevamo. Con il nero Manet sposta il campo da gioco della pittura. Dice ad esempio che la pittura, nel suo costituirsi materiale, può (anzi deve) essere del tutto indifferente al suo soggetto. È un nero aggressivo quello di Manet: lo si vede in quel meraviglioso quadro del porto di Boulogne sur mer sotto la luce della luna (1868), dove le sagome buie delle vele sembrano come dei tagli inferti alla tela. Lo si vede nel ritratto dei genitori, inchiostrato di un lampo buio, in questo caso funzionale alla cupezza rassegnata della loro condizione. Ma soprattutto è un nero tremendo quello del Bal masqué à l’Opéra (1872), piccola tela che dovendo rappresentare un momento di vita parigina felice e spensierata, invece sembra davvero mettere sotto assedio la tela. Ecco cosa significa che la pittura è indifferente al suo soggetto.

Il nero porta ad un’altra considerazione che può essere considerata anche consequenziale. Se la pittura di Manet è capace di una bellezza da togliere il fiato, ci si deve spiegare perché il suo effetto sia quasi respingente. A volte qualcosa che sfiora il repulsivo: non era semplicemente moralistica la notazione di alcuni suoi detrattori ai tempi dell’Olympia che lo accusavano di aver dipinto la donna con la carne di un morta. È un fatto palese che la costruzione dei quadri di Manet tagliano fuori chi li guarda: lo aveva sottolineato anche Foucault nelle sue lezioni. Il loro sguardo “ci salta”, nel senso o si rivolge a qualcosa che sta alle nostre spalle e di cui è impossibile prendere parte; oppure, se ci fissano, lo fanno con un’assoluta indifferenza, come ignorando il fatto che noi siamo lì davanti a loro. Noi siamo estranei ai quadri di Manet, che anche quando deve concedere qualcosa al gusto dei suoi collezionisti, dipingendo nature morte (infatti dopo il 70, con meno ansie sulla vendita dei quadri, le nature morte si diradano), offre insieme ai fiori trionfalmente belli, infila, gratuitamente, anche l’arnese che li ha recisi. Sono scelte bellicose, di cui ti rendi conto solo quando il quadro ti ha ormai conquistato. E resta l’imbarazzo di cosa volesse dire e indicare Manet con quelle forbici o coltelli. La cosa si fa esplicita nella Natura morta con anguilla e triglia (1864), dove il coltellaccio non se sta affatto appartato, ma incombe minaccioso. E sembra aver già mollato fendenti, provocando così quelle ombre brutali sulla tovaglia.

La sensazione è insomma che Manet ci sia ostile, a dispetto della estrema piacevolezza (apparente) di come dipinge. È una sensazione che corrisponde alla realtà? E se sì, come spiegarla? Una spiegazione ce l’ho, e meriterebbe un approfondimento vero. Mi limito a farne un accenno. Manet è il primo a fare i conti con il “non senso” del dipingere. Dipinge, perché gli vien talmente facile che non può esimersi. Ma non chiedetegli che senso abbia dipingere, perché non avrebbe risposta. Manet è anche il primo che davanti alla tela non vede più un luogo, un rettangolo, dentro cui costruire una visione. Le regole che reggevano da secoli, a iniziare da lui non funzionano più. Oltretutto è cambiato anche la dinamica economica dell’essere artista: non c’è più nessuno che ti dice che cosa dipingere (il committente) ma c’è là fuori tutto un mondo che aspetta che tu dipinga. Il che cosa devi deciderlo tu. E dentro questa libertà le cose o si banalizzano o si fanno maledettamente complicate. Manet lo sa. Sa che lo spazio rappresentato dentro la tela è un’illusione che non tiene più (oltretutto c’è chi lo fa molto meglio e con minor fatica, la fotografia). E che se l’immagine – o la cosa – prodotta su quel rettangolo non è più una rappresentazione che qualcuno guarda, quel rettangolo deve entrare nell’ordine di idee di “vivere” indipendentemente dal fatto che qualche sguardo gli si posi sopra. Deve essere autonomo dal nostro sguardo. E siccome a guidare la mano di Manet è innanzitutto la pittura (nel senso che è come acqua che scende dalle montagne e alimenta i fiumi, il lago, il mare: e chi la ferma?), è la pittura che capovolge se stessa, diventando da meravigliosa, repulsiva. E quindi, dopo averlo attratto, fa calare la saracinesca tra il nostro sguardo e lei.

