Robe da chiodi

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Il rametto di Van Gogh

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È stato molto interessante l’incontro attorno al libro di Mariella Guzzoni su Van Gogh, che si è tenuto alla Casa della Cultura. Protagonisti l’autrice e Rocco Ronchi, filosofo capace di intelligenti “disvelamenti” delle immagini. Punto di partenza una questione lanciata nel libro: perché in una delle più celebri versioni dei suoi quadri con le scarpe Van Gogh nell’angolo destro trasfigura la stringa in una sorta di rametto? Perché spiega Guzzoni nel suo libro, l’attenzione (o meglio l’autentica infatuazione) di Van Gogh per le stampe giapponesi è qualcosa di così profondo da toccare il dna della sua pittura. Quel rametto è un’inserzione che cambia le carte in tavola e introduce un elemento che non rientra nello schema con cui abitualmente si legge Van Gogh: la realtà come punto di verità. Non a caso Martin Heidegger nel suo L’origine dell’opera d’arte sceglieva proprio questo quadro come emblema del suo ragionamento: «L’opera d’arte ci ha fatto conoscere che cosa veramente sono le scarpe […] il quadro di van Gogh è l’aprimento di ciò che il mezzo, il paio di scarpe, è in verità». Ma quel dettaglio del rametto mette in crisi questa lettura. Come ha spiegato Ronchi dettaglio è diverso da particolare. Dettaglio è un qualcosa in eccesso che cambia l’insieme. E il rametto ha questa funzione.
Cosa è successo allora? Che l’impatto con l’arte giapponese non ha giocato solo come aspirazione o come suggestione di superficie, ma ha agito nel profondo, come già era accaduto con Manet. L’arte giapponese fissa un punto di non ritorno, in quanto riporta la storia della pittura sulle due dimensioni. La pittura perciò non ha più una profondità. La grande costruzione del 400 italiano aveva esaurito tutte le sue potenzialità e quindi c’era da riaprirsi un’altra via, se non si voleva ridurre la pittura a mera illustrazione.
Se è su due dimensioni, la pittura diventa di natura simile alla scrittura, ha spiegato Ronchi. Tra loro non c’è più una differenza di natura ma solo di grado, come appunto avviene abitulamente nelle stame giapponesi. La pittura è scrittura; e l’orizzonte nel quale agisce l’artista è quello di “dipingere la pittura” (così Morandi parlava di sé). Gli orizzonti che si aprono sono ovviamente infiniti, come dimostra tutta l’arte del 900: il linguaggio diventa il cuore dell’evento pittorico, la sua scommessa. Ovviamente, a differenza dell’arte giapponese la natura dell’arte in occidente è quella di non restare mai bloccata. Quindi quel contatto ha funzionato da reagente per far ripartire la storia…

Written by gfrangi

Gennaio 26th, 2017 at 9:47 am