Manet non fa nessuna resistenza, anzi in quello spazio ambivalente si trova assolutamente a suo agio. Perché intuisce cosa possa essere la pittura una volta che la pittura non ha più forza di bucare il rettangolo, che misura il limite non eludibile di quella superficie piatta, e quindi non è più in grado di offrire visioni credibili a chi guarda. La pittura può essere qualcosa che vive di se stessa, che esiste anche se ci sfugge. Che vive senza essere guardata. Per quel che ci riguarda diventa una cosa che più la indaghi e meno la vedi. Che più ti attrae più si nasconde.

Written by gfrangi

Luglio 2nd, 2013 at 9:02 pm

12 ore a Venezia: Tiziano, Capogrossi e Scarpa

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Carlo Scarpa, 1940

Giovedì 1 novembre, giornata veneziana con truppa di ragazzi al seguito. È il giorno dell’acqua alta a 1,40. Il Canal Grande è qualcosa d’inimmaginabile, vasto, semi deserto, perché solo pochi vaporetti possono solcarlo. A destra e sinistra che parta un canale o una calle, non cambia niente. È solo acqua. La prima tappa è l’Accademia, per vedere La Fuga in Egitto di Tiziano. Il passaggio dal traghetto alla porta del museo è complicato, ma ce la si fa con i piedi a mollo (e moglie sulle spalle…)
Su quel Tiziano giovanile avevo già messo giù qualche pensiero, in occasione della mostra di Londra. È un quadro che dà gioia a vederlo. Ma a Venezia l’occhio arranca per un allestimento angusto, mal congegnato: a me è capitato (ma credo ai più) di entrare nel recinto della mostra, accolta all’interno di quella che era la Chiesa della Carità, da dietro. Cioè di prendere Tiziano di spalle. Già il titolo faceva leva sulla solita enfasi fuori luogo: Il Tiziano mai visto, cosa per altro non vera, dato che era stato in mostra a Londra per due mesi. A Londra il titolo era: Titian’s first masterpiece. A fresh look at nature. Volete mettere? Quel “fresh look” coglieva davvero la quintessenza del quadro.

Come per magia nell’arco di un’ora l’acqua si era riadagiata nel suo alveo. Strada libera dunque per andare alla Guggenheim a vedere Capogrossi. Un piccolo choc ci accoglie: nell’ala sul giardino è stata smontata la Collezione Mattioli per far posto alla neo arrivata Collezione Hannelore B. e Rudolph B. Schulhof. Morandi e Boccioni spodestati, per far largo a tanta America, non particolarmente interessante. Sul terrazzo che dà sul Canal Grande hanno piazzato il grande Calder rosso della collezione Schulhof: ma non sta bene e visto dal traghetto è troppo basso e tagliato dalla balaustra. Neanche gli americani sono perfetti. In compenso quella di Capogrossi è mostra forte e compatta. Una rivelazione per me i quadri dei primi anni, di un realismo magico a un crocevia tra Scipione, Carrà e De Chirico. Poi entra in gioco quel segno totemico che lo accompagna per tutta la vita, e sorprende la sua forza nel riuscire a non togliere mai forza a quel segno reiterato in mille soluzioni. C’è un che di contemporaneo e arcaico nello stesso tempo…

Dulcis in fundo, Isola di San Giorgio, i vetri di Carlo Scarpa. Una sfilata di meraviglie da stropicciarsi gli occhi. Ho capito che la sua grandezza sta nel calare sempre la sua fantasia dentro la ricerca di nuove soluzioni tecniche. La fantasia si misura in una danza continua con la materia e le sue possibilità (quelli con il color lattime, un bianco impalpabile, sfuggente). Non sta mai sui risultati raggiunti, aggiungendo tocchi che gli sarebbero riusciti certamente facili facili. Ogni volta invece chiede al vetro qualcosa di nuovo e qualcosa di più, in un oltranzismo mai ansioso. Sono oggetti senza prosopopea, che non vogliono essere niente di più di quel che sono. Non hanno bisogno neanche di dar sfoggio dell’incredibile perizia tecnica che ha richiesto il farli essere. Sono bellezze armate di certezze e di semplicità, bellezze forgiate in un fuoco tranquillo. A volte guardavo le date, e notavo quanto sia difficile tante volte trovare in loro segni del gusto o dello stile del tempo: con nonchalance ne prescindono. Solo Matisse sapeva fare altrettanto…
Usciti dalla mostra ci aspettava un tramonto leggendario, “rosso Scarpa”, nel cielo sopra la Salute. Con questo negli occhi si torna a casa…

Written by gfrangi

Novembre 8th, 2012 at 11:15 pm

Con Lotto in metropolitana

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lottoTra le sorprese dell’ultimo viaggio veneziano c’è quel grande quadro di Lotto nel transetto destro di san Giovanni e Paolo. Ho trovato solo brutte immagini in b/n e me ne scuso: L’elemosina di sant’Antonino è divisa in tre fasce. Sopra il santo, dolcemente adagiato sul suo trono; al centro i suoi intermediari, che raccolgono le richieste di grazia e dispensano monete; sotto il popolo, con le mani tese. E questa è l’immagine memorabile, come un fotogramma di quotidianità, solcato da tutte le dimensioni che impregnano la quotidianità: l’ansia, la malinconia, la curiosità, l’inquietudine ma anche la svagatezza. Sembra il prospetto di una metropolitana mattutina: una folla casuale, salita su una carrozza ai limiti della capienza. È spiazzante questa capacità di Lotto di calare in picchiata dalla tensione sublime dei piani alti, al concentrato di umanità arrancante del piano basso. Si capisce che Lotto è un grande smarrito, che naviga a vista senza grande certezze: la proiezione ulteriore di questa folla è quella ancor più immiserita e zavorrata dalla fatica della vita, nell’estrema Presentazione al Tempio di Loreto. Lotto è uno di loro: la sua grandezza artistica non è stato sufficiente a riscattarlo, a garantirgli  un orizzonte di certezze, morali o sociali. Dal libro di Tafuri veniamo a sapere che il suo amico Sebastiano Serlio, anche lui intellettuale border line, aveva progettato le prime case popolari per contadini. Sono case per Lotto e per la sua folla.
Il quadro veneziano suggerisce di scovare nella memoria altre grandi immagini di folla. Mi viene in mente il Foppa della Portinari, il Braccesco delle tavolette Kress e Franchetti,  il giovane Tiziano padovano. E poi la folla sessantottarda dell’altare del Santo di Padova. O quelle (tante) dell’ultimo Caravaggio, tese, curiose, ambigue, eccitate… Continuate voi la lista…

Written by giuseppefrangi

Maggio 21st, 2009 at 10:08 pm

Venezia, quando i leoni riposano

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San Marco si propaga come un’onda nel suo sestiere. Prima san Zaccaria, con la facciata che Codussi addolcisce a più non posso con linee curve, archi, archetti, bifore, colonnine, rosoni ciechi. S’intuisce che dal punto genetico di San Marco agli architetti resti addosso un’idiosincrasia per spigoli e linee a punta. All’interno, Codussi dà grande respiro alla struttura tardogotica, alzando arconi e impostando la volta: ma c’è sempre un senso di felice arbitrarietà nei rapporti e nelle proporzioni. Poi San Giovanni in Bragora (il testimone passa dal padre, Zaccaria, al figlio, il Battista…). La facciata è in cotto, ma anche qui i profili sono tutti addolciti e arrotondati: dentro si spalanca il grande Battesimo di Cima, terso sino a sfiorare una santa ingenuità. Poi c’è Santa Maria dei Miracoli: che vorrebbe avere l’energia del vero e proprio scrigno, incastonato nel tessuto urbano del sestiere. I muri esterni sono un susseguirsi ininterrotto di specchiature di marmo che vorrebbero richiamare un gusto fiorentino, ma franano nelle irregolarità e nelle continue eccezioni alle regole. All’interno (che sembra una scatolaliscioa di quelle fatte con il Lego)  gli archetti in alto se ne va per conto loro senza tenere in nessun conto le misure dei rettangoli di marmo delle pareti. Gli anni più o meno sono sempre gli stessi, ultimi del 400 e inizio 500: si vede che Venezia galleggia su trend volutamente defilati e gli architetti lasciano ai pittori il compito di affondare i colpi (Bellini lo fa con magistrale dolcezza: a San Zaccaria, la rotondità dell’abside dorata sullo sfondo si dilata in un respiro che Codussi purtroppo non conosce).

467387087_353f33fab6_bUn sussulto c’è a san Zanipolo, dove si prospetta la meravigliosa e fiabesca facciata della scuola grande di San Marco. Anche qui è un aggregato di elementi, un sovrapporsi e affastellarsi di idee che si sciolgono in una armonia a tratti bizzarra. Tra le idee c’è quella straordinaria dei due leoni che s’affacciano docili e sornioni in un sofisticato altorilievo, da un portale in trompe l’oeil, tutto incastonato di pietre. Il glorioso leone sembra in pausa. Resta il padrone di casa ma non ha nessuna voglia di graffiare. I due mettono fuori il muso per vedere che succede in piazza, come fanno i re nei giorni di riposo. Certo la trovata è strabiliante. Ed è strabiliante che sia lì a portata di mano… Ultima tappa san Giovanni Crisostomo, affondata tra la folla dei turisti. L’ultimo Codussi che accoglie l’ultimo Bellini (1513). Sono stanchi entrambi. Sull’altare principale si fa vivo il giovane Sebastiano del Piombo: uno che è già pronto a partire e a lasciare quel tran tran veneziano.

(morale: l’architettura a Venezia vive di sincretismi. Se da fuori non arrivano schegge di altri mondi e altre civiltà è come se venisse a mancare la linfa)

2. Fine

Written by giuseppefrangi

Maggio 6th, 2009 at 7:21 pm

Venezia, un itinerario antirinascimentale

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2 maggio, giornata veneziana. Itinerario “antirinascimentale”: San Marco (in particolare gli esterni), Libreria Marciana, San Zaccaria, San Giorgio dei Greci, San Giovanni in Bragora, San Zanipolo, Scuola Grande di San Marco, Santa Maria dei Miracoli, San Giovanni Crisostomo, Ca’ d’Oro e Galleria Franchetti.

sanmarco-401Un abbozzo di pensieri. Se è vero che il Battistero di San Giovanni è il punto genetico di tutto la visione fiorentina del mondo (misura, proporzioni, prospettiva: la realtà tenuta sotto un prodigioso controllo intellettuale; grande energia sintetica), è altrettanto vero che San Marco è il punto genetico della visione veneziana (varietas, sincretismo, molteplicità di punti di vista, crescita per aggregazione). È un punto di vista genetico che spiega e tiene dentro tutta Venezia, perché nell’accumulo delle diversità lascia aperti anche spazi di libertà inediti nelle altre tradizioni italiane. Mi ha incuriosito uno sguardo ravvicinato con il lato destro della basilica, quello che confina con la Porta della Carta di Palazzo Ducale. Il muro di quell’ambiente a cubo che all’interno accoglie il Tesoro, ha un rivestimento a specchiature di marmo una diversa dall’altra, per misure, per epoche e per zone di provenienza. C’è assoluta libertà di inserzione di elementi diversi: trovi bassorilievi con motivi simbolici o decorativi innestati nel rivestimento murario. Sullo spigolo il porfido dei Tetrarchi (che dialogano con il gruppo scultoreo – altre quattro figure, più bambino – dello stupendo Giudizio di Salomone, sull’angolo del porticato di Palazzo Ducale. Meno di dieci metri, ma dieci secoli di differenza). Sul basamento del sedile s’inserisce la prima scritta in volgare veneziano che si conosca: “l’omo po far e dire in pensar e vega quelo che li po inchontrar”. Latino, greco, italiano e volgare, San Marco è un crocevia linguistico e architettonico. È un coacervo di elementi che fioriscono uno sull’altra, che convivono senza mai sopraffarsi a vicenda. Di fronte le due colonne quadrate con racemi provenienti da san Giovanni d’Acri. Sopra i capitelli non reggono niente, non hanno una funzione: però ci stanno.

Da questo si capisce l’idiosincrasia che Venezia ha per il Rinascimento. Lo argina per decenni. Poi nel 1527 arriva Jacopo Sansovino, uno dei tanti protagonisti della diaspora romana dopo il Sacco, e quindi anche Venezia è costretta ad aprire la partita. L’impatto è raccontato in quel meraviglioso libro che è Rinascimento a Venezia di Manfredo Tafuri. Si vede come la cultura lagunare medi e addomestichi le nuove visioni d’importazione. E c’impieghi poco a metabolizzarle. Quando la sfida si farà seria, con l’arrivo del Palladio, Venezia pensa bene di tenere ai margini (in senso urbanisitico) la spettacolare compattezza intellettuale dei nuovi manufatti: San Giorgio e il Redentore fanno spettacolo di sé sull’altra sponda… Scrive Tafuri: «Sansovino imparerà la difficile arte della mediazione, ma Palladio imporrà (o tenterà di imporre) i suoi microcosmi architettonici in una Venezia da essi letteralmente “interrotta”».

1. continua

Written by giuseppefrangi

Maggio 3rd, 2009 at 2:34 pm